di Federica Gregoratto

 

 

Alla notizia del centesimo (e passa) femminicidio di quest’anno, ci si chiede sconsolati e rabbiosi che fare. Nella sua lettera potente e lucida al Corriere del Veneto, Elena Checchettin, sorella di Giulia, qualche idea ce l’ha: “educazione sessuale e affettiva capillare”, per insegnare che “l’amore non è possesso”, “finanziare i centri antiviolenza”, “dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno”.

Tutto questo è da fare, e molto di più. E sarà sempre troppo tardi.

E allora: “Bruciate tutto” – così si conclude la lettera di Elena. Uno slancio di furia, che non è però cieca, sta in coda ad una sfilza di buone ragioni, si staglia come il loro correlato affettivo, che le alimenta, accende, illumina. Questa rabbia è una torcia, ma su cosa?

 

Qualcosa sta già bruciando, e sono le coscienze di molti uomini che, almeno sui social media, sembrano ora unirsi nel riconoscimento di una responsabilità collettiva. “Filippo non è un pazzo, ma un uomo come tutti. … Ora tocca a noi.

Questa presa di coscienza è forse transitoria e non del tutto sincera, ma non mi sembra essere mai emersa con tale veemenza.

 

Il lavoro da fare, in primo luogo, è quello di capire il senso della frase “i ‘mostri’ non sono malati, ma figli sani del patriarcato”, che Elena mette al centro della sua lettera. Gli atti di violenza gravi e estremi, senza ritorno, non sono eventi indipendenti, singoli, ma si capiscono solo in un continuo.[1] C’è un collegamento tra il risentimento per una donna che si impone con più valore e bravura di un compagno di classe o collega, il fastidio, magari celato da una ‘battuta’, per una sua voce troppo alt(r)a e per un suo corpo che occupa uno spazio non accordatogli, la negligenza del lavoro di cura, le varie politiche discriminatorie (per esempio quelle sui salari, o sui diritti di maternità e paternità), un diritto negato o reso troppo difficile (per esempio quello all’aborto), una mano sul culo non richiesta, una manipolazione ai fini di favori sessuali, uno stupro, un omicidio (femminicidio).

 

Vogliamo fare di tutta l’erba un fascio, sfumare i confini tra livelli diversi di violazione morale, e tra diversi tipi di accountability (etico-morale, giuridica), riteniamo che la giustizia sommaria sia la soluzione? No. Solo la pigrizia concettuale, e magari un meccanismo di difesa preventiva, potrebbero farci pensare questo. Ci sono già innumerevoli pratiche in atto – concettuali-filosofiche, giuridiche – che giustamente si premurano di mettere paletti e stabilire o preservare l’innocenza del presunto colpevole. Quello che manca, di cui c’è disperato bisogno, è uno sguardo d’insieme, che permetta di analizzare come una cosa possa condurre a e rinforzare l’altra, e di come il bisogno di distinzione spesso si traduca in un depotenziamento di istanze critiche e trasformatrici.

 

La prossima volta che un’amica, una sorella, una parente, una madre, una collega avrà fiducia in voi e proverà a raccontarvi, magari in forme confuse e dubbiose, di un abuso percepito o paventato, non minimizzate, non girate il capo, per vergogna o senso di impotenza. In quella confidenza c’è il seme di qualcosa, cui prestare attenzione. Con le antenne allertate e sintonizzate su sensibilità e empatia. Dimenticatevi dell’ansia di mettervi al riparo, per un momento. Quel lasso di tempo, la sospensione, lo spazio tra l’ascolto, la paura che lo impregna e subito contamina, e la reazione di rigetto e minimizzazione, può fare la differenza. Tra la vita e la morte, a volte.

