di Xhejn Xhindi
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti
Che uso si può fare di autorǝ come Haraway, Latour e Stengers? È una domanda che va oltre il chiedersi quale disposizione funzionale permette di collocare lǝ autorǝ nel percorso tra un punto di partenza attuale e un obiettivo – politico – desiderato. Ed è una domanda che può ricorrere spesso durante la lettura di Connessioni ecologiche. Per una politica della rigenerazione: leggendo Haraway, Stengers e Latour (2022), raccolta di contributi di numerosǝ autorǝ edita da Ombre Corte, curata da Andrea Ghelfi e con un saggio conclusivo della stessa Stengers che invece, originariamente, si poneva ad apertura de Il fungo alla fine del mondo (2015) di Anna Tsing.
Come segnalato nell’introduzione, il libro è frutto di due momenti collettivi accaduti tra il 2018 e il 2019, i cui interventi sono stati ripresi in mano e riutilizzati per essere raccolti in un unico corpo, che si sviluppa in esplorazione dei pensieri di Haraway, Latour e Stengers. I testi sono sempre in qualche modo in un dialogo – esplicito o implicito – con situazioni politiche attuali, in relazione con forme di movimento o attivismo e a volte in un incontro-scontro con il mondo accademico. Quello politico, infatti, è sicuramente uno degli usi più importanti e urgenti a cui Haraway, Latour e Stengers si prestano, anzi: è proprio la riarticolazione del politico che lǝ innerva, anima e accomuna e che viene portata avanti dai saggi raccolti nel libro.
Uno dei passi fondamentali in questa riarticolazione è sicuramento l’esercizio del posizionamento, di cui Carlotta Cossutta ci parla soprattutto in relazione alla produzione di Haraway. Situarci ha innanzitutto a che fare con la visibilizzazione del carattere esperienziale del nostro posizionamento politico e sociale: l’esperienza, scrive Cossutta, è allo stesso tempo «uno strumento e un prodotto»[1], ovvero qualcosa con cui ci troviamo a fare i conti, ma anche che elaboriamo attraverso pratiche e conflitti. L’esperienza è ciò che caratterizza il sapere che produciamo, che da forma alle nostre abitudini; è il modo in cui ci collochiamo nelle lotte e negli ambienti, con cui ci relazioniamo con lǝ altrǝ. Si tratta di un processo non pensabile nella dimensione individuale, ma che prende corpo, nella mutevolezza dell’esperienza, in un «fare insieme»[2]: nel vocabolario di Haraway si tratta di sympoiesis, dove contemporaneità e reciprocità (sym) non sono separabili nel divenire della creazione (poiesis). Il posizionamento, ovvero quell’esercizio che ci permette di rendere visibile la nostra esperienza e il modo in cui ci collochiamo nella rete di relazioni di potere in cui ci troviamo, è dunque una pratica dove la distinzione tra individuale e collettivo perde nettezza. In altre parole, è quella pratica dove individuale e collettivo si relazionano in modalità molteplici, che non sacrificano la complessità per definire una prospettiva coerente, fissa, solo faticosamente discutibile. È possibile, dunque, attraverso l’esercizio del posizionamento, indagare traiettorie di sfruttamento, di colonialità e di privilegio in un modo che tenta di tenere conto delle differenze nelle soglie di marginalità, senza per questo definire un orizzonte di opposizioni dualiste (carnefice-vittima, uomo-donna, sfruttatore-sfruttatǝ, ecc.) che ha spesso il sapore della condanna all’inazione. Attraverso il racconto e l’ascolto che animano questa pratica del posizionamento, ci dice quindi Cossutta, è possibile attivare «un processo di avvicinamento reciproco che mantiene sempre chiara la dimensione della differenza e della distanza»[3], con l’obiettivo esplicito di riformulare alleanze e conflitti per «tracciare connessioni e affinità appena possibili»[4].
