di Michele Marchioro
Nel suo ultimo film Autopsie d’une chute, Justine Triet ritorna su due suoi temi ricorrenti, già presenti nel suo film precedente (il più riuscito e divertente Sybil del 2019): da una parte il conflitto di genere, dall’altra il postmoderno intersecarsi di realtà e finzione che confonde la nostra comprensione dei fenomeni. Il racconto si svolge fra uno chalet nelle Alpi francesi e un tribunale, e vede alternarsi il dramma giudiziario (genere sempre più frequente nel cinema francese per varie ragioni, fra cui l’influenza delle serie tv americane, ma anche una crescente attenzione sociale per i dispositivi foucaultianamente disciplinanti) al dramma familiare (la prova del giovane co-protagonista come figlio è al centro della storia ed è eccellente, al pari di tutta la direzione e la recitazione degli attori, che sono nell’insieme la parte più riuscita di tutta l’opera).
Il film ha indubbiamente alcuni pregi; innanzitutto rivendicare esplicitamente di ambientare la storia nel mondo patinato di una ricca borghesia culturale europea, bianca e cosmopolita (la protagonista è scrittrice di successo, il marito defunto un importante professore universitario), ha permesso alla regista di esporre i meccanismi del dominio maschile evitando ogni sorta di pietismo o di essenzializzazione, operazione ben più difficile con personaggi provenienti da fasce sociali inferiori, dove le disuguaglianze di genere si intrecciano in maniera più violenta e complessa con le altre forme di subalternità. In questo ambiente è stato poi anche possibile indagare con maggior libertà la conflittualità nella relazione di coppia, il vero centro d’interesse del film che però non trova lo spazio necessario per emergere con tutta la sua potenza, rimanendo affidato quasi esclusivamente all’intensità della recitazione.
Inoltre, il gioco metanarrativo – attraverso la fotografia, la messa in scena del giornalismo televisivo o della finzione letteraria – riesce a mantenere un equilibrio che coinvolge lo spettatore per due ore e mezzo senza annoiare. Insomma, regia e produzione avevano saputo riunire tutti gli elementi necessari alla riuscita dell’opera; tuttavia, il film non riesce a realizzare i suoi presupposti, si ferma, sia sul piano formale che contenutistico, là dove il suo spettatore medio – e il suo mercato – desiderano (e ciò lo accomuna ad altre Palme d’oro degli ultimi anni).
Ciò che impedisce al film di restituire realisticamente le dinamiche contemporanee del rapporto di coppia, della giustizia e della rappresentazione– che è in definitiva l’obbiettivo che implicitamente si propone – è il fatto di non mostrare la profondità reale delle contraddizioni che pur giustamente individua e indica. Lo spettatore assiste a una critica di superficie che mai lo interroga o disturba più di quanto egli si aspetti: ogni sua attesa e desiderio si realizza magicamente sullo schermo. Sul piano formale, le sporadiche ed episodiche semirotture della quarta parete (gli zoom, i flashback, i fuori campo che dovrebbero essere il contrappeso di ciò che nel tribunale è raccontato attraverso primi piani e piani larghi) si limitano a rendere più intrigante la visione: soluzioni stilistiche che spingono lo spettatore a immedesimarsi nella protagonista (o nella difesa del processo più in generale), per poi giustificarlo e assolverlo in un finale riconciliante, rasentando in vari momenti un’opposizione aprioristica fra buoni e cattivi. Opposizione che ritroviamo sul piano del contenuto, dove ogni tentativo di attacco compiuto dagli antagonisti (principalmente nella figura eccessivamente caricaturale dell’avvocato, ma non solo) viene immediatamente respinto dalla difesa, che viene a interpretare i desideri dello spettatore, e che alla fine di ogni scena può ritenersi soddisfatta e compiaciuta delle proprie risposte.
