di Nicoletta Vallorani

 

Ho sempre avuto paura di annegare. Una paura simbolica, irresistibile, irragionevolmente profonda. Sono cresciuta al mare, e nuoto bene. Però in giorni come questi – all’ombra del più recente femminicidio – torna a mancarmi l’aria come fossi sott’acqua. Non è difficile annegare in questa replica infinita di tragedie senza senso. Ci si trova private della più elementare sagola di salvataggio: l’assunzione di responsabilità di una comunità che ancora considera il corpo delle donne come una gradevole, violabile pellicola su un’identità che non c’è.  Ed è quella stessa comunità che invoca col consueto paternalismo la nostra deprecabile presunta emotività, la nostra tendenza a farci manipolare, l’eterna condanna ad avere un padre/marito/fratello che ci dica che cosa fare e quando.

Vorrei che fosse chiaro, prima di tutto agli uomini, che la pena imposta da questa modalità di pensiero è anche per loro, per sempre condannati a essere i bruti cacciatori di mammut di cui dice Le Guin nel suo “The Carrier-bag Theory of Fiction” (1986). Dunque, ancora una volta, occorre essere capaci di raccontare un’altra storia e di trovare un’altra lingua per raccontarla.

 

Nel prologo del suo Undrowned. Lezioni di femminismo Nero dai mammiferi marini (Timeo, 2021), Alexis Pauline Gumbs conia il termine “inannegate”. La versione italiana dello smilzo, prezioso, volumetto, è affidata alla traduzione di Marie Moïse, Camilla Rechchad e Mackda Ghebremaria Tesfaù, femministe e attiviste. Nel prologo, “Undrowned”, termine lasciato intatto nel titolo, diventa “inannegate” e designa – con un femminile inclusivo inedito e necessario – i sopravvissuti e le sopravvissute al middle passage. Si tratta al tempo stesso dell’eccidio storico, avvenuto molti anni fa, e di quello simbolico, che ancora continua ad accadere: la privazione del respiro affiancata a una sorte nella quale sopravvivere è un caso, che può determinare una forma di resistenza. “Quello che voglio dire – si legge nel prologo – è che i sopravvissuti e le sopravvissute, ammassati uno sull’altro in circostanze irrespirabili nel ventre delle barche, sono gli inannegati, e il loro respiro non è separato da quello dei loro familiari, dei loro compagni di prigionia, il loro respiro non è separato dal respiro dell’oceano”. La dimensione acquatica smussa i confini e attenua le differenze (di genere, di lingua, di specie) consentendo a Gumbs (e a noi) di rinvenire il senso di una lotta collettiva che è quel che serve ora. Comunque la si guardi, è l’unica possibilità, al di là dei minuti di silenzio e delle lacrime di rabbia, verso una revisione vera dei nostri modi di stare al mondo. Campionando esempi dai mammiferi del mare e da altre creature viventi, Gumbs elabora una teoria del femminismo Nero di radicale utilità, interspecista e liberatoria. Credo sia qualcosa di cui abbiamo bisogno, noi donne di ogni appartenenza.

 

La parola chiave di questi tempi barbari, quella che può indurci all’annegamento, è femminicidio. È una parola relativamente recente per un fatto antico, che ha radici culturali profonde. Esse risiedono in parte nell’idea che noi si sia nate dalla costola di un’altra creatura. Non è una complessa idea filosofica, ma una cognizione popolare, che si è radicata nelle culture occidentali a prescindere dalla fede religiosa, che c’è o non c’è, ma che alla fine non conta poi tanto.  Conta lo stereotipo che essa ha contribuito a determinare. Noi, le donne, siamo creature di seconda mano. Certo, non è vero, ma alla fine quel che si fa dei nostri corpi dimostra questo: non contiamo.

Però esiste un’altra possibile lettura, per alcuni blasfema. Essere create seconde può significare anche che la donna è venuta meglio, perché sbagliando si impara. Per certo ha dovuto apprendere come assorbire i colpi, curare le ferite, dar senso alle cicatrici, individuare interstizi nei quali vivere. Non è una soluzione equa, ma per molto tempo è stata l’unica che noi donne – o almeno molte di noi – si è riuscite a trovare. Nel tempo, abbiamo cominciato a smettere di nasconderci, ma ugualmente non è ancora possibile superare la “sindrome della costola di Adamo”. E nell’opinione comune più diffusa, il problema resta.

