di Luca Illetterati
I.
No, non firmerò nessun appello di quelli che mi sono stati sottoposti in questi giorni. E mica perché non siano sacrosanti e giusti. È sacrosanto e giusto chiedere – mi verrebbe da scrivere pretendere – il cessate il fuoco, la cessazione di azioni che anche al più neutrale degli osservatori non possono non apparire come crimini di guerra, la fine di questo insopportabile e orrido strazio di vite, uccise – e questa è la cosa più terribile – in quanto semplicemente sono ciò che sono o forse sono dove altri pensano che non dovrebbero essere. E nemmeno non firmo, perché pensi che firmare non abbia senso, che sia – come sostengono alcuni altezzosamente – un inutile esercizio che mette la coscienza a posto e consente a ciascuno di noi, dopo averlo fatto, di starsene seduti in poltrona ad ascoltare serenamente Bach o Taylor Swift nel tepore di un autunno ancora nostalgico dell’estate che si è lasciata alle spalle. Firmare un appello è una assunzione di responsabilità con la quale si è chiamati comunque, sia pure magari nell’intimo e non necessariamente in piazza, a fare i conti. E quindi non è vero che non ha senso.
Non firmo – e lo dico con disagio profondo, non con vanto – perché in tutti gli appelli che mi sono stati sottoposti, e che sono sostenuti e sottoscritti da amici e amiche carissim* ai quali e alle quali metterei tranquillamente in mano quanto ho di più caro, avverto sempre una dimensione di squilibrio, o, peggio, il tentativo di esibire un equilibrio posticcio e artefatto e dunque alla fin fine, almeno questo è quello che io provo, un senso di violenza rispetto alla realtà.
Ma è davvero possibile in situazioni come queste essere equilibrati, razionalmente corretti e pretendere di tirar fuori il linguaggio da una violenza che è nelle cose stesse di cui si sta parlando?
No, certo, non lo è. Nel momento stesso in cui si prende parola in questioni come questa si è già dentro. I conflitti sono in fondo questo: l’impossibilità di reclamare uno spazio di neutralità se non uscendo dal conflitto stesso, ovvero uscendo dalla cosa stessa del conflitto. E tuttavia al contempo il conflitto, questo conflitto, è del tutto intrasparente se non lo si legge in modo complesso, se non si è in grado di ascoltare le ragioni del torto e il torto delle ragioni e se non ci si pone dentro quello spazio impossibile e aporetico che non ha nulla a che vedere con l’equidistanza o lo sguardo dall’alto, ma vuole invece farsi carico della contraddizione stessa, ovvero della legittimità di opposti che mirano a distruggersi reciprocamente e insieme dell’illegittimità di ciascuno di pretendersi come unico, vero e giusto rispetto all’altro.
La verità è l’intero, diceva quello. Che è una posizione notoriamente pericolosa perché non di rado, come la storia testimonia, in nome dell’intero si oscurano le ragioni delle parti. Ma ciò che quella proposizione dice è soprattutto che il pericolo più grande è consentire alla parte di trasformarsi in intero, di pretendersi totalità e di ridurre a sé l’alterità. La verità dell’intero, in questo senso, non è mai una verità pacifica; è una verità che vive della tensione che la abita, che sa di potersi reggere solo attraverso l’esplicitazione della sua conflittualità essenziale, ovvero attraverso il riconoscimento delle ragioni del torto e del torto delle ragioni.
II.