Sono infatti le opposizioni dualiste e assolute a costituire uno dei principali obiettivi polemici comuni di Haraway, Latour e Stengers. Ed è proprio il dualismo tra umano e non umano, intessuto e attraversato dalle gerarchie e dai binarismi di genere e di specie, che Haraway disordina con la sua figura audace del cyborg. Come scrive Angela Balzano, contrariamente a molte autrici femministe il cyborgfemminismo di Haraway cerca di emanciparsi da una critica totalizzante nei confronti della scienza, che costringe i posizionamenti ad articolarsi intorno ad una assoluta assunzione o assoluta negazione di essa[5]. Questo aut-aut rischia, infatti, di mantenere come presupposto quella stessa divisione tra natura e cultura che la critica vorrebbe smantellare. In questo, i pensieri di Haraway e di Latour si incontrano: negli ibridi come nel cyborg, le protagoniste delle indagini sono le azioni e le loro modalità, non le essenze dei corpi che agiscono. Nella prospettiva femminista di Haraway, il cyborg è ciò che mette luce sul campo di battaglia della riproduzione in un modo che permette di visibilizzare la precarizzazione, lo sfruttamento e la messa a profitto che la femminilizzazione del lavoro, insieme alle tecnologie e alle biotecnologie, causano – senza che per questo ci si debba collocare in una concezione di sviluppo storico che contempli solamente l’arcaismo e il progresso come antipodi di un percorso lineare e unidimensionale. Il cyborg è la figura che ci permette di leggere la grammatica di sfruttamento delle biotecnologie per sottrarci all’impotenza a cui il mito di una natura edenica perduta ci condanna. Diventa così possibile disegnare nuove alleanze e affinità mostruose in grado di concepire e fare fronte a quella complessità che la riproduzione sociale e storica del capitalismo contemporaneo utilizza, invece, come arma di assoggettamento. Sulla stessa scia, anche Elisa Virgili indugia sul problema di come i corpi sessuati si relazionino con le tecnologie da una prospettiva harawayana, attraverso un confronto femminista critico con l’accelerazionismo.
L’emergere dei non umani nelle loro forme di ibridi – che sono, secondo Latour, l’imprevedibile risultato né naturale né culturale della Costituzione Moderna – o di cyborg, attraverso l’uso esplicito della creatività narrativa e della fiction per l’immaginazione di universi di senso nuovi che li comprenda, ha causato non poche tensioni con quelle teorie e correnti tradizionalmente riconosciute come critiche e incisive. In primis con il marxismo, spesso considerate in grado di avere un riscontro più diretto sulla realtà. Questa tensione, che possiamo dire riguardi per lo più quanto è intensa la priorità che si attesta alla cosiddetta «realtà dei rapporti di produzione»[6], ha impegnato e coinvolto Haraway in un confronto serrato con le femministe marxiste, confronto che Miriam Tola ci ripropone nella sua bruciante attualità. L’accusa che le femministe marxiste muovono a Haraway di prendere «le distanze da Marx per abbracciare una politica post-umana blanda e inefficace»[7] restituisce il conflitto che sta alla base di numerose contrapposizioni che oggi attraversano le nostre lotte e luoghi di dibattito. Haraway affronta queste contraddizioni problematizzando il «lavoro come categoria ontologica»[8], ovvero la definizione di lavoro come ciò che contraddistingue l’essere umano e il suo agire. Attraverso la pratica del situarsi è possibile riconoscere invece come l’esperienza delle relazioni di oppressione e sfruttamento comprenda una complessità molto più ampia dell’insieme dei rapporti di produzione. Questo non comporta, quindi, un abbandono o un superamento dialettico di Marx, ma permette di rovesciare completamente l’approccio che chiede “qual è la teoria più vera?”, per porre invece la domanda “che uso se ne può fare?”. In questo modo, è possibile porre in relazione e interrogare, attraverso una prospettiva situata, teorie che partono da priorità differenti ma che non necessariamente devono agire in modalità esclusiva nella formulazione di un orizzonte di senso che sappia concretizzare strumenti di azione condivisi. La posta in gioco, ci dice Tola, diventa quindi «coniugare l’etica dello Chthulucene con la politica del Capitalocene» (p.57), ponendo l’uso delle teorie al servizio delle pratiche, piuttosto che sottoporre le pratiche al vaglio delle teorie. Si tratta quindi di attivare la «capacità di muoversi su più livelli, dalla comune allo stato, ma senza subordinare le pratiche agli obiettivi»[9].
