di Paola Giacomoni

 

Giorgia Meloni non assomiglia a Mussolini né si atteggia a leader indiscusso e prevaricatore, ma alcuni elementi di stile indicano che la discontinuità non è netta. Stando all’opposizione per molti anni, dove possedeva un’unica arma, la parola, ha imparato a usare il linguaggio per dire le cose in modo assertivo senza che appaiano impositive. Ha imparato che una forza politica che non ha mai rotto definitivamente con il passato fascista deve guadagnarsi una fama di rispettabilità, deve essere presentabile agli occhi delle democrazie occidentali. Nei primi mesi di governo ha girato vorticosamente le cancellerie di tutto il mondo con la precisa intenzione di mostrare la sua faccia di giovane donna preparata e competente che non fa pensare alla fisionomia “muscolare” di Benito ed appare disponibile a intavolare dialoghi fruttuosi con tutti. Era un’operazione-simpatia che costituiva la condizione necessaria per partecipare ai colloqui internazionali importanti, ai quali infatti viene invitata volentieri, alcuni ancora colpiti dalla figuretta minuta e apparentemente colloquiale, probabilmente ancora sottovalutandola.

 

Ognuno di questi colloqui veniva presentato da noi come un successo, anche lì dove, come con l’ex-leader polacco o con quello ungherese, Meloni aveva dovuto usare il linguaggio sovranista per essere compresa, salvo poi “tradurlo” in un lessico più digeribile in occidente, senza mai ammettere che i negoziati non avevano in realtà avuto gli esiti auspicati. La tecnica è ancora una volta legata a un uso quantomeno discutibile della retorica, intesa non come arte che fornisce strumenti di comunicazione efficace per i buoni argomenti forniti dalla logica oltre che dalla politica, secondo nella classica definizione aristotelica. È l’eristica la modalità retorica utilizzata, intesa come tecnica al servizio del potere, che consente di far passare qualsiasi argomento “confezionandolo” in modo da renderlo accettabile anche a costo di contraddizioni o di distorsioni dei fatti, al fine di renderlo “palatabile” alle abitudini democratiche. Anche l’immagine particolarmente curata della leader che veste Armani e lancia nuovi tagli di capelli, già copiati da molte, fa parte di questa consapevole e meticolosa strategia per rendersi gradita allontanando pregiudizi ostili che vengono dalla storia. I toni educati anche se sempre decisi mettono in sordina quelli sguaiati con cui l’abbiamo a lungo conosciuta, anche se talvolta questi riappaiono in situazioni di minore controllo, persino in sede istituzionale, e dunque sono sempre “di riserva” nelle situazioni di scontro in cui vince chi grida di più.

 

E in effetti, nonostante la ripulitura esteriore, lo scontro è la modalità che Meloni preferisce, quella a cui è più abituata e che padroneggia alla perfezione. Nelle sedute parlamentari in cui si presentano le decisioni politicamente più divisive Meloni, che presiede, ascolta tutti con apparente attenzione, senza mai raccogliere tuttavia dagli argomenti delle opposizioni alcun suggerimento. Rispetta le forme del dibattito parlamentare senza fare proprio lo stile del dialogo. Il caso del salario minimo è esemplare. Dopo un no di principio finge un’apertura in piena estate in cui lascia pensare di essere disponibile a un confronto vero, salvo usare poi l’escamotage del Cnel, che serve a far dire a un organismo istituzionale legittimo il no che era sempre stata la vera risposta e dilazionando all’infinito i tempi di una vera discussione parlamentare. Un tempo si diceva «tireremo dritto» – e ancora lo si fa – cioè dite pure quel che volete, noi seguiremo la nostra linea senza allontanarci di un millimetro da quanto deciso all’inizio. È davvero un buon metodo, è semplice decisionismo, che riduce i tempi delle scelte senza tuttavia imporre decisioni già prese? Direi che è qualcosa di più, una strategia per far passare la propria volontà, la propria decisione, già preconfezionata, senza tener conto di nessuna delle possibili osservazioni anche migliorative.

 

Del resto come avvengono le decisioni? Il recente decreto sull’Albania è stato pensato non in riunioni formali di maggioranza, e nemmeno di partito, ma in vacanza con i fedelissimi, una modalità in cui le pensate individuali della premier vengono proposte a chi è noto sarà d’accordo e potrà proporre modifiche solo di dettaglio, senza mai mettere in discussione l’idea originale. La quale, secondo alcuni, ha elementi di anticostituzionalità, anche se, a sorpresa è risultata gradita a quell’ombra sbiadita della socialdemocrazia che è il cancelliere tedesco Scholz. Ma possiamo ricordare anche come è avvenuta la proposta, poi completamente depotenziata, della tassazione degli extraprofitti delle banche, che ha suscitato le proteste di Forza Italia, che non era stata coinvolta. Si tratta insomma della pratica degli arcana imperii, la decisione di rendere segrete le sorgenti di alcune scelte strategiche, proprio perché la loro caratteristica mancanza di universalità le rende divisive, il che invera la formula kantiana secondo la quale un’azione relativa al diritto di tutti i membri di una comunità che si basi su un criterio che non può essere reso pubblico è sbagliata.

 

In generale, la cosa che colpisce di più è che una forza politica passata in pochissimo tempo dal 4 per cento al 30 si senta tanto galvanizzata da pensare di poter conquistare l’Europa in modo simile supponendo che una capacità di convincimento e un presunto carisma possa bastare a trasformare l’Europa in una sorta di confederazione di stati sovrani che non rinunciano a nessuna delle loro prerogative. Il che la rappresenta non come luogo di decisione sugli interessi comuni – come è invece stato ad esempio nell’epoca del Covid e come dovrà essere sempre di più date le contingenze internazionali – ma come luogo di coordinamento della sovranità degli stati in funzione securitaria (unica funzione riconosciuta come essenziale) che non intacca in nulla l’idea di Nazione, immagine sacrale per Meloni, che indica valori, storia e identità da tutelare a ogni costo.