Da questa struttura e dalla risoluzione dell’intreccio, emerge un nodo politico irrisolto che pesa sul finale riappacificante e mellifluo: nella realtà di oggi, pochissimi processi giuridici sono così lineari nel loro svolgersi verso l’assoluzione di un’imputata, anzi siamo sempre più abituati all’irruzione di elementi esterni (lobbying, mass-media, politica…), e quasi sempre in sfavore della giustizia sociale che qui invece sembra compiersi. Resta il dubbio, insomma, che con il lieto fine sia eluso un potente rimosso, e cioè la dimensione politica e collettiva della vicenda. Se al centro della storia troviamo una madre e un figlio sociologicamente ben caratterizzati, entrambi affrontano però le loro vicissitudini sempre e solamente nella dimensione individuale e privata, mentre nessuna soluzione collettiva viene mai presa in considerazione. Altri autori che hanno anch’essi indagato in senso individualista il trauma, la crisi e la solitudine (Bergman, Tarkovskij…) hanno mostrato come per loro la vera assoluzione si compiesse solamente di fronte a Dio, per cui – nel loro caso – non potrebbe esistere altra salvezza oltre la testimonianza religiosa; nel caso di Triet, la salvezza viene più prosaicamente dall’assoluzione del tribunale, cioè da una istituzione che rappresenta il potere statale. E noi che troviamo impossibile credere allo Stato come realizzazione dello spirito – ma nemmeno il film sembra crederci fino in fondo -, non possiamo che preferire il silenzio divino e terribile dei film di Bergman.
Questa recensione sembra parlare di un altro film e vorrei spiegare perché.
Prima di tutto il pregio di Anatomie d’une chute è proprio di restare ambiguo dall’inizio alla fine: non c’è mai opposizione tra buoni e cattivi, non c’è mai una spiegazione risolutiva, nessun lieto fine «riappacificante e mellifluo». Si conosce solo la conclusione del processo ma – proprio come nella realtà – senza che questo fornisca una chiave di lettura univoca, conclusiva e rassicurante dell’accaduto poiché – come nella realtà – non si sa cosa sia successo esattamente e non lo si saprà mai. (Non entro nei dettagli per chi non avesse ancora visto il film.)
Poi non siamo in un contesto di «ricca borghesia europea» (le difficoltà economiche della coppia sono ripetutamente menzionate) e il marito non è un «importante professore universitario» (si dice che insegna ma non viene mai spiegato il contesto preciso né tantomeno si parla di riconoscimenti accademici). Questi non sono dettagli secondari ma rimandano a un contesto sociologico preciso, alle difficoltà materiali di scrittori e insegnanti (anche se chiaramente non è questo il tema del film) e alla provincia francese che è tutto tranne che «patinata» (altrimenti il film si sarebbe svolto a Parigi, altro che Grenoble!) Collocare la trama in un contesto di «ricca borghesia europea» significa non aver colto informazioni che hanno un ruolo narrativo importante per spiegare la crisi della coppia (e qundi non è vero che questa sia affidata unicamente alla recitazione degli attori).
Infine, e questo mi sembra il difetto centrale della recensione, si rimprovera al film di non aver realizzato presupposti ed obiettivi che il recensore stesso gli attribuisce: una vera petizione di principio. Sembra al recensore che solo affrontando in modo esplicito la «dimensione politica e collettiva» si possano «restituire realisticamente le dinamiche contemporanee del rapporto di coppia». A parte il fatto che lamentarsi di non aver trovato in un’opera ciò che si voleva a tutti i costi trovare è un modo molto bizzarro di commentare l’opera stessa, la relazione tra i due personaggi è assolutamente intrisa di politica, una politica privata che non si riduce ai «meccanismi del dominio maschile» ma «foucaultianamente» consiste nel conflitto di potere equamente e orizzontalmente distribuito tra due soggetti, tra due volontà. A partire da questo nodo centrale, i collegamenti con temi collettivi (la relazione uomo-donna, il precariato intellettuale) esistono eccome, ma sono dosati in modo calibrato senza prendere il sopravvento, evitando proprio la trappola manichea che a torto si attribuisce al film.