Il problema della critica è notoriamente ricorrente anche in tutta la produzione latouriana. Per certi versi, il rifiuto che Latour ha portato avanti nei confronti dell’approccio critico ha condizionato l’emergere di accuse senza quartiere di apoliticità. Queste accuse, sebbene giustificate dall’ambiguità di molte posizioni che Latour ha assunto negli anni, hanno però spesso mancato di riconoscere come gli attanti – ovvero coloro che esistono in quanto agiscono – di Latour siano ben più radicali e critici di quanto Latour stesso abbia potuto esplicitare a parole. In qualche modo, la centralità dell’azione nella filosofia latouriana è il cardine da cui occorre ripartire per impedire che, come spesso accade, il potere venga presentato come autoesplicativo e, di conseguenza, non interamente spiegato. Al contrario, secondo Latour, seguire il dispiegarsi delle azioni permette che il potere venga spiegato e giustificato e questo accade in quanto, come spiega Francesco Di Maio, l’azione agisce sempre «in un certo modo particolare, non in modo assoluto»[10]. Seguire l’azione del suo dispiegarsi per descriverla non comporta quindi fatalmente un’acriticità che perde di vista le relazioni di potere, al contrario: proprio perché l’azione è sempre particolare, «non si dissolve in un magma indifferenziato»[11]. Dunque, le interpretazioni apolitiche delle opere di Latour sono spesso carenti per due motivi: da un lato, perché non colgono il carattere specifico dell’azione, che non ha bisogno di essere inquadrata entro paradigmi di pensiero per risultare critica e conflittuale; dall’altro lato, in quanto rinunciano a porsi in una maniera attiva che possa portare innanzitutto a chiederci che uso possiamo fare di ciò che stiamo leggendo. In altre parole, un uso posizionato di Latour ci impone di cogliere il carattere conflittuale della sua produzione intellettuale per poterla sottrarre alla pacificazione forzata che l’accademia impone come contrappasso di una circolazione libera – anzi, liberale – del sapere. Gli ibridi, che sono ciò che emerge dal fatto di seguire l’azione nel suo dispiegarsi, piuttosto che inquadrare essenze che si articolano nel paradigma natura-cultura, sono ciò che ci permette di ricostruire paradigmi orientativi dentro – e non prima – l’indagine che stiamo svolgendo. Scrive quindi Di Maio: «lungi dall’essere una benedizione della realtà, la ragione cartografica degli ibridi, pur da sottoporre a critica, propone una nuova diplomatica a partire dal loro riconoscimento. Questa è già ancora tutta politica, tutta conflittuale»[12]. Tuttavia, vi è un grande lavoro da fare per riappropriarci di Latour e, soprattutto, per riappropriarci e riformulare forme di critica che prescindano da quella totalizzante e assoluta da cui tanto Latour, quanto Haraway e Stangers hanno cercato instancabilmente di affrancarsi. È ciò che, infatti, mette a tema Mirko Alagna quando si chiede come fare in modo che l’apertura creativa di «spazi di agibilità»[13] non sia condannata alla perdita di efficacia, mantenendo in qualche modo «una criticabilità intesa come discrimine»[14], per certi versi fondamentale in processi di posizionamento conflittuale.
