di Sergio Benvenuto
[Dopo gli interventi di Paola Giacomoni, Jacopo Lorenzini e Luca Illetterati, ospitiamo questo contributo di Sergio Benvenuto sul conflitto israelo-palestinese, auspicando la prosecuzione del dibattito e della riflessione].
1.
Sono del tutto d’accordo con i miei amici filo-palestinesi nel condannare la politica israeliana. Per “filo-palestinesi” intendo qui non coloro che capiscono i bisogni e le rivendicazioni dei palestinesi (in questo senso anche io sono filo-palestinese), ma coloro i quali pensano che questi bisogni e rivendicazioni implichino necessariamente la distruzione di Israele come stato. Preciso: di Israele, non degli ebrei.
Dopo l’uccisione di Rabin, dal 1995 in poi, Israele le ha sbagliate tutte. Si è impuntata nell’impedire il costituirsi di uno stato palestinese in Cisgiordania, ha favorito i provocatori insediamenti dei coloni ebrei nella stessa regione, ha eletto Gerusalemme capitale dello stato israeliano… Il personaggio dominante della politica israeliana dal 1996 fino a oggi, Netanyhau, è considerato da gran parte dei leader di sinistra dell’Occidente uno degli uomini più odiosi e cinici. Se fossi israeliano, nelle manifestazioni dell’ottobre 2023 avrei inalberato come altri giovani il cartello “Dateci i 200 ostaggi in cambio di uno solo: Netanyhau”.
C’è una fondamentale differenza, però, tra me e i “filo-palestinesi”. È che loro in fondo gongolano per la politica israeliana in quanto conferma il loro assunto: che Israele è uno stato coloniale, aggressivo, malefico… e che quindi va abbattuto. Quando Israele attacca falciando anche civili, vecchi e bambini, ciò ha per loro una grande consonanza narrativa (quel che altri chiamano consonanza cognitiva), conferma la loro narrazione. Io invece condanno la politica israeliana perché mette a repentaglio la sopravvivenza di Israele e il suo bisogno di pace. Io sono contro la politica israeliana, non contro l’esistenza israeliana.
Quindi, sono filo-israeliano? Un tempo dicevo che mi sentivo equivicino a Palestinesi e Israeliani. Da qualche tempo non lo dico più. Nel frattempo sia la Palestina araba che Israele hanno subito un’involuzione del tutto speculare – i Palestinesi si orientano sempre più verso Hamas[1], l’elettorato israeliano manda a governare le estreme destre fanatiche e guerrafondaie. Insomma, i due popoli stanno prendendo la strada catastrofica della guerra infinita. Ormai tra Israele e Palestinesi mi sento equidistante.
Dico bene “i due popoli” e non “i loro governi”. La distinzione, come vedremo, è del tutto ipocrita.
Malgrado tutto, credo che gli Ebrei abbiano diritto a un loro stato, e si dà il caso che da 75 anni questo sia Israele. (Così come penso che abbiano diritto a un loro stato i curdi. Perché non abbiamo in Occidente un vivace movimento filo-curdo?) Non concordo con gli amici i quali pensano che Israele sia uno stato teocratico, mentre la Palestina dovrebbe essere un unico stato laico che integri Ebrei e Arabi. (Ma non è quel che vuole Hamas: essa vuole un unico stato islamico in Palestina.) Capisco che gli Ebrei vogliano uno stato in cui per una volta tanto siano maggioranza. Per duemila anni hanno sofferto, soprattutto nel mondo cristiano, per il fatto di essere sempre piccola minoranza – questa è la Diaspora. Essere minoranza in un paese democratico non basta. La deficienza della democrazia pluralista di oggi nei paesi liberal-democratici è che, dando tutto il potere alla maggioranza, la democrazia rischia di legalizzare l’oppressione delle minoranze. Se in Italia la maggioranza degli Italiani mandasse al governo un partito che avesse come programma la persecuzione degli Ebrei, ebbene, perseguitarli sarebbe una scelta perfettamente democratica. Insomma, anche in una democrazia è sempre rischioso essere minoranza.
