di Giovanni Maddalena

 

[E’ uscito il 17 novembre in libreria per Rosemberg & Sellier Il pensiero di Vasilij Grossman di Giovanni Maddalena. Ne pubblichiamo un estratto]

 

Il realismo grossmaniano che sfocerà nella coincidenza tra vita e libertà nell’ultima parte della sua opera ha una chiave di volta nel tema della madre. Come già detto, c’è una ragione biografica particolarmente stringente che spiega il sorgere in Grossman di questa consapevolezza. La madre, Ekaterina Savel’vna, è da sempre la persona più presente nella vita di Vasilij. Nel divorzio dei genitori, è a lei che Grossman rimane più legato ed è lei a occuparsi quasi in toto della figlia Katja che lo scrittore ha avuto dalla prima moglie Galja. È poi la madre il centro dell’intera vicenda della guerra. È lei che dà testimonianza personale della paura ispirata dalla rapida avanzata tedesca. Ed è lei a subire la tragica furia antisemita dei nazisti, finendo fucilata in uno dei tanti massacri di ebrei perpetrati in terra sovietica. Per Grossman la morte della madre sarà il centro nevralgico attorno a cui ruoterà il resto della vita: l’arruolamento volontario, il difficilissimo rapporto con la seconda moglie, fino alla rottura degli anni ’55-’58, la dedica del grande romanzo Vita e destino. Inoltre, la madre già defunta sarà la ricevente di due poetiche lettere che Grossman scriverà a dieci e venti anni dalla sua morte, legando la madre, sé stesso e la sua opera in un unico triste destino.

 

Al di là del problema strettamente biografico, la madre assume però in Grossman un ruolo morale decisivo per il grande cambiamento che avviene dopo la pubblicazione di Per una giusta causa. Di questi anni rimane poca documentazione che non sia quella artistica ed è a essa che dobbiamo guardare per capire il cambiamento avvenuto. […]

In Vita e destino, l’alter ego di Grossman, Viktor Štrum, incorre nella disavventura più umiliante della vita quando, dopo aver resistito eroicamente al mobbing sociale dovuto all’essere ebreo e al tipo di ricerche in fisica nucleare che sembravano contrarie all’ideologia marxista-leninista, ed essere stato riabilitato con massimo onore per l’intervento personale di Stalin, si trova a cedere di fronte alla richiesta di una firma di condanna di un presunto complotto di medici ebrei (Vita e destino, pp. 792-9). La situazione è umanamente sofisticata: la persona che ha sempre resistito, e ha avuto ragione nel resistere all’ideologia, cede quando l’ideologia e il suo capo la lusingano. La forza rispetto alla persecuzione diventa debolezza rispetto alla blandizia. Grossman esplora così il picco e l’abisso del cuore umano che misura con le stesse vertiginose proporzioni delle celebri introspezioni psicologiche dostoevskijane. L’uomo è tanto alto e tanto basso che il suo cuore è insondabile. Non esiste l’essere umano buono e quello cattivo: tutti siamo eroi e carnefici, magnanimi e meschini, liberi e ideologici. Qui non ci sono più i buoni e i cattivi: tedeschi e russi, burocrati e operai, commissari del popolo e soldati hanno tutti la possibilità di essere migliori e peggiori, e tutti attraversano in sé stessi il meglio e il peggio dell’umanità.

La domanda che si pone allora Grossman è cruciale: come riprendersi dopo il male? Come rialzarsi quando si è caduti?

 

 […] Per quale motivo aveva commesso quel peccato tremendo? Nulla contava in confronto a ciò che aveva perso. Perché nulla conta in confronto alla verità, all’onestà di un uomo: né un regno che si stende dall’Oceano Pacifico al Mar Nero, né la scienza. (Vita e destino, pp. 798-9.)

 

Ed è qui che compare il ruolo fondativo dello sguardo della madre, in questo caso già defunta.

