di Laura Pugno
Da un’idea di Laura Pugno e Lorenzo Mattotti
I parte
Forse tutto questo è successo, o forse no.
Forse sono le storie che inventiamo per poter continuare a vivere.
Tutto o quasi era stato distrutto, eravamo rimasti in pochi,
ma questa non è la storia della nostra distruzione.
C’era ancora qualche città dove il bosco divorava le rovine,
dove resistevano gli ultimi ospedali,
con lunghe file per il cibo e le cure.
C’erano milizie, intorno agli ospedali,
intorno alle ultime fabbriche rimaste in piedi.
Pioveva terra rossa, ormai da anni,
dicevano fosse la sabbia di qualche lontano deserto,
o forse erano le fabbriche stesse a produrla.
Tra noi c’era un male.
Molti morivano,
altri fuggivano nei boschi,
non venivano mai più visti e non si sapeva più di loro.
C’erano comunità nei boschi,
piccoli gruppi,
non si facevano vedere,
non ne sapevamo quasi nulla,
ci dicevamo che dovevamo distruggerli.
Altri, piccoli gruppi, vivevano su grandi chiatte
navigavano lenti pescando gli strani pesci del grande fiume,
e la notte danzavano
al ritmo di tamburi
c’era chi si gettava in acqua per raggiungerli
e veniva respinto e ucciso.
il fiume riportava i corpi a terra.
Questo era il mondo,
il mondo di Conrad che avrebbe voluto distruggere tutto,
il mondo di Miriam, nel suo laboratorio,
diroccato,
annidato nel cavo di un albero,
i suoi esperimenti
sui virus delle piante,
batteri,
funghi.
Le piante sospese al soffitto, i bulbi nei sacchi,
vita che diventa vita.
Miriam ha l’asma, l’aria inquinata
di questo mondo
non le riesce respirabile
o forse ha solo imparato ad averne paura.
Usa il respiratore, la bombola,
usa l’ossigeno ultracompresso.
Sono in molti ormai a farlo – o la gola
si stringe, la mancanza d’aria li soffoca –
e l’ossigeno è sempre più scarso,
prezioso,
le capsule rare,
solo gli ospedali ne hanno.
Naturalmente di ossigeno
si fa mercato nero a caro prezzo.
Miriam ha paura
anche dell’aria sulla pelle,
la sente come un veleno sottile,
si protegge con il respiratore e con gli abiti,
sono sempre di più quelli che hanno paura,
e ancora di più
da quando si è diffuso il male
di cui non si conosce la causa.
Conrad rubava, spariva, faceva commerci.
Sapeva trovare di tutto,
anche l’introvabile,
sostanze,
reagenti.
Sapeva dove trovare l’ossigeno.
Non gli importava se nell’aria ci fosse veleno,
non desiderava comunque vivere a lungo in quel mondo.
Rubava negli ospedali
e nei laboratori delle milizie
poi lasciava a Miriam dei segni,
frecce di foglie, composizioni,
un linguaggio segreto,
un appuntamento.
Miriam doveva aspettare,
nel suo laboratorio dove il tempo
sembrava vivere la vita delle piante,
vivere come una cosa lenta, ferma, viva,
un tronco che accresce anello dopo anello,
una stella morta che manda la sua ultima luce.
Cosa c’era o c’era stato tra loro
– tra Conrad e Miriam –
nessuno dei due avrebbe saputo dirlo
qualcosa che sta sempre per succedere,
un futuro che non diventa futuro,
una cosa preziosa come il futuro,
una cosa che accade o si crea o dobbiamo fabbricarla
e che finisce per sfuggire o per nascondersi.
Conrad sarebbe tornato,
con l’ossigeno,
anche quella volta Miriam doveva aspettarlo.
Era necessario.
L’ossigeno ultracompresso stava finendo,
il respiratore
aveva scorta solo per pochi giorni.
Anche quella volta
c’erano lunghe file di uomini e donne
all’ospedale
in attesa di cibo e di cure.
Il male stava diventando più potente.
Alcuni si lasciavano morire.
Smettevano di muoversi,
di mangiare,
le dita affondavano sempre più nella terra.
Restavano dov’erano,
reagivano solo debolmente
all’acqua e alla luce del sole,
come piante.
Altri sparivano, andando forse verso i boschi
e dovunque non c’era una cura.
Conrad conosceva l’ospedale,
gli accessi segreti,
i punti meno sorvegliati.
L’ospedale era enorme,
era un mondo,
si diceva che i medici
vivessero lì dentro tutta la loro vita senza uscirne.
Conrad prese quello che doveva –
le capsule
di ossigeno,
preziose –
e si avviò
verso la porta.
I miliziani lo videro,
iniziò l’inseguimento.
Conrad era più veloce,
loro più numerosi e più forti.
Quando era già quasi fuori
di colpo gli si parò di fronte
un uomo enorme, con braccia come rami.
Conrad capì subito che aveva il male,
lottarono,
riuscì a gettarlo a terra e fuggire.
Rubò una moto,
il serbatoio aveva carburante,
smisero presto di seguirlo.
Raggiunse il rifugio sottoterra,
suo e dei suoi compagni,
i pochi rimasti.
Non poteva andare da Miriam quella notte,
neanche lasciare segnali,
troppo pericoloso.
Scese dalla moto barcollando e cadde,
strisciò verso la grotta e i suoi compagni,
ma non c’era nessuno.
Affondò le dita nella terra,
perse i sensi.
Dalle fenditure nella grotta
raggi di luce lo trafissero.
Forse aveva preso il male.
Vide
la luce come non l’aveva mai vista
entrargli dentro fino alle cellule,
si sentì mutare,
gemmare, vide forme di foglie,
farfalle,
sciami di api in aria.
Le vide dar vita a forme che non capiva,
lui era quelle forme
e loro erano lui.