Su circa 10 milioni di Israeliani, gli Ebrei costituiscono il 73% della popolazione. Essere maggioranza è quel che conta. In molti casi, è la demografia a decidere. Per esempio, il Kosovo è divenuto a prevalenza albanese non perché gli Albanesi abbiano sconfitto i Serbi in qualche memorabile battaglia, semplicemente perché si sono riprodotti molto di più dei Serbi. Spesso i conflitti sono decisi dal generale Prolificità.
In Israele la minoranza araba vota e ha tutti i diritti degli Ebrei, tranne uno: fare il servizio militare. Un’esenzione che molti in Occidente prenderebbero piuttosto come un privilegio[2]
Sono convinto che le scelte politiche non si basino mai su argomenti razionali, ma sempre fondamentalmente sul cuore. Parteggiamo per chi, per le ragioni più svariate, ci è vicino al cuore. Poi costruiamo reti di argomentazioni più o meno ingegnose per convincere altri a seguire il nostro cuore.
Quindi, è il mio cuore a portarmi a volere uno stato ebraico. Al cuore non si comanda… Scelta di cuore forse perché alcuni dei maestri che mi hanno formato erano ebrei o di origine ebraica: Marx, Einstein, Freud, Kafka, Wittgenstein, Arendt, Derrida… Forse perché per anni era mia compagna un’ebrea americana. Ma anche se il mio cuore non fosse filo-ebraico, accetterei il dato di fatto per cui ormai milioni di Ebrei vivono in Israele, e sarà impossibile convincerli a convivere con una maggioranza araba. Tutti sanno che, dopo decenni di massacri reciproci, è impossibile. Le ingegnerie politiche non bastano per costringere i popoli a matrimoni forzati. Non più oggi, comunque.
Ma forse la domanda fondamentale è: se credi che gli Ebrei debbano avere un loro stato, ebbene, per te chi sono gli Ebrei?
2.
Nessuno sa che cosa significhi veramente essere ebreo.
Non a caso da oltre un secolo intellettuali di prim’ordine continuano a chiedersi cosa sia essere ebreo, senza mai trovare una risposta concorde. Lo stesso potere ecclesiale ebraico è diviso: c’è la linea degli ebrei ortodossi, dei conservatori, dei riformati… Si fanno distinzioni raffinate, come tra ebraismo e giudaismo, tra giudeità e giudaismo.
Sartre, in La question juive, giunse a una conclusione provocatoria: gli Ebrei esistono semplicemente grazie all’anti-semitismo. L’Altro anti-semita è alla base della supposta identità ebraica. (Per Sartre non esistono identità nazionali. Nemmeno per me.) Questo è un corollario dell’abbandono del concetto di ‘razza’: tutti siamo il risultato di secoli di mescolanze genetiche, per cui non esistono paletti genetici tra “razze”, termine che quindi scrivo tra virgolette. Ma – si dice – l’ebraicità è una religione e una cultura particolari, che darebbe quindi a ‘ebreo’ un senso preciso, pesante.
Né i cristiani né i mussulmani considerarono mai gli Ebrei una razza: erano solo i seguaci di una religione per loro arcaica. Il razzismo è una narrazione molto moderna, ottocentesca. Se un Ebreo si convertiva al cristianesimo o all’Islam, diventava ipso facto cristiano o mussulmano. Come si vede nel recente film di Marco Bellocchio Rapito: all’epoca dello Stato Pontificio nel XIX° secolo, bastava che una domestica versasse un po’ d’acqua sulla testa di un neonato in una famiglia ebraica, e il bambino diventava ipso facto cristiano. Direi anzi che i razzisti erano gli Ebrei: per loro si era ebrei se si era nati da una madre ebrea. Sulla base del presupposto, credo, che mater semper certa est, pater numquam. Attraverso il corpo della madre si comunicherebbe qualcosa alla prole che possiamo chiamare anche razza.
Ma da tempo moltissimi Ebrei sono atei. Mi ha colpito, in tanti cimiteri ebraici americani, il fatto che si vedano più tombe con incisa la falce e martello che tombe con la stella di David. Tra gli Ebrei più famosi, molti erano dichiaratamente irreligiosi, eppure ci tenevano a essere identificati come ebrei. Nel mondo moderno, la relazione stretta tra religione ebraica ed ebraicità si è spezzata. Ma allora chi è ebreo, chi ha avuto da piccolo un’educazione in sinagoga?