Molti hanno seguito in questi giorni la storia di Zerocalcare, il quale, volgarmente attaccato da un giornalista sputasentenze per aver espresso il suo disagio alla partecipazione a una manifestazione fumettistica patrocinata anche dall’ambasciata israeliana e dunque per la sua decisione (dal mio punto di vista sbagliata) di ritirare la sua partecipazione da quella manifestazione, ha risposto con grande onestà rivelando le sue incertezze, i suoi pregiudizi (tutt* noi, grazie a dio, ne abbiamo), i vincoli affettivi che lo legano a persone e a situazioni che ha conosciuto, a cui è legato. Nella striscia in cui racconta di questa sua decisione, il fumettista, con la consueta schiettezza e sincerità (che è ciò che, alla faccia di coloro che si scandalizzano, ha reso possibile che un personaggio come Zerocalcare sia andato assumendo, suo malgrado, un ruolo di riferimento per molti giovani più o meno appartenenti al paesaggio frastagliato di una sinistra senza casa) ha messo in scena un dialogo con una ragazza palestinese che sostanzialmente gli dice che partecipare a quella manifestazione con quel patrocinio significa, volenti o nolenti, stare dalla parte avversa alla sua, schierarsi con Israele e contro la Palestina. Perché non esiste neutralità, non esiste uno spazio franco quando i simboli di una parte o dell’altra entrano in gioco. Ed è sostanzialmente per questo che ha deciso di non partecipare a quella manifestazione.
Io un dialogo simile a quello evocato da Zerocalcare ce l’ho avuto con un’amica israeliana. Una che è più o meno come me, che condivide cioè la maggior parte dei valori a partire dai quali cerco di dare senso alle mie azioni, alla mia quotidianità, con la quale condivido, in senso generale, un’idea di mondo, di comunità e di futuro per cui cerco, a volte con più impegno, a volte con meno, di darmi da fare.
La prima cosa che l’aveva colpita – mi ha raccontato quando l’ho sentita – è stata la reazione (nostra, dice lei, in una logica che mi mette ogni volta terribilmente a disagio, ma che comprendo) dopo il 7 ottobre. Una reazione strana, anche se, a suo dire, tipica. Una solidarietà piena di “ma”, di “però”, di “tuttavia”. Come se l’orrore per quello sterminio – 1400 persone trucidate in quanto ebree e più di 200 ostaggi portati via dalle loro famiglie – per il fatto di essere perpetrato da chi si pretende essere il rappresentante dell’oppresso, fosse dunque meno orrore. Ne ha parlato anche Amira Hass su Haaretz, di queste reazioni, in un articolo tradotto in italiano da Internazionale. Le reazioni dei palestinesi e dei loro sostenitori in occidente, scrive Hass, sono state molteplici e variegate, e andavano dalla gioia esplicita per il successo dell’operazione alla comprensione dei suoi motivi con una tiepida condanna degli esiti estremi fino a una condanna più esplicita anche se perlopiù motivata dai risvolti pragmatici negativi che tale azione avrebbe comportato per i palestinesi stessi. In certo modo il tratto che accomuna queste posizioni, secondo Hass, ovvero quelle dei palestinesi e dei loro sostenitori, è che essi considerano la condanna piena e pubblica dell’attacco di Hamas come una implicita assoluzione dell’occupazione israeliana. Giustificare gli orrori di Hamas, ignorarli o relativizzarne la portata – come fanno, secondo Hass, in occidente gli esponenti della sinistra radicale che appoggiano i palestinesi – ricorda, sempre a parere di Hass, l’atteggiamento delle organizzazioni comuniste e dei movimenti di liberazione del cosiddetto “terzo mondo” di fronte ai metodi spaventosi impiegati nel blocco sovietico e nei paesi considerati socialisti. D’altra parte, gli israeliani e i loro sostenitori, sostiene ancora Hass, a loro volta unilateralmente considerano le spiegazioni relative al contesto politico, storico e perfino psicologico degli attacchi come tentativi di giustificarli. Per cui qualsiasi discorso si proponga nel tentativo di inquadrare quanto accaduto dentro un quadro interpretativo più ampio, viene subito etichettato come un discorso connivente con Hamas.
La mia amica, più semplicemente, ma anche più pragmaticamente, mi dice che quell’orrore produrrà una guerra, che porterà sangue, disperazione, altro orrore. L’orrore del 7 ottobre, dice, sostanzialmente afferma che Israele non deve esistere. E poiché Israele invece deve esistere – dice – quell’orrore non potrà che produrre orrore.