Pur condividendo molte delle traiettorie con cui Latour cerca di riarticolare il politico, Isabelle Stengers dà a questa operazione un’impronta per certi versi più esplicita e meno fraintendibile. Come sostiene Gilberto Pierazzuoli nel suo contributo, riguardante le cosmopolitiche, Stengers è in qualche modo esplicitamente determinata a «superare le ristrettezze dell’antropocentrismo senza perdersi in uno spazio senza coordinate dove le agency di umani e non-umani non possono trovare un loro esito»[15]. La formulazione dell’espressione cosmopolitiche riguarda infatti l’apertura di uno spazio politico dove, secondo Pierazzuoli, si esplica l’agencement di stampo deleuze-guattariano, ovvero quel concatenamento, o assemblaggio, che costruisce molteplicità le cui caratteristiche dipendono unicamente dal relazionarsi delle agency stesse che le compongono. In questo senso, così come l’azione è sempre particolare, anche l’assemblaggio è sempre assemblaggio «di qualcosa»[16]. La riformulazione dell’agencement deleuze-guattariano, secondo la contaminazione delle agency di Latour e all’interno del campo delle cosmopolitiche di Stengers, porta dunque Pierazzuoli a riconoscere che «agencement ha al suo interno anche un’agentività che trasforma l’assemblaggio nel fare in un assemblaggio secondo un criterio»[17]. Le cosmopolitiche non riguardano quindi, semplicemente, il collassare della divisione tra umano e non-umano in un unico, indifferenziato, campo ontologico, quanto piuttosto la ridefinizione sempre concreta e sempre situata di assemblaggi che non possono prescindere dal farsi contingente della loro relazione, dove le differenze riguardano l’ingaggiare politico di concatenamenti reciproci e non le classificazioni formali e aprioristiche di proprietà ed essenze. Di nuovo, anche Pierazzuoli ci parla di uso, quando, citando Giardini, sottolinea che «l’acqua, l’istruzione sono risorse non naturalisticamente date, bensì costituite dal plesso relazionale dell’uso e della cura […] La stessa genealogia premoderna del ‘comune’, cui spesso si fa riferimento, mettendo l’accento sulla relazione ‘d’uso’ più che su quella proprietaria, comporta la fine del dualismo tra politica ed ecologia»[18]. Fine del dualismo tra politica ed ecologia che lascia dunque spazio alle cosmopolitiche.
L’uso è quindi una relazione che non può definirsi come individuale, piuttosto porta sempre con sé la costruzione di un mondo comune che possiamo considerare campo d’azione e di lotta. Come scrive Nicola Capone nel testo, infatti, possiamo considerare l’uso come «fonte germinativa dell’abitare»[19] che costruisce spazi comuni, i quali sono, echeggiando Hannah Arendt, «la condizione stessa del politico»[20]. C’è un nesso tra lo stare con e l’azione, passando per l’uso, che in qualche modo attraversa i temi di questa raccolta, e che mette in relazione Haraway, Latour e Stengers con Arendt: gli usi collettivi degli spazi – e dei saperi – e la capacità di stare con diventano gli strumenti essenziali per combattere l’impotenza che caratterizza l’idiota, ovvero colǝi che rifiuta, o non è in grado, di partecipare alla costruzione di un mondo comune. Riportiamo dunque una citazione di La Cecla, di cui si serve Capone: «è l’imprevedibilità dell’uso a turbare vecchi e nuovi tiranni»[21]; è l’imprevedibilità dell’uso ad aprire orizzonti di intermittenze nei nostri automatismi di pensiero e autorganizzazione.