Da quando avevo 14 anni non mi dico più cristiano, non mi sento cristiano, mi sento lontano da qualsiasi religione. (Per le statistiche, credo che io sia nella fetta del 28% di italiani irreligiosi.) Eppure da bambino ho avuto un’educazione fortemente cattolica: battesimo, cresima, comunione, l’ora di religione a scuola, assidua lettura del Vangelo… Mio padre era teologo e quindi conosco bene la religione cattolica. Eppure ci tengo a non dirmi cristiano, mentre un ebreo che non segue affatto i precetti ebraici si sentirebbe un traditore se non si dichiarasse ebreo. Dov’è la differenza?
Credo che la differenza stia nel fatto che posso scrivere ‘cristiano’ con la c minuscola, mentre devo scrivere ‘Ebreo’ con la lettera maiuscola, come si fa con tutti i nomi di popoli. È differenza cruciale come tra scrivere dio o Dio. Ma perché Ebreo è un popolo e cristiano è solo una confessione religiosa?
Sartre direbbe: la differenza sta nel fatto che gli Ebrei sono stati perseguitati per secoli, mentre i cristiani sono stati persecutori per secoli. Ovvero, dirsi Ebreo è un atto politico di solidarietà con tutti gli Ebrei della storia che sono stati perseguitati.
Per me invece non è molto importante essere italiano, preferisco altri paesi all’Italia, mi sento cittadino del mondo. Eppure, se l’Italia venisse invasa da una potenza straniera e gli Italiani diventassero quindi cittadini dominati, certo che mi sentirei italiano! Lo andrei a gridare con orgoglio in tutte le piazze del mondo. Insomma, molti si identificano a una nazione solo nella misura in cui questa nazione è oppressa. Il nostro oppressore è la matrice della nostra identità.
La supposta identità ebraica è ciò che, sul solco di Ferdinand de Saussure, chiamiamo un significante. È essenziale cadere o meno sotto questo significante, che può avere tutti i significati che vogliamo darci – religioso, storico, educativo, razziale, circoncisivo… Cadere anche letteralmente: se un jihadista per strada ti fa cadere sotto il significante ‘ebreo’ ti ammazzerà, se sei shintoista ti lascerà in piedi. Gli esseri umani non si massacrano per bisogni economici, come in genere si crede, ma soprattutto per significanti. Se non si entra in questo ordine di idee, si capirà ben poco della storia umana.
Il punto è che i significanti non sono inoffensivi, creano realtà ferree. Non solo nel senso che per significanti si ammazza e ci si fa ammazzare, anche nel senso che producono differenze reali. Per esempio, il divieto per gli Ebrei, nei paesi cristiani, di possedere la terra li ha spinti a darsi al commercio e al prestito, facendone quindi il germoglio della borghesia capitalista. I significanti hanno effetti concreti spesso colossali.
Lo status di israelita per Israele non ha basi razziali, in apparenza. Almeno non lo ha più. Un cristiano che ha compiuto la conversione all’ebraismo (ghiur) ha ufficialmente le carte in regola per chiedere la residenza in Israele. È nota l’epopea dei Falasha, le tribù degli etiopi più poveri la cui religione è molto vicina a quella ebraica – ma il loro aspetto e la loro lingua sono del tutto simili a quelle degli altri Etiopi. Li si trasportò con un ponte aereo in Israele negli anni 1980. Quindi, il criterio dell’ebraismo è religioso? No, perché tanti israeliti si dicono atei o agnostici.
Non possiamo certo dire che ciò che unisce gli Ebrei nel mondo sia la loro lingua, dato che gli Ebrei di solito parlano la lingua del paese in cui vivono. Israele ha dovuto resuscitare una lingua comune, l’ebraico, rediviva solo da pochi decenni. È il sionismo ad aver prodotto la lingua ebraica, non viceversa.
Ora, Israele si basa sulla legge del ritorno, ovvero può chiedere di diventare cittadino israeliano (1) chiunque sia nato da madre ebrea, e (2) chi, senza esser nato ebreo, abbia compiuto il ghiur. La definizione sembra chiara, ma in realtà è un pastrocchio. Dire che si è Ebrei perché si è avuta una madre ebrea rimanda solo il problema, all’infinito. Che cosa rende ebrea questa madre? L’essere nata a sua volta da madre ebrea. Ma cosa ci fa dire che questa madre della madre sia ebrea? L’esser nata da una madre ebrea… Emerge qui un presupposto razziale che però di fatto nessun paese, e tanto meno Israele, accetta in teoria.