III.
A un amico a cui ho detto, dopo il dialogo con la mia amica di Gerusalemme, che Israele deve difendere la sua stessa esistenza è venuto un po’ da sorridere. “Ti pare davvero che il ricco e potente Israele – ricco di denaro e ricco di armi – debba temere per la propria esistenza a causa dei palestinesi?”, mi ha detto burlandosi un po’ della mia dabbenaggine. La questione, in realtà, almeno a me pare, è meno peregrina di quanto non sembri al mio amico. Certo ha ragione il mio amico a pensare come una prospettiva perlomeno improbabile la fine dello Stato di Israele, ma, sic stantibus rebus, a patto di vivere costantemente in guerra. A patto cioè di perpetrare la guerra. Israele è aggredito e minacciato – dice la mia amica di Gerusalemme – in quanto esiste, per il fatto che esiste. “Lo so – dice – voi pensate che Israele sia minacciato e aggredito per le ingiustizie di cui è colpevole nei confronti dei palestinesi. Lungi da me il negare le ingiustizie – continua – ma vi dovete mettere in testa che intrecciate a quelle ingiustizie per le quali io sono scesa, scendo e scenderò in piazza, c’è l’idea che noi, Israele, non dobbiamo esistere”.
Mi ha colpito a questo proposito il racconto di un amico che parlando con alcuni conoscenti italo-israeliani, si è reso conto che essi, di fatto, inconsciamente, parlavano di Israele al passato, come qualcosa di destinato a sparire.
IV.
Io non sono un esperto, non ho né le competenze storiche, né geopolitiche, né tantomeno di diritto internazionale per valutare questioni tanto complesse, stratificate, e non di rado incistate dentro questa matassa ingarbugliata. Certo è che se la soluzione dei due popoli due stati (soluzione che è comunque il segno di una sconfitta dell’umanità) non ha finora trovato realizzazione, lo si deve certo in misura preponderante – perlomeno dopo il rifiuto di Arafat – ai governi israeliani e in particolare ai governi di destra come quello guidato ora da Benjamin Netanyahu, in misura niente affatto marginale ai palestinesi (ovvero alle loro leadership, ad Arafat in primis), al mondo arabo in generale e certamente a un occidente incapace di pensare seriamente quel conflitto. Ma ciò che sta evidentemente alle spalle dei fallimenti e delle non volontà di andare in quella direzione è l’enorme problema di un mancato riconoscimento della reciproca legittimità, un mancato riconoscimento che ogni volta che sembra possibile avvicinarsi a un compromesso manda poi tutto a gambe all’aria. Come è noto, per quanto nel 1993 l’allora presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Yasser Arafat abbia politicamente riconosciuto lo Stato di Israele in una lettera ufficiale inviata all’allora primo ministro Yitzhak Rabin, in ottemperanza dei cosiddetti accordi di Oslo, l’articolo del suo statuto che auspica l’eliminazione dello Stato di Israele, per quanto alcuni interpreti lo ritengano superato da atti formali di riconoscimento, non è mai stato cancellato.
Tale questione, quella del riconoscimento, non è una questione banale, marginale, ‘teoretica’, come pensano alcuni. E’ una questione intrecciata alla storia stessa di Israele, alla necessità di Israele e a una sorta di sua costituiva – e vorrei dire essenziale nel senso di radicata nella natura stessa dell’ebraismo – mancanza di fondamento.
Una storia e una necessità, quella dello Stato di Israele, che non si stagliano certo dentro un manto di purezza. Come scriveva Amos Oz, se da una parte lo Stato di Israele sorge indubbiamente dentro un peccato originale nei confronti dei palestinesi, dall’altro lato lo Stato di Israele è l’unica soluzione storicamente possibile della vicenda ebraica. Una situazione che pone Israele dentro una paradossalità e aporeticità che non possono essere in alcun modo relativizzate e semplificate e che anzi devono essere assunte in modo radicale se si vuole fare i conti con la necessità della sua esistenza.
