di Luca Campana

 

bruciarmi come una torcia

                        nella resina dei miei sensi

                        Scipione

 

C’è il corpo, sempre il corpo, al centro dell’opera pittorica di Gino Bonichi, in arte Scipione (1904-1933), l’esponente più significativo della cosiddetta Scuola romana, un gruppo piuttosto eterogeneo di artisti attivi a Roma tra il 1928 e il 1945, accomunati dalla volontà di opporsi al movimento conservatore, neoromantico e filofascista Novecento: c’è il corpo dicevamo, il corpo in tutta la sua concretezza, la calda consistenza della carne, le sensazioni vivide che la attraversano. In un appunto su El Greco, suo fondamentale riferimento estetico, Scipione sottolinea quanto la forza della pittura sia essenzialmente legata alla capacità di rendere percepibile ai sensi il mondo spirituale, conferendogli “realtà tattile”, dandogli, appunto, un corpo: El Greco lo fa aggredendo e “sformando” la bellezza “intangibile” dei personaggi divini, corrompendola, sconvolgendo il senso tutto astratto dell’armonia rinascimentale. Questo lo rende un “visionario”: la sua è un’arte che non vuol “piacere”, ma “rivelare”, svelare i personaggi nella loro “attualità umana”, nella loro concretezza di creature terrene, nei loro corpi di sangue e carne[1].

 

In Fearfull simmetry (1947), il saggio dedicato a William Blake e all’estetica della visione nella cultura moderna, Northrop Frye afferma che visionario non è colui che rifiuta la realtà sensibile, ma chi si è educato a vederne la concretezza e la corporeità in maniera più chiara e coerente degli altri: la visione a cui giunge è un’espansione e non una negazione del reale, un approfondimento operato attraverso l’immaginazione, uno svelamento e una realizzazione[2]. Il visionario muove sempre dalla realtà sensibile dei corpi e della natura, vale a dire da un mondo scaturito dal peccato originale e dalla caduta, un mondo provvisorio, non definitivo[3]; la sua arte nasce dall’anelito verso una dimensione che se da un lato è ulteriore, dall’altro è strettamente connessa a quella sensibile.

 

Questa idea è radicata all’opera pittorica e poetica di Scipione, che trova in William Blake un altro riferimento imprescindibile. Il corpo sensuale e desiderante, malato e corrotto, rivolto verso una (im)possibile redenzione è per Scipione, d’altra parte, un motivo centrale non solo da un punto di vista estetico, ma anche e soprattutto biografico. E il linguaggio è il mezzo attraverso cui sondare il corpo, il bisturi col quale aprirlo per scavarlo, toccarne il fondo, portarne alla luce il significato: pittura e parola non hanno senso, se non nella misura in cui divengono esse stesse corpo iniziatico. Ogni cosa deve farsi, attraverso il linguaggio, stimmate di una verità che il creatore ha deposto nella creazione e che sarà rivelata alla fine dei tempi: l’artista passa attraverso il degrado e la colpa, si immerge completamente nel mondo del peccato e della caduta, si perde in esso, in cerca di una chiara, disperata, redenzione. È in questa prospettiva che i quadri di Scipione, anche i paesaggi e le nature morte, caratterizzati dai toni fulminanti di una luce carnale e infuocata, sono un solo corpo unitario, concreto e escatologico: il corpo aperto e sanguinante di un complesso di colpa “su cui è costruita la babele di una Europa ipocrita e reazionaria ormai minata da un’antica decadenza, sul punto di crollare[4]”. Un corpo fatto di corpi, piazze, palazzi, vie monumentali, cui la pittura conferisce una carnalità intensissima, attraverso una serie di stratificazioni cromatiche addensate intorno a un occhio che fa ardere i suoi oggetti di una luce ultima e al contempo memore della tradizione, dal Barocco al Quattrocento fino alla pittura pompeiana; una luce non naturale, interiore, che sovrasta con la sua inquieta energia le tenebre incombenti. A testimonianza di questo basta guardare due capolavori dell’anno di grazia 1930, due vedute di Roma, Piazza Navona e La via che porta a San Pietro, dove tutto ciò che è tolto all’apparenza in termini di particolari è reso in potenza espressiva e visionarietà attraverso l’immaginazione cromatica e il chiaroscuro abbacinante; oppure la Natura morta – fichi spaccati sul tavolo, un olio dello stesso anno, in cui i frutti aperti sembrano incisioni negli strati profondi della carne, le soglie ad un altrove vivido, pulsante.

 

Piazza Navona, olio su tavola, 1930

 

La via che porta a San Pietro, olio su tavola, 1930

 

Natura morta – fichi spaccati sul tavolo, olio su tavola, 1930

 

