di Laura Pugno

 

Da un’idea di Laura Pugno e Lorenzo Mattotti

 

[Pubblichiamo un estratto di Mycorrhiza, un racconto in versi/monologo teatrale nato da un’idea di Laura Pugno e Lorenzo Mattotti e incluso nell’antologia Dopo il tempo. Visioni del fantastico italiano (effequ), a cui hanno partecipato Laura Pariani, Laura Pugno, Matteo Meschiari, Elena Varvello, Nicola Fantini, Davide Morosinotto, Valerio Varesi e Maurizio Corrado. L’antologia si inserisce nell’ambito del progetto del Festival della Creatività Italiana Tools For After, ideato da Angelo Gioè, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne, e vincitore di un bando del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. (https://www.toolsforafter.info/it/)
L’iniziativa fa parte della sezione Letteratura del Festival, sviluppata da IIC Melbourne insieme al CO.AS.IT, Italian Assistance Association, in occasione della Settimana della Lingua Italiana nel Mondo 2023].

 

I parte

 

Forse tutto questo è successo, o forse no.

Forse sono le storie che inventiamo per poter continuare a vivere.

 

Tutto o quasi era stato distrutto, eravamo rimasti in pochi,

ma questa non è la storia della nostra distruzione.

C’era ancora qualche città dove il bosco divorava le rovine,

dove resistevano gli ultimi ospedali,

con lunghe file per il cibo e le cure.

 

C’erano milizie, intorno agli ospedali,

intorno alle ultime fabbriche rimaste in piedi.

Pioveva terra rossa, ormai da anni,

dicevano fosse la sabbia di qualche lontano deserto,

o forse erano le fabbriche stesse a produrla.

Tra noi c’era un male.

Molti morivano,

altri fuggivano nei boschi,

non venivano mai più visti e non si sapeva più di loro.

C’erano comunità nei boschi,

piccoli gruppi,

non si facevano vedere,

non ne sapevamo quasi nulla,

ci dicevamo che dovevamo distruggerli.

Altri, piccoli gruppi, vivevano su grandi chiatte

navigavano lenti pescando gli strani pesci del grande fiume,

e la notte danzavano

al ritmo di tamburi

c’era chi si gettava in acqua per raggiungerli

e veniva respinto e ucciso.

il fiume riportava i corpi a terra.

 

Questo era il mondo,

il mondo di Conrad che avrebbe voluto distruggere tutto,

il mondo di Miriam, nel suo laboratorio,

diroccato,

annidato nel cavo di un albero,

i suoi esperimenti

sui virus delle piante,

batteri,

funghi.

Le piante sospese al soffitto, i bulbi nei sacchi,

vita che diventa vita.

 

Miriam ha l’asma, l’aria inquinata

di questo mondo

non le riesce respirabile

o forse ha solo imparato ad averne paura.

Usa il respiratore, la bombola,

usa l’ossigeno ultracompresso.

Sono in molti ormai a farlo – o la gola

si stringe, la mancanza d’aria li soffoca –

e l’ossigeno è sempre più scarso,

prezioso,

le capsule rare,

solo gli ospedali ne hanno.

Naturalmente di ossigeno

si fa mercato nero a caro prezzo.

Miriam ha paura

anche dell’aria sulla pelle,

la sente come un veleno sottile,

si protegge con il respiratore e con gli abiti,

sono sempre di più quelli che hanno paura,

e ancora di più

da quando si è diffuso il male

 di cui non si conosce la causa.

 

Conrad rubava, spariva, faceva commerci.

Sapeva trovare di tutto,

anche l’introvabile,

sostanze,

reagenti.

Sapeva dove trovare l’ossigeno.

Non gli importava se nell’aria ci fosse veleno,

non desiderava comunque vivere a lungo in quel mondo.

Rubava negli ospedali

e nei laboratori delle milizie

poi lasciava a Miriam dei segni,

frecce di foglie, composizioni,

un linguaggio segreto,

un appuntamento.

Miriam doveva aspettare,

nel suo laboratorio dove il tempo

sembrava vivere la vita delle piante,

vivere come una cosa lenta, ferma, viva,

un tronco che accresce anello dopo anello,

una stella morta che manda la sua ultima luce.

 

Cosa c’era o c’era stato tra loro

– tra Conrad e Miriam –

nessuno dei due avrebbe saputo dirlo

qualcosa che sta sempre per succedere,

un futuro che non diventa futuro,

una cosa preziosa come il futuro,

una cosa che accade o si crea o dobbiamo fabbricarla

e che finisce per sfuggire o per nascondersi.

 

Conrad sarebbe tornato,

con l’ossigeno,

anche quella volta Miriam doveva aspettarlo.

Era necessario.

L’ossigeno ultracompresso stava finendo,

il respiratore

aveva scorta solo per pochi giorni.

 

Anche quella volta

c’erano lunghe file di uomini e donne

all’ospedale

in attesa di cibo e di cure.

Il male stava diventando più potente.

Alcuni si lasciavano morire.

Smettevano di muoversi,

di mangiare,

le dita affondavano sempre più nella terra.

Restavano dov’erano,

reagivano solo debolmente

all’acqua e alla luce del sole,

come piante.

Altri sparivano, andando forse verso i boschi

e dovunque non c’era una cura.

 

Conrad conosceva l’ospedale,

gli accessi segreti,

i punti meno sorvegliati.

L’ospedale era enorme,

era un mondo,

si diceva che i medici

vivessero lì dentro tutta la loro vita senza uscirne.

Conrad prese quello che doveva –

le capsule

di ossigeno,

preziose –

e si avviò

verso la porta.

I miliziani lo videro,

iniziò l’inseguimento.

Conrad era più veloce,

loro più numerosi e più forti.

Quando era già quasi fuori

di colpo gli si parò di fronte

un uomo enorme, con braccia come rami.

Conrad capì subito che aveva il male,

lottarono,

riuscì a gettarlo a terra e fuggire.

Rubò una moto,

il serbatoio aveva carburante,

smisero presto di seguirlo.

Raggiunse il rifugio sottoterra,

suo e dei suoi compagni,

i pochi rimasti.

Non poteva andare da Miriam quella notte,

neanche lasciare segnali,

troppo pericoloso.

Scese dalla moto barcollando e cadde,

strisciò verso la grotta e i suoi compagni,

ma non c’era nessuno.

Affondò le dita nella terra,

perse i sensi.

Dalle fenditure nella grotta

raggi di luce lo trafissero.

Forse aveva preso il male.

Vide

la luce come non l’aveva mai vista

entrargli dentro fino alle cellule,

si sentì mutare,

gemmare, vide forme di foglie,

farfalle,

sciami di api in aria.

Le vide dar vita a forme che non capiva,

lui era quelle forme

e loro erano lui.

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