di Federica Gregoratto
L'amore ai tempi del neoliberalismo, rubrica a cura di Federica Gregoratto
“Dunque, costui, e ogni altra persona che abbia desiderio, desidera ciò che non ha a sua disposizione e che non è presente, ciò che non possiede, ciò che egli non è, ciò di cui ha bisogno” (Platone, Simposio)
In uno dei libri di filosofia più belli e acuti usciti negli ultimi anni, Sottomessa non si nasce, lo si diventa, appena pubblicato in traduzione italiana per Nottetempo (2023), Manon Garcia sostiene una tesi semplice, potente, difficile da digerire: la sottomissione ha le sue ragioni che la ragione (anche femminista) non vuole conoscere, ma dovrebbe. Nel caso paradigmatico al centro del libro di Garcia, le donne si sottomettono alle norme di genere, norme ingiuste, oppressive e umilianti, e ai soggetti (maschili, per lo più) che le difendono e ne approfittano, per delle ragioni. A volte, accettare la sottomissione (al nostro partner, famiglia, comunità) ci concede dei vantaggi, o addirittura dei piaceri. Non sempre e non necessariamente la libertà si porta a braccetto la felicità, e a volte scegliamo la seconda invece che la prima. A volte, e nella maggior parte dei casi, la ragione che giustifica la sottomissione sta nella paura, ben fondata, che la ribellione abbia un prezzo troppo alto da pagare: non solo la perdita di beni e privilegi (più o meno effimeri), ma esclusione, emarginazione, violenza. Ci sono delle ragioni per cui moltissime donne continuano a stare in relazioni abusive, disfunzionali, o semplicemente deludenti, e Garcia ci invita a prendere queste ragioni sul serio.
Perdersi, l’ultimo lavoro tradotto in italiano di Annie Ernaux per L’Orma Editore (2023), uscito in Francia già nel 2001, costituisce un bel banco di prova per la tesi di Garcia. Perdersi racconta una storia di sottomissione, pressoché totale, senza ragioni o felicità (“ho accettato l’assoluto ‘diritto del padrone’ […] nell’oppressione non c’è felicità, proprio no”). Prendere sul serio una tale nonragione – questo vorrei provare a fare ora.
Ernaux racconta, dilungandosi in duecentocinquanta pagine di ripetizioni ossessive, esuberanti, a tratti mielose e banali (umane troppo umane), una passione erotica e sessuale per un diplomatico sovietico di circa quindici anni più giovane di lei, S. Il premio Nobel per la letteratura 2022, che ha fatto della commistione tra alta padronanza formale e spietata critica sociale (di genere e allo stesso tempo di classe) la sua firma, ci da’ qui in pasto – spesso indigesto – un diario apparentemente non censurato, un poco trasandato. Perdersi ha l’ingenua arroganza, e dunque la pretesa di verità, di un filmino porno amatoriale, girato nel corso di un anno tra il 1988 e il 1989, e da un’angolatura unica, specificamente femminile. Femminile non vuol dire in questo caso etica, moralmente superiore. In effetti, era proprio la scena di un “film classificato X alla televisione” l’ouverture sorprendente di Passione Semplice, un testo molto più breve pubblicato già nel 1992, che raccontava la stessa storia, e una storia diversa.
L’effetto della scrittura, diceva la scrittrice presentandoci Passione Semplice, dovrebbe essere simile “all’impressione che provoca la scena dell’atto sessuale, l’angoscia e lo stupore, una sospensione di giudizio morale”. Nel periodo immediatamente successivo alla fine di un affaire straziante e deludente, Ernaux sembrava soprattutto cercare, nella scrittura, un modo di riconquistare la sua autonomia, di riprendere se stessa, quasi una rivincita. Perdersi mira invece ad altro: portare alla luce una “‘verità’ diversa da quella contenuta in Passione semplice. Qualcosa di crudo e oscuro, senza salvezza, qualcosa dell’oblazione,” e facendo questo, anche “salvare la vita, salvare dal nulla ciò che, tuttavia, gli si avvicina di più”. Il desiderio sessuale sta sul confine del nulla, e la scrittura dice di questo confine, o dello spazio tra eros e morte.