Raccontando dell’arrivo dei suoi genitori in Palestina, Oz dice:
A quel tempo l’Europa era tappezzata di graffiti: ebrei, andatevene in Palestina. Quando, molti decenni dopo, mio padre tornò in Europa per un viaggio, la trovò coperta di altre scritte: ebrei, fuori dalla Palestina.
Israele è questa contraddizione. E se non si muove da questa contraddizione credo non si facciano i conti né con la realtà, né con la storia. Se non si fanno cioè i conti con questa contraddizione che è costituiva della storia e della vita di Israele, della storia e della vita dell’ebraismo, e dunque della storia e della vita dell’occidente, non si fanno i conti – credo – con la verità.
V.
Un mio maestro, l’ultimo che mi è rimasto essendo gli altri due che mi piace pensare tali entrambi prematuramente morti, in un suo romanzo da pochi purtroppo letto, metteva in scena nell’epilogo il dialogo con una donna ebrea uscita viva molti anni prima da un campo di concentramento. A un certo punto, in una atmosfera particolare, al buio, dentro un rifugio di montagna con fuori una tempesta di neve, si trovano a parlare, con la sincerità che solo il buio e l’eccezionalità della situazione consentono, del sionismo. “Lo sa – dice la donna – che il sionismo, che oggi suona come un insulto, è nato come movimento di difesa di una minoranza, e quindi di ogni minoranza? In principio – continua – il tentativo di mettersi al riparo dall’antisemitismo si era concentrato nella ricerca per gli ebrei di una terra che fosse senza popolo (…). Ma erano utopie, perché si basavano solo su astrazioni di una ragione sradicata dalla storia e che finiva per non tenere conto della forza immensa della tradizione. Questa portava invece verso la Palestina. Solo che la Palestina non era una terra senza popolo, ma la minoranza ebraica trovò là di fronte a sé un’altra minoranza, l’arabo-palestinese, con diritti uguali ai suoi”.
È questo il peccato originale (l’impossibilità) su cui sorge la necessità di Israele. Pensare il conflitto al di fuori di questa dimensione tragica in cui principi opposti reclamano dei diritti che si possono affermare solo agendo ingiustamente l’uno contro l’altro, significa non pensare la realtà.
In una tale situazione, ovvero in una situazione tragica dove entrambi i principi in gioco hanno ragioni da far valere sul principio opposto, l’unica possibilità è quella che sempre il mio maestro chiamava, un’invenzione etica, la capacità di rinunciare a una parte di sé per consentire all’altro di essere. E aveva l’ardire di pensare che questa invenzione etica – mi verrebbe da dire, se non suonasse, come temo, offensivo, il privilegio di questa invenzione – spettasse innanzitutto agli ebrei che sanno che «la nostalgia abita nel cuore di Dio».
VI.
Pensare una via d’uscita dal conflitto israelo-palestinese è in fondo pensare l’impossibile. Ma non nel senso di pensare ciò che non può in alcun modo essere. Quanto piuttosto nel senso di andare al di là di ciò che l’orizzonte del possibile, del prevedibile, del calcolabile e del programmabile implica. Significa, appunto, aprirsi alla possibilità dell’invenzione, aprirsi alla possibilità di qualcosa che ecceda l’ambito del solamente possibile. Parlare dell’impossibile come eccedenza rispetto al solamente possibile significa considerarlo nel senso in cui ne ha trattato, ad esempio, Jacques Derrida, filosofo ebreo-algerino, che diceva di sé, vale la pena ricordarlo in questo contesto, che se aveva una lingua (un’identità, una storia, una tradizione) non era la sua. Pensare l’accadere dell’impossibile, per Derrida, significa pensare la possibilità di un evento che non rientra nell’ordine della semplice attualizzazione di un possibile, del semplice passaggio all’atto, della realizzazione, della effettuazione, del compimento teleologico di una potenza, ovvero del processo di una dinamica dipendente da ‘condizioni di possibilità’. Pensare l’accadere dell’impossibile significa, piuttosto, pensare l’interruzione di una catena di connessioni conseguenti e coerenti, l’irruzione di qualcosa che spezza e ferisce l’orizzonte di attesa. Le figure dell’impossibile sono per Derrida, come è noto, fra le altre, quelle dell’invenzione, del dono, del perdono, dell’ospitalità, dell’amicizia, della promessa, dell’esperienza della morte. Tutte dimensioni aporetiche, che per essere, per poter essere, non devono rivelarsi, in quanto nell’atto stesso in cui si rivelano scompaiono, vengono cioè assorbite da una logica – la logica ad esempio economica dello scambio – che è la loro negazione. In questo senso è evidente che l’impossibilità di cui parla Derrida non è la mera negazione del possibile: si tratta piuttosto di una impossibilità che introduce al possibile. L’impossibile, dunque, inteso in questo senso, non è il semplice contrario del possibile, quanto piuttosto ciò che si consacra al possibile. È l’apertura a un avvenire che eccede le condizioni di possibilità del suo realizzarsi.