L’uso che facciamo delle teorie che studiamo produce assemblaggi e concatenamenti che attraversano e definiscono un campo di azione o di impotenza. Questa consapevolezza non solo ci permette di combattere la falsa neutralità dei saperi, ma anche di sottrarli ad un regime della verità che ne impone la verifica tramite autorità, piuttosto che tramite l’uso. Quando in Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio (2005), di nuovo in confronto con Marx, Isabelle Stengers e Philippe Pignarre ci parlano di «pragmatica della verità»[22], richiamano in qualche modo una verificabilità delle idee basata sull’uso all’interno di una rete di relazioni. Scrivono Stengers e Pignarre: «smettere di interpretare e cominciare a trasformare non significa che va bene tutto ciò che avvia una trasformazione, ma che la verità di un’idea, di una definizione o di un’ipotesi altro non è se non la loro verifica, e cioè il modo in cui un’idea, una definizione e un’ipotesi possono produrre conseguenze che orientano all’azione»[23]. Come sostengono Michele Bandiera ed Enrico Milazzo portando Latour e Stengers tra gli ulivi di Puglia, «è negli squilibri e nelle instabilità delle relazioni cosmologiche che emerge la pertinenza di alcune conoscenze piuttosto che altre»[24]. Un virus, un’epidemia o un batterio come la Xylella Fastidiosa che attraversa gli ulivi, impone di saper leggere in che modo gli attori umani e non umani e i loro interessi determinino modi diversi di conoscere e raccontare un campo cosmopolitico. È in questo senso che per Stengers e Pignarre «il pragmatismo è un’arte delle conseguenze, del fare attenzione, che si oppone alla filosofia dell’omelette, quella che giustifica le uova rotte»[25]. L’ambiguità che ha contraddistinto l’indagine sulla Xylella, come dimostrato dal contrasto tra le posizioni del «paradigma batterico» e del «paradigma suolo»[26], è frutto dell’impossibilità di ridurre tutti gli attori – e gli orizzonti conoscitivi che portano con sé – nella formulazione di una definizione univoca e coerente.
Non diversamente dai funghi di cui Stengers ci parla nel capitolo conclusivo della raccolta, anche noi siamo separatǝ maniacalmente dalla nostra capacità di fare storia con lǝ altrǝ[27], intrecciatǝ in un meccanismo di riproduzione sociale tanto fitto, quanto serrato e, allo stesso tempo, impossibilitatǝ a costruire mondi comuni tramite l’imprevedibilità dell’uso. Per questo motivo diventa fondamentale quell’arte di osservare che per Stengers costituisce ciò che ci permette di non sottomettere la realtà alle proprie categorie[28]: rompere il sortilegio che ci forza alla solitudine e all’inazione attraverso l’ascolto, il racconto, l’esercizio del situarsi e l’uso sempre attivo dei nostri saperi vuol dire portare avanti una «sostenibilità» che è «sempre impegnata in una storia e da una storia, senza principio morale, senza garanzie contro una precarietà che le è intrinseca – dire “ciò vale” implica sempre “per il momento”»[29].
Note
[1] Connessioni ecologiche. Per una politica della rigenerazione: leggendo Haraway, Stengers e Latour, a cura di Andrea Ghelfi, Ombre Corte, Verona, 2022, p.26.
[2] Connessioni ecologiche, cit., p.31.
[3] Connessioni p.27.
[4] Connessioni p.30.
[5] Connessioni p.35.
[6] Connessioni, p.48.
[7] Connessioni, p.48.
[8] Connessioni, p.51.
[9] Connessioni, p.57.
[10] Connessioni P.73.
[11] Connessioni p.73.
[12] Connessioni, p.80.
[13] Connessioni, p.91.
[14] Connessioni, p.91.
[15] Connessioni, p.106.
[16] Connessioni, p.105.
[17] Connessioni, p.105.
[18] Connessioni, p.107.
[19] Connessioni, p.123.
[20] Connessioni, p.113.
[21] Connessioni, p.123.
[22] Philippe Pignarre, Isabelle Stengers, Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio (2005), IPOC, Milano, 2016, p.25.
[23] Stregoneria capitalista, p.25.
[24] Connessioni, p.136.
[25] Stregoneria capitalista, p.25.
[26] Connessioni, p.134.
[27] Connessioni, p.150.
[28] Connessioni, p.146.
[29] Connessioni, p.151.