Lo zoom sull’io scrivente si fa vertiginoso (“il mondo esterno è pressoché assente da queste pagine”), ingrandendo fino ai confini del mondo percepibile e conoscibile una vita interiore ridotta alle sue spinte più arcaiche: il bisogno fondamentale di unione, il terrore dell’abbandono. Come per l’infante nei suoi primi mesi di vita secondo Melanie Klein, l’amore come soddisfazione del bisogno da una parte, e l’odio (di sé e dell’altro) come certezza dell’impossibilità di soddisfazione sono indistinguibili. Questo io-mondo piccolissimo diviene però, come in altre opere della scrittrice francese, ma qui in modo meno evidente e più significativo, specchio di un mondo esterno, del mondo globale alla caduta del muro di Berlino. Se la morale, soprattutto quella femminista, viene sospesa, può la spirale del desiderio scuotere una qualche coscienza politica, anche se solo in forma fantasmatica e fantasmagorica, o di “favola”?
Ernaux racconta del suo primo incontro a Leningrado con S., e degli incontri successivi, lui a Parigi lei a Cergy, delle sue attese estenuanti e disperate per una telefonata, una visita (la ripetizione e conferma di una delle tesi più famose rilevate da Roland Barthes nei suoi Frammenti di un discorso amoroso: gli amanti sono coloro che aspettano – c’è una definizione più incontrovertibile e banale, dunque vera, di questa?). Più che salvare se stessa scrivendo, l’io si annulla nella scrittura, perde il ruolo di protagonista nella sua stessa vita (“Mi metterò a lavare i pavimenti, i bagni, a fare un po’ di pulizie per accoglierlo, il ‘maschio’, l’uomo, colui che per un certo tempo riconosco come un dio, prima della disillusione, dell’oblio”; “Per un intero anno sono stata una comparsa nella mia stessa vita”). È un’autopunizione, allo stesso tempo inflitta alle lettrici e ai lettori. Nella sua recensione su Domani, Jonathan Bazzi ha scritto che Ernaux spinge “l’offerta di sé sino al punto di farsi impresentabile, oscena e persino ridicola. Ernaux si rappresenta come una donna completamente succube, immobilizzata.” Il testo, scrive Bazzi, è “invischiante e contraddittorio”, “condensa tutto ciò che una donna emancipata non dovrebbe essere e fare”.
Il giudizio morale è lapidario e inaggirabile, e Ernaux stessa lo condivide. La cosa più disarmante è che non sembrano esservi ragioni per questo soccombere. I piaceri del sesso sono descritti in modo convincente, a tratti inebriante (“una perpetua invenzione dei nostri desideri”), ma sembrano soprattutto convincere del fatto che, alla fine della fiera, il gioco non vale la candela. Eppure la Ernaux quasi cinquantenne, a differenza che in fasi precedenti della sua vita, su cui lei stessa ritorna continuamente misurando differenze e ritorni dell’uguale, aveva tutte le risorse simboliche e economiche per scaricare un amante recalcitrante, superficiale, intellettualmente non stimolante e pure inesperto. Se Passione semplice poteva convincerci che questa esperienza è valsa almeno a scrivere un buon libro, la strumentalizzazione delle pene amorose per un qualche fine artistico non funziona in Perdersi. Ben lontana è qui la gerarchia tra amore e scrittura sbandierata nella prima pagina del recentissimo Il Ragazzo (pubblicato sia in Francia che in Italia nel 2022), in cui Ernaux dichiarava di fare l’amore per obbligarsi a scrivere.
La passione per S. è irrazionale, ma mi sembra che questa irrazionalità abbia il coraggio di una qualche verità. La ragione di questa sottomissione non è personale, strumentale, ma ha un respiro più ampio. In un senso da lei forse non contemplato, Garcia ha dunque ancora ragione.