 

Non era troppo tardi, lo capiva, aveva ancora la forza di tirare su la testa, di tornare a essere il figlio di sua madre. Non avrebbe cercato giustificazioni o scuse. Che la sua viltà, che la bassezza commessa gli servissero da monito per la vita, che tornasse a pensarci giorno e notte… No e poi no! Non si ambisce a grandi imprese per poi vantarsene. Ogni giorno e ogni ora di ogni anno a venire avrebbe lottato per conquistarsi il diritto a essere uomo, a essere buono e onesto. Una conquista che non doveva conoscere né orgoglio né vanagloria, ma solo umiltà. E se anche si fosse ritrovato in un vicolo cieco, non doveva aver paura di morire, non doveva aver paura di restare uomo. «Chi vivrà vedrà,» disse «magari le troverò, le forze. Le tue forze, mamma». (Vita e destino, p. 799).

 

La madre è in questo caso il luogo della sicurezza, del sapere di non essere giudicati solo per il male fatto, con un realismo più ampio di quello che si riverbera nei soli sensi e che si scrive sulla pagina, ed è anche il modello che ispira il miglioramento. Nel punto più vile della vita, nel momento in cui uno tocca con mano la propria bassezza, la madre è l’origine della speranza che la vita possa essere migliore, ossia della certezza che esiste qualcosa di indistruttibilmente positivo nell’essere umano e che questo nucleo positivo è destinato a rimanere per sempre. In altri racconti coevi Grossman parlerà di questo nucleo come dell’«umano dell’uomo» (La Madonna Sistina, p. 51) o del «cuore vivo» dell’uomo (Il bene sia con voi!, p. 69).

 

[…]

 

Che tale sia il centro della svolta teoretica e morale grossmaniana si vede anche in Tutto scorre così come nelle lettere postume inviate dallo scrittore alla madre ormai defunta. In un passaggio cruciale di Tutto scorre, Ivan tornato dal lager non riesce a comunicare al cugino quanto vissuto in quei diciannove anni di lager. Troppa è stata la sofferenza, troppo il dolore. Nessuno che non fosse passato per quell’inferno avrebbe potuto capire. Il cugino, Nikolaij, per non affrontare temi scomodi, gli aveva appena detto che sarebbe stato bello parlare di tutto ciò che aveva vissuto, magari in una dacia isolata.

 

Ivan Grigorievich immaginò se stesso seduto in una poltrona della dacia mentre, sorseggiando del buon vino, avrebbe cominciato a raccontare della gente scomparsa nel buio eterno. La sorte di alcuni di loro era di una tristezza così lancinante che persino la più tenera, la più leggera e affettuosa parola su di loro sarebbe stata come il ruvido contatto di rozze mani su un lacero cuore messo a nudo. Non si poteva toccarlo. (Tutto scorre, p. 45)

 

Così, nel silenzio che segue la scena, dove Ivan non riesce a dire nulla emerge l’unica certezza morale grossmaniana:

 

Ma quel giorno egli aveva solo voglia che le mani affettuose di qualcuno togliessero ogni peso dalle sue spalle, e sapeva che c’era un’unica forza dinanzi alla quale sarebbe stato bello, meraviglioso sentirsi piccolo e debole: la forza della madre. Ma da un pezzo ormai egli non aveva più madre, e non c’era nessuno che potesse togliergli quel peso. (Tutto scorre, p. 46)

 

La madre assente rimane comunque il punto di riferimento per ogni sviluppo di bene perché, come si è visto, essa rappresenta ciò che è dato, la vita ricevuta, l’impronta originaria di una felicità possibile, come diceva Agostino (Le confessioni, libro X) Qualunque cosa gli esseri umani facciano, la fanno per essere felici, anche le cose più sbagliate e contraddittorie. Dove prendono il metro, il criterio, per giudicare di quella felicità? In un’impronta originaria, che per Agostino è quella del Creatore attraverso il Suo Verbo. In Grossman, come si è detto, non c’è questa convinzione religiosa, ma resta l’idea dell’impronta originaria, icona di memoria. Le lettere postume alla madre testimoniano questo segno della vita come bene in quanto inizio, in quanto cominciamento.