In effetti si è Ebrei anche se si è nati da una madre convertita. Possiamo dire che la conversione della madre è qualcosa che si eredita, come si eredita un gene? Che senso può avere il concetto di ereditarietà di una fede religiosa? Tanto più che chi è nato da madre ebrea discendente da generazioni di madri ebree che si perdono nel tempo può essere ateo – eppure può appellarsi lo stesso alla legge del ritorno. Si sovrappongono in modo oscuro due discorsi incommensurabili: quello genetico della trasmissione per filiazione, e quello culturale della trasmissione per apprendimento. È come se alla base del nazionalismo ebraico ci fosse una dottrina di tipo lamarckiano (per Lamarck gli animali potevano trasferire ai propri discendenti caratteri acquisiti nella propria vita).
L’ebraismo sembra un caso che aveva teorizzato il filosofo nazista Arnold Gehlen, quando ha proposto un’antropologia per cui “la cultura umana è la seconda natura dell’Uomo”. L’ebraismo, in quanto fatto squisitamente culturale, sarebbe la seconda natura degli Ebrei. Ma non esiste nessuna seconda natura.
3.
E i Palestinesi, invece, esistono?
Quando ho detto che Ebreo è un significante – da qui la maiuscola – intendo, come de Saussure, che ciò che determina un significante non sono i suoi significati, che del resto possono mutare anche in breve tempo, ma la sua opposizione rispetto a tutti gli altri significanti. L’essenza di ogni significante è la propria differenza, ovvero qualcosa di inessenziale[3].
Analogamente, che cosa determina ebreo come significante? Il fatto che esso si distingua da tutte le altre religioni. E se consideriamo quello ebraico un popolo, esso è determinato dal suo distinguersi da tutti gli altri popoli: Arabi, Iraniani, Cinesi, ecc. Così ha senso indicare qualcuno e dire “sapete, quello è ebreo!” anche conoscendo poco o nulla della religione ebraica ecc.: significa semplicemente “è diverso da noi”, chiunque sia questo “noi”.
Quindi, da cosa si distingue un Palestinese? Certamente da un Israeliano: diversamente da questi, è mussulmano o druso e parla arabo. Ma cosa lo distingue da altri Arabi come Giordani, Libanesi, Siriani, Egiziani?… Semplicemente il fatto di essere nato o di abitare in Palestina. Ma allora, da dove nasce il significante Palestina?
Il popolo palestinese nacque come significante solo nel 1928. Usa questo termine un documento del Comitato Esecutivo Permanente, composto da mussulmani e cristiani, rivolto alle autorità britanniche che in quel periodo avevano mandato delle Nazioni Unite per la Palestina[4]. Prima si parlava solo di “Arabi che vivono in Palestina”. Ma la Palestina fu a sua volta un’invenzione di Francesi e Britannici (accordi Sykes-Picot), per dare un assetto nuovo a quelle che prima erano parti dell’impero Ottomano. In effetti, fu dopo la 1° guerra mondiale che furono inventate le nazioni che tuttora compongono il crogiuolo del Medio Oriente. Furono inventate la Siria e il Libano, affidate ai Francesi, e la Palestina, affidata ai Britannici[5]. I confini tra i vari stati furono decisi in modo più o meno arbitrario.
Una delle creazioni più pasticciate fu l’Iraq, dove giustapposero nello stesso stato aree sunnite, sciite e curde. Con le conseguenze nefaste che la storia successiva ha mostrato. Non ho mai capito su che cosa si basasse mai il patriottismo iracheno sfruttato da Saddam Hussein – solo su un significante arbitrario, appunto.
È avvenuto per il Medio Oriente quel che avverrà poi per l’Africa, quando Inglesi e Francesi daranno l’indipendenza a stati africani da loro stessi inventati: gli abitanti di questi stati coloniali li prenderanno sul serio e si svilupperà un patriottismo di deriva colonialista.