 

Il maschile sovraesteso – è questa la definizione giusta, scrive in più di un’occasione Vera Gheno – non è un dato puramente linguistico. Esso designa una condizione di priorità definita culturalmente e confermata dalle scelte linguistiche, “perché la lingua vive in una relazione continua con ciò che deve descrivere” (Femminili singolari, Effequ, 2021). E dunque questo maschile che si sovraestende a coprire ogni altra determinazione di genere (grammaticale e fattuale) rispecchia una condizione culturale mutilata, dove a un solo genere (grammaticale e fattuale) si riconosce esistenza. Non è banale affermare che un sistema linguistica edifica, conferma e modella un sistema sociale. E in questo sistema sociale, la donna violata è una che “sbatte nelle porte (R. Doyle, La donna che sbatteva nelle porte, Guanda, 1979): è colpa sua se ha urtato il pugno che l’ha colpita. Per quanto infantile sia questo pensiero – “È colpa del gatto, mamma, se gli ho pestato la coda!” – esso resta la radice di una cultura che, di fronte a una vittima donna, torna a fornire paternalistici avvertimenti, saccenti richiami a non andarsene in giro da sole, non vestirsi in modo inadeguate, non essere troppo “libere”.

 

Inannegate, però, resistiamo. E osiamo rispondere.

Il maschio alpha, ferito, si scandalizza.

 

In un piccolo straordinario romanzo (Undicesimo comandamento, Perdisapop, 2011), Elena Mearini descrive con straordinaria potenza la vita di una donna picchiata regolarmente dal marito e convinta di essersi macchiata di qualche indicibile colpa. Da questa colpa, il marito aguzzino pensa di mondarla imponendole una teoria di bagni forzati:

 

L’acqua scorre nella vasca, Lo scroscio s’arresta e lui parla. M’invita a entrare in bagno.

Vuole che mi immerga fino al collo. Gli piace lavarmi, Togliermi dal corpo i residui di un tempo inutile.

Considera sporcizia i minuti trascorsi senza di lui. La mia solitudine scatena batteri, incrosta le ore, Solo al suo fianco mi è concessa l’igiene, la garanzia di una pelle pulita che odora di giorno e soddisfa la sera. Questo crede.

Il bagno è una minaccia rituale di annegamento, di privazione della volontà e del respiro: il contrario di quel che accade appunto alle inannegate.

 

“Il respiro è una pratica di presenza“ scrive ancora Gumbs: un esercizio di adattamento e di resistenza, che è tempo si trasformi in una pratica di relazione. Questo serve ora, di nuovo di più e meglio dei minuti di silenzio per commemorare un’ennesima morte. Senza questo, continueremo a raccontare la storia consueta, senza frutto. Chi si salva, si salva per caso, quasi mai per volontà. La sensazione è che la volontà non basti, quando è solitaria. La volontà di una relazione sana accoppiata alla volontà di non arrendersi. La volontà di non cedere accanto a quella di ragionare. Sono tutte volontà fragili, se indossate da una donna. Che – parrebbe – è sempre colpevole di qualcosa. Anche di fronte a una morte insensata, è sempre la donna che annega.

 

Allora forse è tempo di provare una strada diversa, la stessa di Antigone come la declina Stefano Raimondi, nel suo splendido recitativo per voce sola (Antigone. Recitativo per voce sola, 2023):

 

Sono sangue e respiro e non soltanto la pelle che vedete, che cercate di capire senza intendere come la folla fa davanti ai simulacri. Sono quello che sento e non uno di voi che sappia restarmi vicino. D’altronde lo so: sono le spine a proteggere le rose.

 

Forse è tempo di farsi spine.

4 thoughts on “Del non annegare. Per Giulia e per noialtre

  1. Volevo dire qualcosa a proposito della lingua.

    In primo luogo, ho sempre pensato che il termine “femminicidio” sia un’oscenità della quale sarebbe bene liberarsi. Implica sintatticamente che, qualora la vittima di un omicidio sia una donna, la punizione debba essere maggiore – una specie di aggravante data unicamente dal sesso della vittima, senza nessun riguardo per il singolo caso, o come ulteriore aggravante nella migliore delle ipotesi. Da lì a incolpare il maschio in quanto tale è un attimo, e infatti sento molte farneticazioni al riguardo.

    In secondo luogo, allarghiamo un poco il campo. Il cambiamento in atto nelle lingue occidentali, di cui Vera Gheno è uno dei sostenitori, funzionerà esattamente come sperato: ci ritroveremo con un Italiano mozzo e neutrale, senza che la condizione femminile sia migliorata di un epsilon. Il classico specchietto per le allodole, o come ha detto recentemente Dario Fabbri, una “lotta minimale”, che verrà facilmente vinta, perché non cambia, di fatto, una beata mazza.