Pensare un avvenire rispetto al conflitto israelo-palestinese significa pensare la necessità dell’impossibile. Ma per pensare questa necessità è necessario innanzitutto non ridurre il conflitto a quello di una ragione contro un torto. Dentro una tale logica non ci può essere soluzione se non nei termini di un prevalere di una parte sull’altra.
VII.
Per questo non firmerò gli appelli che hanno firmato i miei amici e i miei colleghi dell’università. Perché gli appelli che ho letto sembrano aver già deciso la logica che attraversa la matassa senza fare i conti con le ragioni del torto e con il torto delle ragioni. Negli appelli che ho letto si dice che comprendere e analizzare gli elementi determinanti dell’attuale crisi è l’unica possibilità per poterne riconoscere le radici, contrastare l’escalation e sperare e reclamare pace e sicurezza per tutti. Quegli elementi determinanti non nominano però la necessità di Israele, ma solo le condizioni di oppressione di cui Israele è responsabile nei confronti del popolo palestinese. Non firmerò, perché quegli appelli non chiedono la liberazione immediata degli ostaggi e chiedono invece di procedere con l’interruzione immediata delle collaborazioni con istituzioni universitarie e di ricerca israeliane, cosa che a me pare insensata, soprattutto quando penso che come accademici siamo rimasti tutti buoni e silenti di fronte alle patetiche genuflessioni rettorali nei confronti, ad esempio, del primo ministro cinese Xi Jinping, fonte di denaro e affari indipendentemente dal rispetto delle condizioni di libertà dei cittadini e dei ricercatori cinesi. Il motivo profondo per cui però non firmo quegli appelli dipende dal fatto che mi sembra essi evitino di pensare questa connessione di necessario e impossibile che è connessa alla storia di Israele, che è connessa al conflitto israelo-palestinese e che è connessa allo stesso tempo alla nostra storia, al nostro essere parte di una storia che non sta semplicemente accadendo là, ma che ci coinvolge direttamente. E rispetto alla quale assumere una posizione unilaterale, fuori dalla tragedia e dunque dalla contraddizione che la tragedia comporta, è alla fine un modo per autoassolversi.
I
Il conflitto tra palestinesi e israeliani è una questione complessa che impone cautela a chi ne discuta. Chi volesse trattare questo tema dovrebbe, infatti, respingere la logica binaria da partita di calcio. Molti, invece, tendono ad emettere sentenze globali di condanna, con tutti i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Sarebbe bene che chi intendesse pronunciarsi su questo tremendo conflitto si limitasse a esporre le sue idee su aspetti specifici della questione e non sull’intero tema. Proporrò, da parte mia, alcuni spunti di riflessione , talvolta provocatori, su particolari aspetti del delicato soggetto.