Secondo il censimento del 1922, in Palestina vivevano 763.000 persone, di cui l’89% Arabi e l’11% Ebrei. Gli Arabi che vivono tuttora come cittadini israeliani sono chiamati 48-Arabi (Arabi che nel 1948 accettarono di far parte dello stato di Israele). Oggi sono 2,1 milioni, meno della metà dei Palestinesi, più del 20% degli Israeliani[6].
Tra le due guerre l’UK permise l’afflusso di molti Ebrei in Palestina, cosa che creò tensioni crescenti tra le comunità araba ed ebraica. Ma allora nulla distingueva i Palestinesi dagli Arabi vicini.
Il conflitto arabo-israeliano è stato generato da una decisione dell’ONU: la Risoluzione 181 del novembre 1947. Questa stabiliva la fine del mandato britannico e la costituzione di due stati, uno arabo e l’altro ebraico, mentre Gerusalemme avrebbe avuto uno status speciale internazionale di città santa per varie religioni. Sulla carta, sembrava la soluzione più saggia, eppure la divaricazione fondamentale cominciò allora. Perché i sionisti accettarono la Risoluzione 181, la respinsero invece gli Arabi. L’idea che si costituisse uno stato ebraico indipendente accanto a uno mussulmano non era tollerabile per gli Arabi, che allora erano ancora maggioritari in Palestina[7]. Oggi Hamas perpetua questo rifiuto: la Palestina deve essere islamica.
Nel 1948 si costituì ufficialmente lo stato di Israele, ebraico, riconosciuto dall’ONU – quindi anche dall’URSS staliniana[8]. Tutti aspettavano la creazione anche dello stato arabo palestinese… ma questa non ci fu mai. Se oggi il cosiddetto problema palestinese è così acuto – coinvolge 5.483.000 Arabi – questo è perché all’epoca gli Arabi non vollero o non riuscirono a creare uno stato arabo-palestinese, che sarebbe stato subito riconosciuto dall’ONU. Decisione o incapacità? La grande complicazione degli eventi successivi rende difficile dare una risposta.
È una delle maggiori beffe storiche: i Palestinesi, per non avere uno stato ebraico confinante, hanno finito col non avere nessuno stato arabo in Palestina. Per non aver voluto riconoscere sin dall’inizio lo stato israeliano, alla fine si sono trovati inglobati in esso.
Quindi, la Palestina come concetto nasce assieme allo stato di Israele, è come i bianchi e i neri nel gioco degli scacchi. A monte, è un’invenzione della diplomazia franco-britannica. Se la Palestina araba avesse aderito alla Siria o alla Giordania[9], in questo caso la storia sarebbe stata del tutto diversa. Il conflitto tra gli Ebrei, che decisero (o furono capaci) di farsi subito stato, mentre gli Arabi no, era quindi, ormai, conflitto tra uno stato e ciò che lo debordava, una “massa palestinese”. Due stati certamente possono entrare in conflitto, ma il conflitto tra un’entità e una non-entità è molto più vischioso, perché la non-entità finisce con l’essere identificata al popolo stesso, diventa insomma una guerra tra un esercito e un popolo. Non è lo scontro tra due forze, ma tra una forza e una debolezza, e la storia moderna mostra che lo scontro tra una forza e una debolezza è molto più devastante, subdolo, lungo, di uno scontro tra due forze.
4.
Descrivere le tempeste e passioni del conflitto israelo-palestinese in termini di lotta tra significanti, entità in quanto tali inesistenti, apparirà a molti una provocazione, un macabro divertissement. È vero, scherzo con i santi… ma lascio stare i fanti. E per fanti intendo tutti coloro che vivono questa lotta sulla propria pelle per il fatto di esser nati in Palestina, o di aver là legami e affetti.
Mi si dirà: dopo tutto, che importa sapere che un conflitto cruento sia dovuto a opposizioni significanti piuttosto che alla contesa per pozzi di petrolio? A parte il fatto che spesso le ragioni di un conflitto si sovrappongono: i significanti assumono la forma di pozzi di petrolio, mentre i pozzi agiscono come forze significanti. L’importante è che ci sia un conflitto che promette di essere interminabile.