 

Insomma, a pensarci bene, le analogie con i nazionalismi del Novecento non sono così lontane: arrivati al potere in pochissimo tempo sulla base di un uso molto accorto della propaganda e della comunicazione, strumento essenziale per rivolgersi direttamente alle masse intese come insieme indifferenziato, senza distinzioni di prospettive politiche o ideologiche, si sono poi imposti in maniera inaspettata. Non ci sono certo parate né nuovi simboli suggestivi o minacciosi ma il riflesso di chi afferma, nel caso della riforma costituzionale proposta, che se non passa in parlamento la cosa sarà sottoposta a un referendum, che dunque si presume vincente, indica una svalutazione di principio della democrazia rappresentativa, che potrà essere sostituita, e semplificata, dal rapporto diretto tra il presidente del consiglio e i cittadini. Si contraddice il vero spirito della carta costituzionale, che ci ha consegnato una democrazia parlamentare e non presidenziale, proprio per evitare le pericolose derive del passato. Ed è esattamente in questo che si vuole modificare la costituzione, con l’aggravante che chi lo vuol fare, non a caso, è l’unica forza politica che non ha contribuito a scriverla.

 

Una logica che Meloni ha seguito nel recente video in cui indica i ritratti dei presidenti del consiglio precedenti chiedendosi se lo sarebbero diventati nel caso fossero stati eletti dal popolo. La cosa appare gravissima: come se i presidenti del consiglio, nominati secondo le regole costituzionali, fossero degli usurpatori, gente che non ha meritato quel posto, nato da “manovre” istituzionali che avrebbero sottratto al popolo il potere di decidere. Il vero volto del populismo è proprio qui: nel rapporto diretto tra popolo e l’esecutivo, il quale interpreterebbe la vera volontà dei cittadini, lasciando alla democrazia rappresentativa solo brandelli di potere. Nello stesso video l’accenno ai partiti li squalifica: sono solo sovrastrutture che sequestrano il volere del popolo. La loro capacità rappresentativa, ancora fondamentale per la sua pluralità, diventa l’intrigo di cricche del tutto separate dal popolo e interessate solo al potere.

 

Il tutto si basa sul presupposto che il capo, anzi la capa in questo caso, sia fornita di un vero carisma, di una effettiva capacità di trascinare le masse dovuta a elementi di eccezionalità, riconosciuti, come scriveva Max Weber, come degni di una dedizione piena di fiducia. Il potere carismatico, in quanto assolutamente personale, comporta il rifiuto di ogni vincolo esterno e per questo si atteggia in modo “rivoluzionario“, libero da tradizioni e da norme burocratiche razionali. C’è un tentativo in questa direzione da parte di Meloni, che continua a presentarsi quasi come campione dell’opposizione in quanto contraria, come tutti i populismi storici, a ogni élite – come del resto anche la sua incarnazione più pericolosa, cioè Donald Trump. Ci si presenta come in possesso di una via per il successo senza scorciatoie, basata sull’uso sapiente dei toni di voce, decisi/protettivi/energici che colpiscono per risolutezza e affidabilità. Chi si affida a me troverà fermezza e concretezza: non cambierò idea, la mia visione è chiara, nessuno si sentirà tradito, dice Meloni, realizzeremo con certezza i nostri obiettivi. Ci si può fidare, ci si può affidare.

 

Certo, questo poteva funzionare nella prima metà del Novecento quando l’analfabetismo era maggioranza, almeno in Italia, quando il bisogno di rimettere la propria volontà a qualcuno poteva essere considerata un’opzione seducente o forse salvifica. Oggi mi pare che questo si regga di più sulla scelta di un atteggiamento agonistico, sullo stile della protervia e della tracotanza, soprattutto nei personaggi di seconda fila, dove l’idea di non farsi soggiogare dalle obiezioni diventa atteggiamento di sfida a ogni costo di chi vuole mostrarsi forte, resistente e risoluto a prescindere da ogni visione strategica. Il carisma è altra cosa e chi ne mena vanto oggi non sempre lo possiede.

3 thoughts on “Giorgia Meloni, il carisma e la protervia

  1. Analisi pieno di frasi fatte, articolo all’italiana direi, sostenuto solo da una non simpatia verso il soggetto in considerazione. Tengo a precisare che non appartengo alla parte politica della Meloni, ma questi ritornelli di critica appaiono molto come sotto-gossip.

  2. Interessante e approfondita analisi delle tecniche comunicative del Presidente del Consiglio e dei pericoli che tali tecniche tentano di mimetizzare.
    Vorrei anche condividere l’ottimismo del capoverso finale quando ci si riferisce alla maggiornaza analfabeta del popolo italiano un secolo fa che ora non esisterebbe più. Purtroppo non credo che le cose stiano esattamente così ; si provi a scorrere il seguente articolo : https://eticaeconomia.it/la-piu-nascosta-delle-poverta/
    che tratta dell’analfabetismo di ritorno in Italia . Le premesse per nuovi pifferai magici mi pare ci siano tutte……… spero fortemente di sbagliarmi.

  3. Forse la presunzione/ignoranza determinerà un lento declino di Meloni, disconoscere per es. l’individualismo, il livello culturale, il cialtronismo italico non gioca a suo favore.
    Che Meloni ‘ci faccia’ lo dimostrano i rapporti opposti che attua all’estero e in Italia.
    C’è poi la qualità della corte che Meloni ha via via creato, spesso persone che dimostrano poca inclinazione all’apprendimento, come nel caso della carne da laboratorio.Auguri….

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *