di Umberto Fiori

 

[E’ uscito da poco per Manni, nella collana La pantera profumata (poetica e poesia), Le case vogliono dire di Umberto Fiori. Il libro sarà presentato da Giancarlo Consonni e Antonio Prete giovedì 16 novembre alle ore 19, presso la Sala Appartamento del Teatro Franco Parenti di Milano, nell’ambito di BookCity. Riportiamo un estratto del libro, scelto per noi dall’autore].

 

L’ovvio

 

Nei miei conati poetici, a un certo punto, ho avvertito un eccesso di intenzionalità. Li rileggevo, e sentivo che a muoverli era principalmente la volontà di “scrivere una poesia”. E di essere poeta. Per esserlo, bisogna scrivere delle poesie. E io le scrivevo. Scrivevo “delle” poesie, appunto. Ma cosa avevo da dire? In realtà, cincischiavo e ricamavo sul nulla del niente, dandomi le arie di saperla lunga, strizzando l’occhio a chissà chi.

La cosa ha cominciato a nausearmi. Quella che prima mi sembrava una degnissima paginetta, ora la sentivo fasulla, vacua: una serie di smorfie, di mossette manierate (gestri, direbbe Fortini) che non portavano (e soprattutto non venivano) da nessuna parte.

 

Qui è intervenuta la vita. E’ intervenuta duramente, come è capace di fare. Mi ha dato un colpo. Erano i primi anni Ottanta. Le mie certezze ideologiche crollavano, finiva la mia esperienza musicale, non avevo prospettive. Sono entrato in un buio senza appigli: sbandavo, affondavo, mi perdevo. E in me si perdeva la poesia, almeno come l’avevo concepita fino allora. Alla nausea per le mie paginette in versi (e –lo confesso- per molte di quelle altrui) è subentrato il disgusto. Comunque, avevo ben altro a cui pensare. Altro che poesia. Ero completamente svuotato, stranito, spaesato.

E’ lì che mi sono venute incontro le case. Le facciate delle case (di Milano, che non nomino mai perché mi sembra  sottintesa). Era come se non le avessi mai viste. O le avessi viste fin troppo. Erano l’inconcepibile ovvio. E l’ovvio –etimologicamente- è appunto ciò che ti viene incontro. Ciò che ti si para davanti: l’opaco, inavvertito ostacolo di ogni giorno. Eppure, d’improvviso mi pareva che quella scena così scontata, così insignificante, volesse dire. Non tanto che avesse un suo senso determinato, ma che –per qualche oscura ragione- davvero volesse parlare. Parlarmi.

 

Ho cominciato a girare a caso per i quartieri di Milano, a fotografare le case con una polaroid. Cercavo le facciate più anonime, i muri ciechi più squallidi. Non era un progetto artistico (non sono un fotografo), piuttosto una sorta di esorcismo. Cercavo di reimpadronirmi di quell’ovvio che mi spaesava, che mi si presentava come un enigma. Non avevo ben chiaro che cosa mi spingesse a questi “safari fotografici” (così li chiamavo): la sera tornavo a casa, ricomponevo le foto maniacalmente, a gruppi di nove, o di quattro, come in un rituale magico.

A poco a poco, le facciate che avevo lì di fronte mi sono tornate in mente. Sono riemerse dalla mia memoria. Quella scena, l’avevo già vista. Ero bambino, a scuola. La nostra aula a pianterreno dava su un cortile grigio, foderato di polvere. A una certa ora della mattinata però -lassù, fra i tetti di Milano- il sole, girando, illuminava un palazzo. I muri diventavano vivi, la facciata diventava una faccia. Era un’apparizione. La sentivo come rivolta a me. Avevo la sensazione (l’ho detto) che la casa volesse dire, volesse parlarmi. (Ma intanto guardava altrove, lontano).

 

Quel ritrovamento ha comportato una svolta decisiva nella mia scrittura. A trent’anni, scavalcavo all’indietro giovinezza e adolescenza, perdevo malizie e intelligenze, ironie e pretese bravure; vedevo il mondo con gli occhi di uno scolaro. Ora non avevo più intenzioni. Qualcosa mi si presentava, mi interrogava. Mi attraeva e mi sfuggiva. L’ordinario e lo straordinario mi sfidavano. Si trattava di trovare le parole per raccontarli, per dar conto della mia esperienza.

In primo piano non c’era più il risultato estetico, formale, la volontà di essere autore: c’erano le cose da dire. C’erano le case. Erano loro a premere: io ero al loro servizio. Per meglio svolgerlo, quel servizio, cercavo di liberarmi per quanto possibile dei vezzi letterari, “poetici”, che avevo assimilato nel mio brancolante, velleitario apprendistato. I termini più comuni sono stati le mie muse. La loro chiarezza mi invasava, mi entusiasmava. Anche qui, riaffioravano ricordi d’infanzia: da bambino, l’ho detto, le parole che andavo imparando erano come dei numi benigni che mi sorridevano e mi portavano per mano. Il loro suono, la loro stessa forma scritta, mi affascinavano come dei feticci.

 

Col movente “esterno” –le case, la luce, il mondo-  sentivo in quegli anni consuonarne sempre più intensamente uno “interno”. Il linguaggio non mi pareva più –come in passato- una grande tastiera. Non tutte le parole erano a mia disposizione; non tutte potevano starmi in bocca. Alla mia intenzione poetica si poneva un limite. Le case cercavano in me una fonte speculare, la sola che potesse corrispondere al loro voler dire. All’idea di una padronanza della lingua –che aveva dominato i miei presuntuosi anni di formazione- si contrapponeva ora quella di ciò che poi ho chiamato voce.

 

La voce –la mia voce- è stato il secondo movente. Che cos’è, una voce? E’ –andavo ragionando allora- il limite che si impone a ogni intenzione letteraria. E’ l’argine che si oppone alla volontà. Noi abbiamo una voce: così si dice; in realtà, ognuno di noi è una voce. Questa voce, e nessun’altra: c’è poco da fare. Il verso di questo animale che siamo. Ascoltarla, accoglierla, intonarcisi: questo porta a cantare. E proprio il canto –così ora mi sembrava- è la radice della poesia. Cantare non significa –come si è portati a pensare- scegliere e controllare tecnicamente ciò che ti esce di bocca, disporne opportunamente, ad arte: significa –anche sulla pagina- accettare di avere, di essere, questa voce. Accettare il proprio limite, la propria nudità, la propria inermità.

Attraverso lo spaesamento, attraverso la sofferenza, cominciavo a muovermi in una nuova prospettiva.

 

[Immagine: Mario Sironi, Paesaggio urbano con camion, 1920].

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