1.Ebraismo = una religione-nazionalità? 2.Il popolo ebraico è l’unico fra i popoli ad essere nato in esilio. 3.La Bibbia: per alcuni è un libro di fiabe, miti e leggende, e per altri un testo di storia e un titolo di proprietà fondiaria. 4.Divergenza tra l’immagine degli ebrei fornitaci da libri e film (vedi Hollywood), e gli ebrei che noi conosciamo (in Canada e negli USA). 5.I bombardamenti sui civili in Palestina intaccano pericolosamente l’immagine degli ebrei, eterne vittime delle cattiverie altrui. 6.Il mito di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. 7.Ebraismo genealogico: sorta di DNA etno-religioso? 8.La dichiarazione di Balfour e la nascita d’Israele 9.Ghetti imposti vs volontà di non farsi assimilare. 10.Lo spirito esclusivistico degli ebrei. 11.Lo spirito implacabile dell’Islam ortodosso. 12.La nascita dello stato d’Israele: la perdita dell’innocenza degli ebrei, già vittime dell’implacabile logica dei patriottismi altrui. 13.La promessa per millenni fatta ma non mantenuta: “L’anno prossimo a Gerusalemme”. 14.Fanatismo religioso ebraico e fanatismo religioso islamico. 15.Una regola trascurata dai musulmani e dagli ebrei: Dare a Cesare quel che è di Cesare… 16.Olocausto e Shoah, termini religiosi che designano fatti storici ormai sacralizzati in Occidente. 17.Le cause dell’antisemitismo. 18.Un neologismo che s’imporrebbe: “filosemitismo”. 19.Islam e ebraismo, religioni totalitarie? 20.Un reato che si chiama revisionismo. 21.Le due anime di Israele in conflitto: la laica e la religiosa. –22.Antisemitismo: la misteriosa tara genetico-spirituale che affligge i non ebrei. 23.La soluzione dei due stati. 24.Dopo la drastica eliminazione finale, grazie anche alle atomiche, del male assoluto, vi è stata invece l’inaspettata nascita di tanti nuovi mali. E le nascite continuano. 25.Un’idea provocatoria: l’adozione del multiculturalismo di Stato (idea cara ai buonisti cosmopoliti, nemici delle frontiere) come soluzione ai problemi di Israele, Stato etno-religioso. 26.Perché Hollywood ha trascurato fino ad oggi le traversie dei palestinesi? 27.La piena legittimità dello stato di Israele ad esistere: tutti gli stati sono nati con il sangue e la violenza. 28. La legge del contrappasso: gli ebrei, divenuti cittadini d’Israele, stato etno-religioso e quindi esclusivista, si trovano oggi a combattere i loro “ebrei”: i palestinesi. 29.Spetterebbe al dio d’Israele, autore di tanti interventi e promesse a favore del suo popolo, di intervenire e risolvere finalmente il tutto.
Vi è anche la questione dell’identità ebraica e del “ritorno” in Israele, dopo un paio di millenni di esilio, da parte di coloro che si considerano i discendenti degli abitanti originari di quelle terre. E che dire degli insediamenti illegali di coloni in Palestina, considerati invece da altri sacrosanti?
Molti tendono ad ignorare un fatto sorprendente: Netanyahu ha fattivamente incoraggiato, nel passato, Hamas ad affermarsi contro l’Autorità Nazionale Palestinese: “Questo fa parte della nostra strategia – isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi della West Bank.”
II
La perdita dell’innocenza
La religione, i miti, la storia illustrano e celebrano in maniera spesso grandiosa l’eterna condizione di vittime innocenti degli ebrei raminghi per il mondo, in esilio dall’amata Gerusalemme, terra promessa, patria spirituale. Con la nascita dello Stato d’Israele, lo speciale amor patrio degli ebrei, ossia il loro particolare senso di fedeltà rivolto a una terra lontana, sacra, metafisica, virtuale, s’intreccia e confonde con quello ormai diretto a un Paese fisico e reale. L’identità d’Israele, divenuto Paese storico, fisico, politico da Paese virtuale, religioso, metafisico che era, non coincide pienamente con l’identità tradizionale degli ebrei della diaspora; identità quest’ultima basata in gran parte su un loro eterno ruolo di vittime innocenti a opera di un continuo, misterioso odio belluino da parte altrui. Ma l’egoismo nazionale israeliano ha intaccato il crisma della superiorità morale e della diversità assoluta di questo popolo rispetto agli altri. Gli altri popoli persero in epoche antiche l’innocenza aggredendo i vicini, combattendo contro lo straniero invasore, attuando l’esclusione verso gli estranei (tra cui gli ebrei). Tutto ciò per brama di territorio, di senso d’identità collettiva, di solidarietà di gruppo, d’omogeneità, di fedeltà al Paese di nascita. Oggi sta succedendo lo stesso agli israeliani. Anche questi, infatti, avendo adottato la logica del radicamento in un suolo, sono sottoposti alle dure esigenze dell’egoismo nazionale. E lottano cruentemente contro i nemici, contro gli stranieri (i loro «ebrei»), in nome del territorio e dei suoi sacrosanti confini. E hanno perso anche loro l’innocenza.
III
Reciprocità, colpe collettive, revisionismo
Lo spaventoso conflitto in atto in Palestina mette in evidenza alcuni principi su cui è utile riflettere. Comincero’ con la reciprocità, ossia il voler restituire il male che si è ricevuto. Natanyahu fa bombardare la popolazione palestinese senza fare troppe distinzioni. Vuole restituire, con gli interessi, la morte e il sangue che i militanti di Hamas, alias terroristi, hanno arrecato agli israeliani. Da parte loro, i palestinesi potrebbero ribattere che gli incursori hanno cercato di restituire il dovuto per le morti, le umiliazioni e i tormenti da loro subiti nel corso degli anni.
Un altro principio fondamentale nei rapporti umani è il legame collettivo che esiste all’interno di una Nazione, di una comunità, di una collettività, di un gruppo con una storia distinta. Questo legame è evidente negli israeliani, cittadini di uno Stato etno-religioso; e anche nei palestinesi, ma in misura ridotta, dato che non hanno ancora uno Stato. Occorre aggiungere che tra gli ebrei è sempre esistito un legame transnazionale, grazie soprattutto alla Bibbia, che è il loro libro di Storia. I palestinesi, se musulmani, hanno anch’essi un legame transnazionale con gli altri musulmani, ma legame infinitamente piu’ debole di quello degli ebrei, anche perché i musulmani appartengono a nazioni diverse e molti di loro, piu’ che amare i palestinesi, semplicemente odiano gli ebrei.
A proposito della reciprocità, mi è impossibile non ricordare che gli ebrei della diaspora hanno sempre peccato per mancanza di reciprocità nei confronti dei paesi e territori da cui venivano accolti, e dove riuscivano a vivere secondo la propria Legge e i propri costumi, rifiutando l’adesione ai valori storici della terra che li ospitava. Gli israeliani continuano a violare questo principio ancora oggi, a casa loro, nel loro Stato che è a carattere etno-religioso, e che respinge gli stranieri: i non ebrei. Ha scritto l’intellettuale israeliano Yehoshua: “Nelle nostre relazioni con le nazioni del mondo, noi violiamo un principio di reciprocità.” Se infatti le altre nazioni avessero associato nel passato, quando noi ci rifugiavamo da loro, “una appartenenza religiosa ad una appartenenza nazionale specifica, noi non avremmo avuto modo di esigere uno status civico e nazionale tra loro, e tutti gli ebrei avrebbero dovuto abbandonare la diaspora e tornare in Israele.”