Eppure penso che avere coscienza della molla simbolica delle guerre anche più feroci cambi la prospettiva, ci serva a capire meglio il nocciolo dei conflitti. È proprio quando si scopre la vanitas vanitatum delle lotte politiche che si può accedere a un punto di vista decentrato, uscire dalla logica militante delle contrapposizioni cieche.
Per cui, tornando alla mia scelta (ma davvero in politica si sceglie?) di sostenere comunque l’esistenza di uno stato ebraico, ragioni del cuore a parte: proprio perché il significante ‘ebreo’ attrae gli impulsi persecutori di tanti esseri umani, siano essi dovuti all’invidia al disprezzo o al timore, credo che sia importante assicurare uno stato agli Ebrei. E poi l’Occidente cristiano ha un debito secolare nei confronti degli Ebrei. Un debito è anch’esso un fatto simbolico. I cristiani hanno perseguitato gli Ebrei per secoli, con la scusa che erano deicidi. Proprio perché capisco la potenza straordinaria della vita simbolica umana, penso che l’ebraismo – questa cosa evanescente – vada difeso. L’antisemitismo è una talpa che scava sottoterra, e che spesso emerge alla superficie, imprevedibile, portando con sé febbri di sterminio. L’ebraismo è stato perseguitato per secoli proprio perché si poneva come differenza pura all’interno di nazioni più omogenee.
Detto questo, tutto ciò non libera gli Ebrei dal rischio di scivolare a loro volta verso il razzismo, il fascismo e il fanatismo.
La retorica edificante a cui oggi quasi tutti ci pieghiamo ripete che dobbiamo distinguere tra popolazione, capi militari e capi politici. E che la popolazione per lo più subisce le scelte dei capi politici e militari. Non è vero. Interi popoli possono entrare in accessi deliranti di odio persecutorio, di acritica megalomania e di rabbia sanguinaria. E così esprimeranno capi persecutori, megalomani e sanguinari. Hitler non andò al potere con libere elezioni nel 1933? Hamas non ha vinto le elezioni nella Striscia di Gaza nel 2006? Putin non è stato stravotato dai russi per decenni? Il governo di estrema destra di Netanyhau non è stato votato dagli israeliani? Davvero i popoli sarebbero sempre innocenti, irresponsabili?
L’assunto secondo cui i popoli vorrebbero sempre la pace, mentre i politici scelgono la guerra, è una fandonia populista. Talvolta interi popoli entrano in un delirio bellicoso, in una voglia di sterminio e di rivalsa… Spesso, le maggioranze dei popoli sono più canagliesche dei loro capi.
Note
[1] Hamas ha preso il potere a Gaza attraverso libere elezioni nel 2006. In Cisgiordania non si fanno da anni elezioni perché si sa che vincerebbe Hamas. Si possono veramente separare i popoli dai loro capi?
[2] Una recente indagine del Konrad Adenauer Stiftung tra gli Arabi in Israele mostra che il 60% di loro non ha un atteggiamento ostile nei confronti dello stato israeliano, e il 64% stima che alle prossime elezioni un partito arabo dovrebbe far parte della prossima coalizione governativa. Sin dal 1949 è rappresentato alla Knesset un partito arabo. Oggi la Lista Araba Unita ha 5 deputati (su 120) alla Knesset, ed è costituita da islamici conservatori. Essa è stata sempre ed è all’opposizione, tranne per un anno (2021-2022) in cui ha fatto parte della coalizione governativa. Uno dei cinque deputati è druso.
[3] Per esempio, il suono ‘v’ nella lingua italiana, come in velo, è significante perché si distingue da tutti gli altri fonemi della lingua italiana come ‘p’, ‘t’, ‘b’, ‘m’, ‘z’, ‘c’, ecc. E difatti, se a ‘v’ in velo sostituiamo gli altri fonemi, avremo parole con senso del tutto diverso: pelo, telo, belo, melo, zelo, celo…
[4] La Gran Bretagna svolse il mandato dal 1920 al 1948. Questo non ha niente a che vedere col colonialismo, non ci fu alcuna colonizzazione inglese. I coloni che affluirono furono piuttosto ebrei da tutto il mondo.