 

Per tutta la mia vita ho creduto che ciò che di buono, onesto e gentile si trova in me, il mio amore per il prossimo, venisse da te. Tutto ciò che in me vi è di cattivo, invece, non proviene da te. Ma tu mi vuoi bene, Mamma, e mi vuoi bene anche con tutto il male che porto in me. (J. e C. Garrard, The Bones of Berdichev, p. 467)

 

Il medesimo momento di svolta, con le stesse caratteristiche di intersezione tra maternità e nucleo dell’umanità, si trova nel racconto grossmaniano della sua visita alla Madonna Sistina di Raffaello. Il quadro, sequestrato dall’Armata Rossa durante la presa della Germania, venne restituito nel 1955 alla Repubblica Democratica Tedesca, nell’ambito delle celebrazioni per l’anniversario della vittoria sui nazisti e della formazione della Germania dell’Est. Prima di restituirlo, l’Unione Sovietica organizzò un’esposizione del quadro a Mosca, presso il Museo Puškin, dove si assieparono folle enormi di persone. Tra di essi, c’era anche Grossman che ne scrisse in seguito un resoconto, con il medesimo titolo di Sikstinskaja Madonna (La Madonna Sistina).

 

Il racconto sulla Madonna Sistina è emblematicamente il punto di svolta della scelta per il coraggio di vivere il reale, di essere umani. In esso, infatti, ritorna il tema della madre, stavolta in senso universale. La maternità è il luogo della speranza di poter essere uomini e nella Madonna Sistina di Raffaello Grossman vede la maternità in quanto tale, l’incarnazione perfetta dell’idea di ogni madre in ogni tempo, e dunque della chance concessa a ogni essere umano di essere se stesso, nonostante tutte le bassezze di cui è capace. Per questo Grossman riconosce la Madonna Sistina come la madre presente nei campi di sterminio tedeschi e in quelli di lavoro forzato della Siberia, nelle stazioni ucraine durante l’holodomor e sulle scale degli edifici piantonati dal KGB nelle purghe del 1937. E, con facile profezia, Grossman scrive che la vedremo un giorno in Cina o in Sudan, ossia in tutti i posti dove l’essere umano soffrirà a causa di altri esseri umani e dovrà trovare il coraggio di vivere, nonostante tutto, nonostante se stessi.

 

Ha vissuto la nostra vita insieme a noi. Dunque giudicateci, noi esseri umani, insieme alla Madonna col bambino. Noi lasceremo presto questa vita, abbiamo già i capelli bianchi. Lei, invece, giovane madre con il figlio in braccio, andrà incontro al suo destino e con la prossima generazione di esseri umani vedrà una luce possente e accecante splendere nel cielo: il primo scoppio della potentissima bomba a idrogeno, foriero di una nuova guerra globale. Che cosa diremo al cospetto del tribunale del passato e del futuro, noi uomini vissuti nell’epoca del nazismo? Non abbiamo giustificazioni. Diremo che non c’è stata un’epoca più dura della nostra ma che non abbiamo lasciato morire l’umano nell’uomo. E accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina, continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo. Che vivrà in eterno, e vincerà. (La Madonna Sistina, p. 51)

 

Il realismo grossmaniano trova qui la sua profondità: è l’idea della madre che si incarna nella storia di ogni madre. La Madonna Sistina è l’emblema, l’icona di questa incarnazione: rappresenta infatti, la maternità, il sacrificio, la speranza di salvezza. Non a caso, la conseguenza è che in questo racconto del 1955 Grossman cita per la prima volta la carestia ucraina e le deportazioni della collettivizzazione, nonché le purghe staliniane del 1937. La Madonna Sistina, il quadro iconico degli abissi dostoevskijani, diventa il centro del nuovo sguardo grossmaniano, quello che poggia il coraggio di vivere sulla maternità, luogo di speranza, perché luogo di bene assoluto, ideale e presente, universale e concreto. Il realismo umanitario e ingenuo diventa un realismo metafisico con accenti addirittura medievali: l’idea di madre è reale e universale, per cui è concepita come un trascendentale, una proprietà dell’essere in quanto tale. Ed è questa proprietà ideale che trova un’incarnazione nel quadro di Raffaello come in altri sporadici gesti che compaiono improvvisamente in questo mondo non ideale.

 

Sappiamo che nelle reazioni termonucleari la materia si trasforma in una quantità enorme di energia, ma ancora oggi non riusciamo a figurarci il processo, inverso, la materializzazione dell’energia; sulla tela, invece, la forza dello spirito, la maternità si cristallizzano e prendono forma nella soavità della Madonna. (La Madonna Sistina, p. 44)

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