È utile anche ricordare anche che, dalla fine della seconda Guerra mondiale in poi, i tedeschi sono stati tra i piu’ accesi sostenitori degli ebrei. Quei tedeschi che avevano commesso su di loro atrocità inenarrabili, e che gli ebrei – vedi Hollywood – hanno per decenni presentato come un popolo demoniaco, di degenerati, afflitto dal culto della guerra e dal razzismo. Il principio della colpa collettiva, un tempo fatto valere ingiustamente contro il popolo ebraico, accusato dai tedeschi di ogni male, è stato pertanto applicato, dopo la sconfitta della Germania, nei confronti dei tedeschi, considerati collettivamente colpevoli; sia i morti, sia i nati, sia i nascituri.
La mancanza di misura dimostrata da certi dirigenti d’Israele nei confronti dei palestinesi, spesso trattati come se appartenessero ad un’umanità inferiore, avrà una grave ripercussione sull’enorme capitale morale che i sopravvissuti della Shoah hanno accumulato negli anni, ergendosi ad esponenti di una comunità quasi angelica, vittima nei millenni della nostra inspiegabile crudeltà nei loro confronti. Ebbene, la storia degli ebrei, popolo nato per essere sempre e solo vittima delle nostre ingiustificabili avversione e crudeltà nei loro confronti, rischia di uscire un po’ revisionata a causa degli attuali tremendi eventi; i quali ci dimostrano che gli ebrei non sono tanto dissimili da tutti noi, non ebrei. E spero, dicendo cio’, di non essere accusato di revisionismo: accusa che fa ancora paura; ma una paura che Netanyahu rischia di far affievolire.
Non ci si può appoggiare a risposte di natura emotiva in questi casi. La soluzione c’è ed è semplicissima, e andava fatta già da diversi decenni a questa parte: riconoscere uno Stato Palestinese autonomo e indipendente. Tutto qui. Dopodiché ché, penso che non ci sarebbero più screzi tra le parti. se perdurano azioni terroristiche o conflitti ai confini, vanno a tutto svantaggio di chi li innescherebbe, in quel caso. Basterebbe leggere wikipedia per capire che cosa succede lì. Palestina
La Palestina (ufficialmente Stato di Palestina; in arabo دولة فلسطين?, Dawlat Filasṭīn) è uno Stato a riconoscimento limitato del Vicino Oriente,[5][6] osservatore permanente presso le Nazioni Unite,[7] de facto occupato in gran parte da Israele. Lo Stato di Palestina rivendica sovranità sui territori palestinesi della Cisgiordania e della striscia di Gaza,[8] con Gerusalemme Est come capitale designata, sebbene il suo centro amministrativo si trovi a Ramallah. Tali territori sono stati prima occupati nel 1948 da Giordania ed Egitto e successivamente da Israele dal 1967 a seguito della guerra dei sei giorni.[9] La Palestina ha una popolazione di 5.051.953 abitanti a febbraio 2020, al 121º posto nel mondo.[10]
“La compassione, diceva Mi-en-leh, è ciò che non si nega a coloro cui si nega l’aiuto. Io non mi metto nei panni di chi soffre per soffrire, bensì per porre fine alle loro sofferenze”
L’impossibile è tale finché non diventa realtà. L’immobilismo sicuramente non contribuisce in nessun modo a realizzare questo salto.
Analisi condivisibile. Non si può prendere posizione se non si presuppone il diritto di Israele a difendersi. Ed è questo che rende tutto più difficile.
Cosa vuol dire, mi chiedo, che Israele deve difendere la sua propria esistenza? Ogni volta che un albero di ulivo palestinese veniva abbattuto dai coloni o dall’esercito israeliani nel corso dei decenni scorsi, Israele difendeva la propria esistenza? Ogni volta che una casa di famiglia palestinese veniva distrutta, Israele difendeva la propria esistenza? Ogni volta che una famiglia palestinese veniva scacciata con la forza dalla propria terra, Israele difendeva la propria esistenza?
Amichai Eliyahu, ministro israeliano degli Affari e del Patrimonio di Gerusalemme, sembra avere le idee chiare circa il diritto di Israele di difendersi. Ha suggerito, infatti, che si potrebbero usare le bombe atomiche nella guerra a Gaza. È stato pero’ sospeso dalla carica.