Anche la parola rientra in questa prospettiva: anch’essa è parte integrante dello stesso corpo, dello stesso taglio. Nelle poche poesie che ci ha lasciato Scipione mutua una forte tensione analogica dal simbolismo francese (Arthur Rimbaud) e dall’opera ungarettiana, che declina all’interno della propria prospettiva iniziatica, alimentata da letture bibliche (Apocalisse) e poetiche (ancora William Blake), per cui ogni elemento del creato diviene segno e soglia verso gli strati più profondi dell’esperienza. L’asse analogico dei suoi versi è sempre il corpo, con una ricorrenza straordinaria, considerando il numero esiguo delle liriche (non c’è ombra attorno al mio corpo…; le mani s’alzano a cercare/per toccare le cose create…; mise le mani per terra…; le spalle si aprono…; le viscere si commuovono…; il ventre…; i seni…; le dita…; i ginocchi…; le membra del giovane…; le giunture…; anche il ventre si è riasciugato…; le mie ossa…/le mie gambe…/ i miei piedi…; la mano si stacca da terra,/tocca l’aria, la luce, la carne[5]), un corpo il cui significato si fonde alla natura (sui labbri dei crepacci…; la carne cerca nelle carni le sorgenti…; gli occhi/che si schiudono come fiori…; la pietra è fredda, la carne è calda…; un uomo nudo cammina:/è bianco come un albero senza corteccia…; l’aria è ferma,/tutto è rosa come la carne…; io sono la voce dell’albero che cade…; le mie radici sono d’avorio e sono/nascoste[6]), al fuoco (la testa alla radice dei capelli brucia…; il sole si è fermato/lungo le reni, il sole entra nel mio petto/come in una canestra[7]), al divenire (trascina intorno un fiato/che confonde…; il sangue corre nel cerchio chiuso[8]), al senso di colpa (nei laghi degli occhi/nuotano le anguille cattive…; il timore di lui/ spezza il corpo nell’adorazione…; la saliva è dolce/e il sangue corre a peccare…; il gesto si perpetua/nella pietra del bene perduto[9]). Si tratta dunque di una poesia che, se da un lato rivendica la propria autonomia attraverso procedimenti linguistici e stilemi originali, dall’altro è profondamente connessa all’opera pittorica: non nel senso rilevato da Alfonso Gatto[10] e da Luciano Anceschi[11], per i quali i versi di Scipione non possono essere esaminati senza i suoi disegni e i quadri. Si tratta piuttosto di un tendere attraverso forme differenti verso una medesima polarità, come ha sostenuto Alvaro Valentini[12]: che sia di carne e d’ossa, di forma e colore, di suono e senso, il corpo è sempre, per Scipione, il limite e la soglia, un varco da riaprire e attraversare, un taglio da far sanguinare ancora, in ogni modo e da ogni direzione, per cogliere e rendere a pieno l’essenza ultima del suo folgorante passaggio in questo mondo.

 

Autoritratto, olio su tavola, 1930

 

Testi

 

Solstizio

 

Mise le mani per terra ed era simile
ad una bestia.
La terra ha tutti i nascondigli,
gli scarabei ronzano nell’aria.
La testa alla radice dei capelli brucia,
le spalle si aprono, le viscere si commuovono.
Non ci sono voci:
la terra s’alza, il ventre suona vuoto,
i seni s’allungano, precipitano verso terra,
le dita ritorte dei piedi,
i ginocchi, le dita delle mani toccano la terra.
Il sole si è fermato
lungo le reni. Corre un vento pieno di polline.

 

Sento gli strilli degli angioli

 

Sento gli strilli degli angioli

che vogliono la mia salvezza,

ma la saliva è dolce

e il sangue corre a peccare.

L’aria è ferma,

tutto è rosa come la carne;

se pervade beatitudine

bisogna rompere e cadere.

Il sole entra nel mio petto

come in una canestra

e io mi sento,

la mano si stacca da terra,

tocca l’aria, la luce, la carne.

La lancia si sprofonda nelle reni della cavalla

che corre — e urla con la testa nel cielo.

 

Tutto ci abbandona a nostra insaputa

 

Tutto ci abbandona a nostra insaputa.
Il sangue corre nel cerchio chiuso.
Le membra del giovane sono belle,
la sua mente è chiara e serena,
ma i vizi degli altri scrivono in nero
e nei laghi degli occhi
nuotano le anguille cattive.
La canna leggera, verde e bianca,
non sa dove appoggiarsi
ma non può cadere.
Le giunture si piegano con mollezza:
tutto si realizza e tutto si perde.

 

Note

 

[1] Scipione, Carte segrete, Einaudi, Torino, 1982, pp.17-18.

[2] “Il visionario è colui che è passato alla visione attraverso la vista, e non è mai colui che ha evitato di vedere o che non si è educato a vedere chiaramente o che fa delle generalizzazioni […]. Se c’è una realtà di là dalla nostra percezione dobbiamo accrescere il potere e la coerenza della nostra percezione perché non arriveremo alla realtà in nessun altro modo”; in N.Frye, Agghiacciante simmetria, Longanesi & C., Milano, 1969, p.43.

[3] “La sola cura possibile per il peccato originale di questa Individualità dell’uomo naturale è la visione, la rivelazione che questo mondo è caduto e perciò non definitivo”; ib., p.80.

[4] G.C.Argan, L’arte moderna, Sansoni Editore, Firenze, 1970, p.346.

[5] Scipione, cit., pp.5-14.

[6] Ib.

[7] Ib.

[8] Ib.

[9] Ib.

[10] “…queste poesie non vanno giudicate in sé sole, ma solo in relazione a tutta l’opera espressa, inespressa o appuntata del pittore”; A.Gatto, Scipione poeta, in L.Anceschi, Lirici nuovi, Hoepli Ediore, Milano, 1943, pp.468-9.

[11] Ib., pp.470-1.

[12] “Sia che tracciasse una linea o vergasse due parole, Scipione scostava dal groviglio della natura un frammento perché se ne vedessero meglio le radici ininterrotte”; A.Valentini, Scipione poeta, in La rassegna marchigiana, n. 1, Anno II, Gennaio-Febbraio 1949, Flamini editore, Ancona.

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