    Già oggi in ambiente universitario, dove lavoro, siamo di fatto obbligati a usare obbrobri linguistici tipo “Mitarbeiter:innen”. (Vivo in Germania.) Naturalmente questo ha zero effetti misurabili sul numero / qualità delle ricercatrici, ma guai a non uniformarsi.

    Alcuni altri punti che ritengo importanti al riguardo:
    – a fronte della messa di fatto al bando del termine “nigger” dalla parlata pubblica nel mondo anglosassone, di quanto è migliorata negli ultimi, diciamo, 40 anni, la condizione dei neri d’America?
    – Paesi con lingue del tutto neutrali: la Turchia, l’Indonesia e la Danimarca. Condizione della donna nei tre Paesi?
    – Paese con una lingua molto più generizzata delle indoeuropee: Israele. (In Ebraico moderno, chiedere “tu parli Ebraico” declina sia il pronome che il verbo a seconda del sesso della seconda persona.) Condizione della donna in Israele?
    – l’introduzione dello scevà in Italiano: a fronte della cosiddetta “inclusione” di chi “non si sente binario”, metti qualche decina di migliaia di persone, cambiamo la lingua a sessanta milioni di altre. Per me è inaccettabile.

    E via dicendo. Ma mi sa che con gli anni, oltre a essere un pedante maschio bianco etero, divento pure un poco conservatore.

  2. Ci riprovo – vediamo se stavolta il commento non si “perde” da qualche parte.

    Dicevo che il termine “femminicidio” è abominevole e sarebbe bene smettere di utilizzarlo, visto che implica, che lo si voglia o no, che se la vittima di un omicidio è donna, il reato debba venire punito con più durezza. A me sembra un obbrobrio giuridico.

    A tale proposito, poi, leggo citata Vera Gheno – bene, parliamo un poco allora della tendenza, in atto in tutte le società occidentali, a modificare la lingua per renderla “più inclusiva”. (Esempio in Italia, propugnato dalla Gheno, il tentativo di introdurre lo scevà per de-generizzare l’italiano.) Si tratta di una battaglia del tutto inutile, o come disse Dario Fabbri in un intervento qualche tempo fa, “minimalista”, che verrà vinta facilmente… perché non farà cambiare nulla di ciò che si propone di cambiare. Si chiamano “specchietti per le allodole”.

    Proviamo a vedere alcuni argomenti al riguardo:
    1. lingue del tutto prive del genere: turco, danese, indonesiano. Condizione delle donne in questi Paesi?
    2. lingua ultra-generizzata: ebraico. Condizione della donna in Israele?
    3. parola ormai bandita dal discorso nel Paesi anglosassoni: “nigger”. Miglioramento della condizione dei neri d’America?

    Meditate, gente.

  3. Giulia Cecchelin non è stata uccisa per un maschile esteso, peraltro declassabilissimo a un neutro diffuso, ma perché nessuno l’ha ascoltata quando parlava delle gelosie maniache di Filippo Turetta. Magari non ha avuto il coraggio di parlarne di più e di dirlo più forte, perché si era investita, in virtù di un mal riposto senso del dovere dopo la morte della madre, del ruolo di donna matura che non ha diritto a lamentarsi e a far rispettare i suoi bisogni e i suoi desideri; e forse sperava che la laurea che avrebbe preso il giorno dopo avrebbe risolto tante cose. E lì dietro c’è tutta una cultura e una società che non l’ha sorretta, in cui, lo so bene, anche gli uomini sono prigionieri dei loro ruoli tradizionali e che chi li sfida ne paga le spese. Ma non ricadiamo sempre sul ‘maschile esteso’ (declassabile a neutro, ripeto), perché in Turchia, dove parlano una lingua senza genere, le donne sono ben più subordinate agli uomini che in Italia! Che palle! Pensiamo piuttosto alla vergogna del lutto nazionale a Berlusconi nel 2023 e di non averlo concesso ad Aldo Moro nel 1978, che aveva avuto ben altra vita e bel altra morte: quello sì che è stato un premio vergognoso (ripeto) al maschilismo rampante!

  4. Beh, in tutta evidenza la lingua non è tutto, ma solo una parte: magari bastasse modificare la grammatica.È un pezzo, non tutto. E credo che quello italiano si chiami “maschile sovraesteso”. In quel “sovra” credo stia dentro molto. Infine:le altre battaglie che cita sono centrali, combattute anche da me in sedi di erse da questa.Ma combattute comunque. Tendo a non mettere tutte le erbe nella stessa cottura. Grazie!

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