di Vanni Santoni
[Pubblichiamo, su gentile concessione dell’editore, la prefazione di Vanni Santoni a L’uomo che pesca di Imre Oravecz, uscito per Anfora il 2 novembre. Il libro verrà presentato domani dall’autore e da Demetrio Paolini alle 11 presso il Castello Sforzesco di Milano, nell’ambito di Book City]
Il più trito dei trucchi editoriali per cercare – in genere invano – di far vendere qualche copia in più a una raccolta di racconti, è presentarla in bandella, in quarta o nella prefazione come un romanzo. Parlare allora non solo di romanzo, ma addirittura di grande romanzo, e non per una raccolta di racconti, ma per una silloge poetica, potrà sembrare un esercizio nella più smaccata sfrontatezza paratestuale.
Pure, non è così. Se adesso, qui, asserisco che il lettore che tiene tra le mani questo libro si trova di fronte al Grande romanzo ungherese, nonché a uno tra i vari possibili Grandi romanzi rurali, è perché subito dopo queste mie parole c’è il testo che verrà a sancire la loro veridicità.
Del resto, anche il primo romanzo di Imre Oravecz tradotto in Italia, Settembre 1972, può essere considerato, da una certa prospettiva, una raccolta di prose poetiche, eppure è senz’altro un romanzo, e un romanzo eccellente, nel disegnare (caso rarissimo) una storia d’amore non melensa – e al tempo stesso, grazie a plurimi virtuosismi, disegnarne molte altre, creando, in poche pagine, un prisma che abbraccia l’ampia gamma delle esperienze sentimentali ed erotiche di una vita.
Qui nell’Uomo che pesca, l’impronta lirica è evidentemente più marcata, non solo nella struttura dei testi ma anche nella loro organizzazione, con titoli indipendenti e in alcuni casi provenienze esterne; pure, la lettura del volume dall’inizio alla fine si tradurrà in un’esperienza senz’altro romanzesca, e la natura originariamente poetica del testo servirà anzitutto a dargli una densità tale da poter essere “grande romanzo” in un numero anche qui piuttosto ridotto di pagine.
Il tema è la vita rurale ungherese tra gli anni ’50 e l’inizio dei ’60, quando Oravecz era bambino e ragazzo, o meglio quell’ultimo sprazzo, già devastato, di vita rurale, tra il breve respiro concesso dalla fine della Seconda guerra e l’arrivo delle collettivizzazioni forzate. Per quanto a tratti L’uomo che pesca prenda i toni e i modi dell’elegia bucolica, non è certo casuale che cominci con dei bambini che giocano con delle mine, lascito della guerra da poco finita, va da sé con esiti tragici: ma non mi aveva dato retta, / era incontentabile, / voleva anche la sibilante mina russa a scodella, / nella quale c’era così tanta cresilite gialla, / e voleva anche smontarne la capsula, / gli sarebbe piaciuto disinnescare anche quella, / eppure non valeva mica / quanto la sua mano, / che l’esplosione si è portata via.
Il mondo rurale in cui vive il piccolo Oravecz – o l’anonimo bimbo che è quasi sempre il punto di vista privilegiato nell’Uomo che pesca – è dunque già mutilato, spossato, vulnerabile. Certo, ancora esiste la presenza (o è già memoria?) dei fienili, delle bestie, degli stanzini in cui vivevano le nonne, di una vitalità rurale che passa dai giochi tradizinali ai primi, tentati amplessi, ma la sensazione è diversa da quella dei dopoguerra che troviamo nei romanzi dell’Europa occidentale, dove c’è magari da confrontarsi con nuovi problemi, con inattesi esistenzialismi, col vuoto del consumismo, con la caduta di idoli e valori o con l’impossibilità di una vera rivoluzione, ma nei quali in fondo si respira sempre una grande aria di sollievo. No, nelle campagne dell’Uomo che pesca la sensazione persistente, incombente, è che il peggio non sia passato.
Forse per questo si preferisce guardare indietro, a un mondo davvero contadino che pure si sa non essere destinato a tornare, piuttosto che a un futuro che si preannuncia sinistro: ci si nasconde per gioco, eppure lo si fa come se non ci sentissimo al sicuro, / come se qualcuno ci minacciasse, / cercavamo sempre protezione, rifugio, / volevamo passare inosservati, volatilizzarci, / e così osservare, spiare il mondo, / ci attendevamo continuamente un attacco, un assedio, un accerchiamento, / avevamo paura di un pericolo inesistente, immaginario, / che più tardi, nella nostra età adulta, sarebbe divenuto reale.