[5] Ai britannici fu affidato anche l’Emirato di Transgiordania, l’attuale Giordania. Britannici e francesi si guardarono bene dal creare un unico grande stato arabo che comprendesse ciò che oggi è Libano, Siria, Iraq, Palestina, Giordania, Egitto e Arabia: sarebbe stato un impero troppo vasto.
[6] Israele conta in tutto poco meno di 10 milioni di abitanti.
[7] Nel 1948 vivevano in Palestina poco più di 600 mila Ebrei, più di 1.200.000 Arabi.
[8] L’Internazionale Comunista (Comintern) comprendeva anche il Partito Comunista della Palestina (creato dopo la 1° guerra mondiale), composto soprattutto da ebrei, ma su posizioni anti-sioniste. Poi però in Russia e altrove fiorì il Yishuvismo, una corrente che mescolava comunismo e sionismo. Questo spiega l’appoggio dell’URSS alla creazione dello stato di Israele.
[9] Dal 1948 al 1967 la Cisgiordania era amministrata dalla Giordania, e la Striscia di Gaza dall’Egitto. È importante notare che i due paesi, Egitto e Giordania, non hanno la minima intenzione oggi di amministrare queste regioni. I Palestinesi sono rigettati non solo dagli Israeliani, ma anche da altri stati arabi.
Molto elaborati e interessante questo articolo.
Io penso che ciò che distingue il popolo ebraico è l’origine un popolo scelto da Dio che è stato guidato per un. lungo cammino tra errori e correzioni….questo punto di riferimento “Dio” lo ha formato come popolo . In un certo senso come il Cristianesimo ha origine dalla incarnazione del Verbo dal duo Vangelo nel quale vi riconosciamo fratelli in principio Dio disse (l parola) e tutte le cose furono fatte.questa la forza del popolo ebraico la Parola e del Cristiano “il Verbo (la parola)si fece Carne
Trovo questo articolo illuminante pur non citando la Nackba.
Israele è ritenuto uno stato subdolo e l’ attuale rappresentante alla stregua di un macellaio.
Le varie risoluzioni ONU sono state disattese, addirittura ignorate, con l’ appoggio dell’ America.
Tutto ciò ha ulteriormente destabilizzato l’area senza considerare che il populismo spesso identifica Israele con gli ebrei.
Ciò ha fatto risorgere atti antisemiti in varie parti del mondo che non giovano tanto agli ebrei quanto a Israele.
In un ipotetico sondaggio Israele sarebbe, forse, tra le nazioni con minor consenso.
Concordo sulla scellerata scelta palestinese di non considerare la costituzione di uno stato sia pur condividendo il confine con Israele.
Questa recente escalation non gioverà a Israele che sarà contestata aspramente fa popoli e populisti.
Saranno giorni bui per ambedue i popoli purtroppo.
Raniero La Valle su Remocontro scrive dello stato di israele come di uno stato etnico https://www.remocontro.it/2023/11/12/per-un-nuovo-israele/
“E poi l’Occidente cristiano ha un debito secolare nei confronti degli Ebrei. ” (Benvenuto)
Ammesso e non concesso che ce l’abbia, perché l’ha pagato con un pezzo di Palestina, cioè con terra non occidentale? Se si trattava di garantire agli Ebrei uno stato sovrano, non era più logico assegnargli, dopo la seconda guerra mondiale, un pezzo di Baviera? O un altro pezzo di Europa, non stiamo qui a discutere quale.
Comodo pagare i debiti con i soldi (e le case, la terra, la vita) degli altri.
“Che senso può avere il concetto di ereditarietà di una fede religiosa? (…) Si sovrappongono in modo oscuro due discorsi incommensurabili: quello genetico della trasmissione per filiazione, e quello culturale della trasmissione per apprendimento. È come se alla base del nazionalismo ebraico ci fosse una dottrina di tipo lamarckiano (per Lamarck gli animali potevano trasferire ai propri discendenti caratteri acquisiti nella propria vita).”
Sono tre i fattori a sovrapporsi ed anzi a fondersi nell’identità ebraica.
Il giudaismo è un fattore potente di coesione proprio perché in esso Popolo, Nazione e Religione si fondono: il Popolo-Nazione deve la propria ragion d’essere alla religione, e la religione deve la propria ragion d’essere al Popolo-Nazione. L’albero genealogico conta molto in questa religione etnica dal carattere speculare o se vogliamo incestuoso: nel ruolo di celebrante e nel ruolo di celebrato troviamo il medesimo popolo. Attraverso la religione ebraica, infatti, gli ebrei celebrano religiosamente se stessi.
