a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo

 

[All’inizio dell’anno, Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo hanno dato avvio un un’indagine, in forma di questionario, sulla valenza sociale della poesia contemporanea. Dopo Ivan Schiavone, Charles Bernstein,Marilina Ciaco, Nathalie Quintane e Rachel Lamoureux, Michele Zaffarano, Vincenzo Frungillo, ospitiamo oggi le risposte e le riflessioni di Paul Vangelisti].

Fame di Parola

di Paul Vangelisti

 

Alcune considerazioni, perlopiù di natura storica, sull’uso, nella poesia statunitense, dell’“io” e il suo più raffinato collaboratore, il “noi” autoriale, didattico o di commento. Credo sia utile al lettore italiano cominciare da Walt Whitman e da quella che si presenta spesso come la tradizione “profetica” nella nostra letteratura.

A deludere non è tanto la petulanza di questa tradizione (ci si può anche prender gusto, come fanno, per esempio, i poeti della New York School); è una tendenza retorica che ha infettato la poesia nordamericana fin dai tempi di Whitman: l’uso di un’oratoria (o di un “pontificare”) con l’intento di accaparrarsi più vasti consensi. Vestendo i panni dell’osservatore politico, il poeta spesso soccombe alla tentazione di scambiare opinione per poesia.

 

A ben guardare, è una forma di nostalgia, come se la rivoluzione moderna, in poesia, non fosse mai accaduta, e i versi fossero semplicemente prosa ornata. Non c’è alcuna sfida in questo tipo di discorso, nessuna “Fame di Parola” (è una frase di Roland Barthes), capace di rendere la lingua poetica refrattaria ai compromessi e, in ultima analisi, unica nel suo rapporto con il linguaggio. Invece, al cuore di questo pontificare poetico, c’è il buon vecchio spettacolo americano, lo stesso che si vede negli editoriali dei giornali o alla TV, oppure c’è il tentativo di arrivar per primi alla più recente polemica sul politicamente corretto, con quei suoi pietismi su una qualche nozione delirante ammannita per le “masse”.

Si consideri la prima edizione delle Foglie d’erba, di Whitman (quella “originale”, del 1855), scritta, progettata, composta, e impressa dallo stesso poeta, nella sua tipografia di Brooklyn, dove lavorava. Questo volume notevole è stato ristampato per la prima volta nel 1959, dalla Viking Press, in una edizione anastatica, curata e con un’introduzione di Malcolm Cowley. L’originale del 1855 è un’occorrenza ben strana. Non c’è indicazione dell’autore sul frontespizio, semplicemente, allineato verticalmente, quanto segue, chiuso da un punto:

 

Leaves
of
Grass.

Poi un ornamento orizzontale, centrato, sotto il quale, anch’esso centrato, si legge “Brooklyn, New York/ 1855.” Come se l’autore fosse la stessa Brooklyn, il quartiere popolare delle tute blu. Sulla pagina a fronte un’incisione mostra un gentiluomo barbuto, con un largo cappello, in maniche di camicia, la mano destra orgogliosamente posata sul fianco, la sinistra in una tasca. Non proprio l’immagine tipica di giovane poeta del diciannovesimo secolo.

Seguono cinquanta sezioni (1336 versi) di un lungo poemetto, “Canzone di me stesso”, seguito a sua volta da undici poesie più brevi (per ciascuna delle quali si ripete il titolo “Foglie d’erba”, seguito da sottotitoli in parentesi quadre: “Una canzone per le faccende”, “A pensare al tempo”, “Gli addormentati”, “Canto il corpo elettrico”, “Volti”, “Canzone di chi risponde”, “Europa”, “Una ballata da Boston”, “C’era un bambino che andò avanti”, “Chi impara per bene la mia lezione”, e “Grandi sono i miti”. Il tutto racchiuso in un formato smilzo, agile, di meno di cento pagine, da “poterselo mettere in tasca”, nelle intenzioni del poeta. Il volume auto-prodotto (in ogni senso dell’espressione) includeva un’introduzione dalla punteggiatura minima, e dall’ellissi persistente, come si vede in questo paragrafo d’apertura:

 

L’America non ripudia il passato né quello che è stato prodotto sotto le sue forme o nel mezzo di altre realtà politiche né l’idea di casta né la vecchia religione… accetta la lezione con calma… non è impaziente dal momento che si sa che la vecchia pelle rimane attaccata alle opinioni e ai costumi e alla letteratura mentre la vita cui erano state utili s’è spostata verso la vita nuova di forme nuove… percepisce che il cadavere nasce lentamente, nelle case, dalle stanze da pranzo e da quelle da letto… percepisce che si aspetta un po’ mentre si è alla porta… che era la più adatta al suo tempo… che le sue azioni hanno raggiunto l’erede coraggioso e ben formato… e che è lui il più adatto al suo tempo.