È la verità, innanzitutto, del desiderio, e della scrittura, che qui si confondono, e si illuminano a vicenda (“Scrivo al posto dell’amore, per riempire quello spazio vuoto, e al di sopra della morte”). Il desiderio, come ci dicono Platone, Hegel, Lacan, ecc. ecc., non può mai essere veramente soddisfatto. Si nutre di un’assenza, non si può desiderare quello che abbiamo, e già siamo. L’essenza del desiderio è una non-essenza, è assenza. Come la scrittura: non si scrive mai (di) quello che già sappiamo, possediamo nella conoscenza. Scrivere è uno spazio di desiderio, un vuoto, in cui si fa qualcosa. Almeno, si attende. La scrittura riempie, materialmente, degli spazi vuoti, punteggia il bianco di ghirigori neri, le parole digitate delimitano e fissano, ma la fragilità dei loro contorni fa venire le vertigini. Le micro-porzioni di nulla coperto spalancano vuoti ulteriori, aprono spazi nuovi.
Ogni conferma di essere oggetto di desiderio (una chiamata, qualche ora di sesso, i complimenti, “sei meravigliosa”, addirittura un “ti amo”) genera il suo contrario, il dubbio di non essere desiderata affatto (la sensazione che ogni incontro sarà l’ultimo, la paranoia che S. abbia altre amanti). In tentativi reiterati di autocoscienza, Ernaux collega la paura di non essere desiderata e amata da S. a un senso di fallimento come intellettuale e letterata, come se il sentirsi rifiutata a livello affettivo, sessuale, potesse diventare uno spazio di transfert, per accettare e superare un sentimento più generale e profondo di colpa, errore e orrore, inadeguatezza. Eppure, questa elaborazione costruttiva non riesce (“E credere che non ci sarà nessun libro in grado di aiutarmi a comprendere ciò che ora vivo”): se desiderio e scrittura non riescono a darci quello di cui abbiamo profondamente bisogno o pensiamo di averne – farci sentire complete, a posto con noi stesse e con il mondo – l’accettazione di una costitutiva e incolmabile mancanza è troppo difficile. Si scrive per dire quello che non si riesce a dire, si attende un amante che verrà ma mai veramente, e poi non ci sarà più.
Una cosa che non si riesce mai a dire fino in fondo, che non si dovrebbe dire: al fondo di ogni nostro desiderio c’è il desiderio di farla finita con il desiderio, cioè di farla finita con la vita. Il Todestrieb, l’impulso, o meglio, desiderio di morte è un Leitmotiv costante in Perdersi. È il significato, fondamentale, nel suo fondo, della perdizione, del movimento, passivo e attivo insieme, in cui ci si perde. In cui si diventa qualcun’altra: da donna indipendente, di successo, arrivata, a bambola, puttana, sottomessa. In cui si flirta con l’al di là della vita, indicibile. Ernaux ce ne dice, fin troppo esplicitamente (“Nella mia testa, nel mio corpo, il lutto e l’amore sono la stessa cosa”; “Ho sempre fatto l’amore e ho sempre scritto come se dovessi morire subito dopo”). E continua a dirlo raccontando i suoi sogni, lo spazio fantastico e confuso dell’al di là della coscienza e della veglia. Lo evoca ritornando più volte all’immagine e ricordo della madre morente e morta. Sono questi i momenti in cui il suo desiderio di vita si afferma più violentemente, anche al di là di un desiderio per un uomo concreto. In Lutto e Malinconia, Freud nota con nonchalance, come se fosse una banalità, che amore intenso e suicidio hanno qualcosa in comune: l’essere completamente travolti da altro, da un oggetto (di desiderio). Ernaux si lascia travolgere dalla sua passione semplice, forse banale. Riconosce, accetta, assume quello che vuol dire, senza saperlo dire bene, e in questo fallimento, come donna femminista, come scrittrice, ne fa sprigionare qualcosa d’altro, non solo istinto ma desiderio di vita, di ripetizione (la possibilità di nuove passioni). Una “bellezza”, non razionale, non strumentale o funzionale, e non consolatoria – una bellezza che consiste precisamente in questo rifiuto e trascendenza di logiche ‘economiche’, di scambio.