In definitiva, se volessimo adottare il tono da promosso/bocciato della recensione (e anche su questo ci sarebbe da ridire): PROMOSSO, assolutamente, a pieni voti.
@Agnese Pignattaro Grazie per il commento, che vedo solamente adesso, e che può aiutare a riflettere sul film. Per evitare di dilungarmi troppo, evito di rispondere punto per punto, ma segnalo solo i passaggi principali. L’opposizione fra buoni e cattivi esiste nel film, e non è nemmeno così celata, la difesa e l’accusa del tribunale ne rappresentano solo le punte dei due iceberg, ma la simpatia della regista per la sua protagonista è evidente durante tutta la pellicola (segno anche di una regista molto intelligente, che conosce molto bene il suo pubblico e lo sa indirizzare, nel bene e nel male).
è vero che la coppia affronta problemi economici, ma insomma parliamo di una borghesia che se è in perdita di capitale economico (non è per la protagonista una grande preoccupazione, perché non è al centro della narrazione – su questo sono d’accordo – ma anche perché può ricostruire una propria stabilità economica) mantiene un enorme capitale simbolico, culturale e sociale (tutta la messa in scena della vita privata ci racconta anche il loro benessere sociale, come dice esplicitamente e lucidamente la protagonista nella scena in automobile). Aggiungo a questo riguardo solamente che patinata è prima di tutto la fotografia, soprattutto degli interni, e mi sembra una soluzione ottima, una scelta forte che rientra fra i pregi del film.
Infine sulla dimensione politica, non sto cercando quello nell’opera, constato solamente che quel percorso è assente e che questa assenza pesa sulla scelta del finale (di questo tipo di finale forte e atteso, seppur smorzato con la storia del cane – il mellifluo si riferisce soprattutto a quella parte ovviamente). Nel momento in cui si sceglie di escludere un processo collettivo dalla trama (legittimamente, non sto giudicando il fatto in sé, ne rilevo solamente la scelta autoriale) , questo film poteva diventare un’indagine interiore (la frammentazione del soggetto di fronte al dolore e all’assurdo nella contemporaneità postmoderna) oppure un rispecchiamento dei rapporti di potere nella società attraverso il processo (per esempio come hanno fatto Anatomia di un omicidio e Saint-Omer, dove peraltro si vede anche secondo me cosa vuol dire filmare la provincia). Ma appunto rimane a metà e non riesce a fare completamente né l’uno né l’altro. Ovviamente ci sono dei tratti e dei momenti riusciti dell’uno e dell’altro tipo, e lo scrivo anche per dire che ovviamente non sto “bocciando” il film, i pregi ci sono – qualcuno l’ho anche scritto – e Triet è una regista che sa fare il suo mestiere, ma ci sono vari punti irrisolti e molte cose non riuscite che la critica ha il dovere di rilevare (lo ha anche fatto in alcuni casi) e che mi sembra importante mettere a fuoco per capire dove stanno andando un certo cinema contemporaneo (e magari anche le sue istituzioni).
Io non provato alcun compiacimento nel l’assoluzione. Secondo me non e’ un caso lieto che restituisce fiducia nella giustizia.
Per me e’ l’esatto contrario.
E’ un continuo mettere in dubbio, districarsi tra finzione e realta’.
Il film lascia aperto il problema della reale colpevolezza.
Si tratta di una scelta. Lo spiega bene l’assistente del bambino chiamata a preservare l’integrita’ della testimonianza del minore.
Devi scegliere dice al piccolo.
Allora devo fingere, chiede il ragazzino.
Eh no! Risponde L’assistente. Non devi fingere. Devi crederci.
Questa e’ stata l’assoluzione narrata nel film.
A noi spettatori la scelta.