 

Per quanto riguarda la poesia vera e propria, “Canzone di me stesso”, nell’edizione del 1855, comincia così:

 

            Celebro me stesso,

            E quello che io suppongo, lo supporrai anche tu,

            Dacché ogni mio atomo è come se appartenesse anche a te,

            Ozio e faccio posto per la mia anima,

            Mi sdraio e ozio a mio agio… osservo una spiga d’erba estiva.

 

Quando si passa all’edizione del 1871, non c’è più quella stessa energia semplice, né quell’intimità fra poeta e lettore. Rimossa la “Canzone di me stesso”, l’inizio del libro è ridotto a un’invocazione fumosa (nella quale s’inserisce quel “noi” onnipresente):

 

            Vieni, disse l’anima mia,

                        Scriviamo tali versi per il mio Corpo, (dacché siamo una cosa sola,)

                        Che dovessi ritornarci più tardi,

                        Oppure in un futuro lontano, lontano, in altre sfere,

                        Lì fra gruppi di compagni i canti riprenderanno…

 

Il lungo poemetto “Canzone di me stesso” è ridotto a una breve paginetta intitolata “Canto dell’individuo”, con l’infelice incipit: “Canto l’individuo, una persona semplice, separata / Eppure pronuncio la parola Democratica, la parola di Massa.” Non soltanto questa nuova edizione è cresciuta fino a coprire 450 pagine, ma l’originalità della lingua di Whitman è andata persa in mezzo a quella retorica poeticizzante e quelle pose da bardo che ne rendono l’eredità scomoda, almeno per quanto mi riguarda. Nel momento in cui il “noi” rimpiazza l’“io” e il “tu”, sostituendogli quel pontificare dal sentimento esagerato, è chiaro le parole oracolari di “Strappa i catenacci alle porte!!/ Strappa anche le porte dai loro cardini!” sono diventate un’affettazione e un atteggiamento, piuttosto che una sfida.

Lasciando da parte la questione dell’importanza da attribuire all’edizione di Foglie d’erba del 1871, è chiaro che un traduttore ignorerà il primo libro di versi di Whitman a suo rischio e pericolo.

 

Un’ulteriore considerazione. E qui ammetto che quest’idea è estranea a una pratica letteraria più convenzionale. Mentre una porzione della cultura americana rimane non allineata ed antagonista rispetto alla cultura mainstream più in generale, una lezione appare costante, nei miei 55 anni passati a Los Angeles: qui non si dà un centro, un’immaginazione condivisa, nonostante la truffa della cultura pop.

O, detto diversamente, i poeti americani spesso si trovano a contestare l’uso pragmatico della lingua: a trasformare una frase in musica, resistendo ai depistaggi della comunicazione di massa. Il gioco del poeta ha pochi limiti – è questo il messaggio ancora attuale della “Canzone di me stesso” di Whitman – e dipende dal lettore considerare da vicino lo scambio che intercorre fra poeta e poesia. Quel paradigma pericoloso e inevitabilmente radicale – il pubblico – relega il poeta serio ai margini della comunicazione sociale.

 

Si dà uno scopo più mirato del semplice épater la bourgeoisie; intento a una pratica sincera, il poeta è sempre al centro dell’opposizione politica. (Qui si allude al comandamento di Pound, quando dice che la tecnica è la vera prova della sincerità di un artista). E dunque quel “noi” di commento non può che mortificare l’energia di una frase; ogni qual volta sarà necessario costituire un pubblico, non si potrà, allo stesso tempo, contestarne le aspettative. La poesia ha una capacità ineguagliabile di iniettare ambiguità nel discorso, per questo la letteratura mainstream e le sue pubblicazioni reagiscono nel più ostile dei modi alla sfida che essa rappresenta intrinsecamente. In Humboldt’s gift, il narratore di Saul Bellow descrive in questi termini il ruolo del poeta:

Questa situazione spiacevole è particolarmente apprezzata dall’America degli affari e della tecnologia. La nazione è orgogliosa dei suoi poeti. Trae una soddisfazione speciale dalla testimonianza dei poeti, di come gli USA siano troppo grandi, troppo ruvidi, troppo esagerati, e di quanto la realtà americana sia schiacciante. E dunque i poeti sono amati, ma proprio perché qui non hanno alcuna possibilità di farcela.

 

Qui da noi i poeti li amano a morte.

 

Paul Vangelisti

Pasadena, August 2023

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