C’è chi sceglie il torpore, la rinuncia a ogni speranza, alla sola notizia dell’arrivo dei russi, all’annuncio del kolchoz in arrivo. Una collettivizzazione forzata che è percepita come una veridica piaga biblica: quell’anno (l’anno in cui confiscarono le terre e si costituì la cooperativa agricola), / quell’anno rospi e rettili invasero il villaggio, e nessuno osò uscire di notte, / quell’anno un angelo con lo zoccolo passò di casa in casa, marchiando con la pece un portone su due…
Mentre i collettivizzatori smantellanno, disconnettono, disboscano, distruggono, danno insomma il colpo finale a quella terra già devastata, facendola desolata, ecco che, come nella Wasteland di Eliot, c’è un “re pescatore”, e sta proprio al centro del testo. Un vecchio del “mondo di prima”, a cui viene affidato anche il titolo del libro, che di solito non faceva niente, / stava solo seduto, / e taceva, / fumava la pipa, / guardava davanti a sé, / come se la terra fosse acqua / e vi vedesse dei pesci. Eccolo lì, immobile, inutile, incapace di agire (figurarsi d’avere poteri taumaturgici): il Re Pescatore della Wasteland oravecziana non può fare altro che sancirne l’irredimibilità, tant’è che al di là degli spazi del ricordo lo troviamo morto, con la casa già demolita.
Non si creda tuttavia che Oravecz, pur in questa disperata assenza di speranza, scivoli in facili nostalgismi. Così come in Settembre 1972 riesce a raccontarci l’amore senza omettere una sola delle sue asperità, anche qui riesce a essere al tempo stesso il cantore commosso di un mondo perduto e l’analista spietato delle sue tare. Prima della Wasteland c’era del resto un Ottocento di questo tenore: in casa picchiano la moglie, / nel letto nascondono tabacco, / nel cortile rincorrono un cane, / sull’aia battono la segala, / nel fieno si rotolano con una ragazza, / al proprietario carreggiano la sua parte, / nell’ombra mangiano fagioli, / nei pantaloni mollano un’aria… Un spaziotempo in cui non era infrequente che si scrivesse nel registro dei defunti: “causa della morte: accetta”.
Né le possibili controparti sono meglio dei comunisti in arrivo. Anzi, la loro scelleratezza fa da prodromo alla devastazione, come quando il prete (ubriacone) ha la bella idea di spianare un tumulo davanti alla chiesa, e la terra comincia a sputare tibie, costole e teschi, forse questo fu il primo segnale visibile del disfacimento, / l’umiliazione degli avi, / questa perdita di memoria, / ma noi non ne percepimmo nulla, / senza sospetti ci accollammo una parte del lavoro, / aiutammo a devastare i luoghi del riposo eterno, / con passione raccoglievamo e ci scambiavamo i teschi…
Il grande romanzo oravecziano, per quanto giocato per lo più su toni realistici, giunge – come ci si aspetta del resto dai “grandi romanzi” – completo di una metafisica. C’è anche l’abisso, nell’Uomo che pesca, e si sa che quando guardi nell’abisso, sarà poi lui a guardare dentro di te… Giustamente, visto tema e taglio del testo, lo troviamo in una pecora. La pecora dalla testa forata, che stava nel cortile di Miska Csiriz, / accanto allo steccato, nell’ombra, / girata verso di noi, / a capo abbassato, / muta, immobile, / a un braccio da noi, / in testa la sfigurava un enorme buco imbutiforme, / nel quale si poteva vedere dentro, / l’interno del buco era formato da anelli color muffa, / che in basso si riducevano a un punto, / nel punto pulsava qualcosa, / il tutto era come una miniera a cielo aperto vista a volo d’uccello, / mancavano dai terrazzamenti concentrici solo i macchinari e i camion indaffarati, / ci sarebbe piaciuto dalla strada infilare il braccio tra le assi, / e frugarci dentro con un bastone, / ma non osammo, / stavamo immobili trattenendo il respiro, / e lo guardavamo agghiacciati.
Terribile? Senz’altro. Eppure, dopo l’arrivo della postmodernità, dopo la fine (anche) del comunismo, dopo l’abbandono collettivo delle campagne (Ce ne andiamo poi,[…] / si dissolvono le famiglie, si disintegrano le stirpi, / si svuotano i dintorni, si spopolano le contrade / chiude la posta, la bottega, la bettola, la chiesa, / non arriva più il bus, il dottore, il raccoglitore di conigli, il prete, / smontano gli altoparlanti, spengono l’illuminazione pubblica…), un senso di nostalgia permane.
Sì, permane al punto che sarebbe bello rimettere piede là / nel fine macinato di argilla / nell’attraente farina grigia / che i miei piedi calpestavano, / ritrovare la strada per lo stesso posto / nelle mie proprie orme.