In Perdersi, Ernaux si mette in scena come una cattiva femminista. Il suo esempio è negativo. Non ci sta consigliando di seguire il suo esempio. Non ci sta nemmeno consigliando – e qui sta il nocciolo più interessante di questo femminismo cattivo, o meglio negativo – di non seguire il suo esempio. Il diario, la decisione di pubblicarlo, non ha intento normativo. Si limita a dischiudere e farci palpitare su un limite: del desiderio, della vita e della scrittura, delle velleità a esse connesse. Dischiude lo spazio del negativo, che fa parte di quel positivo, imperfetto, manchevole, precario, che è la vita, e del tentativo di comprenderla. Scrive ancora Bazzi nel suo commento: “Il risultato è più disturbante che istruttivo, più vicino a un libro di magia nera che a un manuale di self help.” Che cosa sono il pensiero e la pratica femminista se non si confrontano con ciò che ci disturba, che è a noi così lontano e così vicino? Nella Dialettica dell’Illuminismo, Adorno e Horkheimer dicevano che la magia premoderna, cui ancora e sempre noi moderni facciamo ritorno, è il tentativo di controllare le cose, misteriose e inconoscibili, indicibili, facendoci simili a esse. Il tentativo di vincere la morte facendo esperienza, per quanto possibile, in vita, simbolicamente e/o in forme traslate, della reificazione, dell’annullamento.
Una delle critiche femministe che si possono muovere a Perdersi è che la storia di passione annullante descritta da Ernaux è rinchiusa in stanze asfittiche, private. Il mondo, la politica, gli altri, anche i figli (di lei) stanno fuori, e se entrano, sono trattate come fastidi, incombenze di cui liberarsi al più presto. La protagonista sembra del tutto disinteressata al suo lavoro, il suo unico desiderio è quello della solitudine, del vuoto in cui consumarsi, piangere, tormentarsi con il pensiero della fine (della relazione), sperare nell’affievolimento, per qualche momento, del dolore dell’assenza. Ad uno sguardo superficiale, sembrerebbe qui giustificata l’idea arendtiana dell’essenziale apoliticità dell’amore sessuale.
Eppure, a guardare queste immagini (il letto disfatto, i bicchieri vuoti, il telefono che non squilla) in controluce, come in un negativo fotografico emerge sullo sfondo una carrellata di significati squisitamente politici. Il giovane amante sovietico è sfuggente, assente, frustrante, come l’idea(le) di un certo comunismo che aveva infiammato l’autrice, e le persone della sua stessa estrazione e gruppo sociale, in passato, ma che, sull’orlo degli anni ‘90, e oltre, non può che decomporsi, senza speranza. Alla fine, S. se ne ritorna in URSS senza avvertire, non si fa poi più sentire. Un caso da manuale di famigerato ghosting. Ernaux diventa un fantasma di se stessa, perché S. stesso è un fantasma (“La mia sofferenza di aver conosciuto e perduto un mondo, di aver intravisto qualcosa che prima era inconcepibile perché non ancora incarnato in un volto, in delle parole, in delle mani: l’ideale comunista che eleva gli uomini e le donne a Leningrado, a Stalingrado….”; “Amo solo l’URSS, non il PCF, naturalmente”). Il Gespenst che Marx e Engels nel loro famoso Manifesto vedevano aggirarsi per l’Europa e volevano manifestare nella sua forza e luminosità, centocinquanta anni più tardi si ritira, sgattaiola nelle tenebre per non tornare mai più. Il desiderio disperato e impossibile di Ernaux la fa aggrappare ad una figura che non c’è più, e forse non è mai stata. Del resto, di quello che pensa, sente, vive S. non sappiamo nulla. Lo sguardo della sua amante è impietosamente critico, riduttivo, disinteressato all’ascolto e alla condivisione. Nei meticolosi dettagli di questo diario la prospettiva dell’altro rimane fantasmatica, in negativo. Non dipende da lei, ma da lui, sembrerebbe. Ma anche dall’ordine del mondo, che in questa fase della vita umana nella storia non concede alternative. A meno di non provare a guardare in faccia, ancora, il fantasma, il negativo del negativo, accogliere ciò che avevamo creduto morto ma è tornato o potrebbe tornare, in forme nuove e sconosciute, a sbaragliare gli ordini e le identità (mortali) date: “Nel profondo, la felicità più grande sarebbe una coincidenza tra l’amore e la Storia” – che cosa vuol dire?
[Immagine: Opera di Zdzisław Beksiński].
Fantastica recensione sulla quale concordo pienamente. Non sono riuscita a finire questo libro, tanto è noioso (forse anche imbarazzante). Però, la chiave di lettura proposta è interessante.