Al centro del culto ebraico vi sono le mitiche vicende dei loro antenati. Nessuna distinzione tra storia e leggenda, tanto è vero che la Bibbia, quintessenza di libro religioso, è il loro Libro di Storia.
La religione ebraica è la celebrazione del nazionalismo di un popolo prediletto da un Dio guerriero, esclusivista, geloso e vendicativo: Yahweh. Del resto, il primo dei comandamenti biblici è: “Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me”. Comandamento rimaneggiato dai cristiani in “Non avrai altro Dio fuori di me”.
Eppure, quando si parla di ebraismo non si parla mai di nazionalismo o di patriottismo, bensì di religione. Sì, è una religione, ma celebrante il nazionalismo. O se proprio non vogliamo usare il termine nazionalismo, venuto in auge dopo, possiamo ricorrere a patriottismo, sciovinismo, etnicismo, appartenenza; un’appartenenza esclusiva etnica, religiosa, genealogica, di sangue.
Articolo di una superficialità incredibile che sfocia in un malcelato razzismo, non mi capacito di come un blog serio come il vostro possa pubblicare certe cose.
Per venire da qualcuno che si definisce equidistante, la ricostruzione ‘storica’ dell’identità palestinese è straordinariamente capziosa. La tesi per cui l’identità palestinese sia un’invenzione coloniale, e che i palestinesi *per scelta* o per manifesta inferiorità non abbiano creato uno stato nel 1947 è quella della storiografia ufficiale sionista, ma è stata messa ampiamente in discussione sia da storici israeliani sia da quelli palestinesi (sì, esistono storici palestinesi). Parlare del ’47 senza parlare del fatto che la maggioranza ebrea in Israele sia il frutto della Nakba del 1948 (con l’espulsione di 750mila palestinesi), è semplicemente imbarazzante. Ma per l’autore immagino che tutto questo sia ampiamente giustificato perché il suo ‘cuore’ gli dice che Israele ha il diritto di mantenere una maggioranza ebrea.
Quello che sembra sfuggire in questa argomentazione velatamente razzista è che in Palestina sia esistita una vita e una società *prima* dell’arrivo dei coloni. Città come Haifa e Jaffa sono stati porti fiorenti e multiculturali durante tutta l’epoca ottomana. In quel territorio hanno convissuto (comunicando in arabo!) musulmani, cristiani e udite udite ebrei per decine di secoli. Lo stesso, beninteso, vale per l’Iraq, il cui nazionalismo l’autore ‘non si spiega’: sunniti e sciiti hanno convissuto in uno spazio geografico chiamato Iraq almeno dal IX secolo (qui un buon riassunto del perché la teoria degli stati artificiali è un tropo coloniale https://www.jadaliyya.com/Details/32140/%60Lines-Drawn-on-an-Empty-Map%60-Iraq%E2%80%99s-Borders-and-the-Legend-of-the-Artificial-State-Part-1).
Questa visione razzista ed essenzialista rende inconcepibile per l’autore qualunque dinamica storica: così l’islamismo del Hamas viene assimilato al non meglio contestualizzato ‘rifiuto’ palestiense del 47 come ‘prova’ dell’impossibilità di uno stato unico multietnico e multiconfessionale.
Sorvolo poi sulla chiusa sciovinista che strizza l’occhio alla retorica genocida di questi giorni: i palestinesi non sono un’unica entità che bisogna stabilire se sia ‘innocente’ o ‘colpevole’, sono una società complessa con una storia (che l’autore ignora completamente), e i cui individui hanno dei diritti garantiti dall’ordinamento internazionale.
Non è obbligatorio che un grande intellettuale si esprima su temi di cui non sa nulla, né che un blog letterario pubblichi su temi di attualità se non è in grado di farlo.
“Eppure, se l’Italia venisse invasa da una potenza straniera e gli italiani diventassero quindi cittadini dominati, certo che mi sentirei italiano!”. E’ proprio sicuro che non sia già successo e che non stia continuando a succedere?