Questo, sia chiaro, non lo dico solo agli altr‘i’, agli ‘uomini’, cerco di tenerlo presente a me stessa innanzitutto: quante volte non ho io sentito il grido d’aiuto di un’amica, collega, studentessa, ho deciso (inconsciamente, spero) di ignorarlo. Quante volte anch’io ho partecipato attivamente e passivamente alle dinamiche del patriarcato, accettando e addirittura favorendo una dinamica di abuso o negligenza.

La prossima volta… ma sarà sempre ancora tardi.

 

Oggi, però, non è il giorno di fare di tutta l’erba un fascio, e di creare una collettività della responsabilità troppo omogenea. Il lavoro che devono fare gli uomini è l’autoriflessione e l’autocritica. Siamo stanche di essere noi a dover spiegare, sopportare e poi continuare a fare il lavoro del concetto, della lotta, e dunque della cura. La rabbia, proprio quella più razionale e giustificata, è un peso che siamo stanche di dover portare. Troppe volte mi sono sentita costretta, e in diritto, a cercare di mostrare a un amico, un amante o un partner le sue mancanze, il suo coinvolgimento, spesso irriflesso e involontario, in una dinamica nociva di potere e privilegio. Per poi sentirmi in dovere di rassicurarlo, perdonarlo, provare a rimettere insieme i cocci di un io fragile, pentito, anche perché autenticamente desideroso di fare del suo meglio. Il lavoro di critica, e cura, bisogna dirlo, è stato spesso più faticoso con gli uomini che si sentono già aperti, progressisti, femministi. Ma nessuno di loro, e di noi, può permettersi di coltivare l’arroganza del chiamarsi fuori.

 

È una forma di ingiustizia, che si può chiamare ingiustizia affettiva, quella per cui siamo messe nella condizione di dover scegliere tra le ragioni della rabbia e le ragioni della prudenza. La rabbia – il grido bruciate, bruciamo tutto! – può diventare imprudente, ci si può ritorcere contro. Può alimentare un desiderio deleterio di vendetta, farci perdere di vista obiettivi pratici, diventare una forza che ci scava dentro, distrugge. Leggere e sentire la storia di Giulia, in questi giorni, mi ha fatto piangere, ha risvegliato traumi presenti alla coscienza ma non risolti, mi ha impedito di dedicarmi a me stessa, al mio lavoro. (Visto che il mio lavoro consiste soprattutto nel pensare ai problemi strutturali e sociali che affliggono le relazioni sentimentali, e alla violenza di genere, e nel parlarne con altri, con le mie studentesse e i miei studenti, questa rabbia disperata non è un problema grave per me. Non tutte hanno il mio privilegio, però).

L’idea di ingiustizia affettiva la dobbiamo soprattutto alla filosofa Amia Srinivasan, che la ha elaborato nel contesto del discorso antirazzista. In uno straordinario e ora famoso studio sulla rabbia antirazzista, un’altra filosofa, Myisha Cherry, ci mostra le virtù di un certo tipo di rabbia, che secondo lei non è controproduttiva, ma anzi ci indirizza e motiva ad azioni volte a comprendere e combattere ingiustizie di razza. Tuttavia, arrabbiarsi nei confronti degli oppressori razzisti non è esattamente la stessa cosa che arrabbiarsi nei confronti degli oppressori sessisti. Molte donne, soprattutto eterosessuali, hanno una relazione intima, sentimentale, di cura e amore, con i propri aguzzini. La rabbia, soprattutto se individualizzata, corre il rischio di bruciare i legami che ci sostengono e da cui dipendiamo, di gettarci in una landa desolata di solitudine e alienazione.

 

Ma allora, è (anche) la relazione intima (eterosessuale, ma non solo), l’amore, nel nostro contesto patriarcale, il problema? Lo è, e non è facile da affrontare. È questo anche il lavoro da fare, riflettere e capire come l’amore sia (anche) qualcosa di cui vorremmo tanto fare a meno: desiderio di possesso, impossibile da soddisfare, e paura dell’abbandono, impossibile da cancellare del tutto. Possiamo imparare ad amare al di là del controllo, dell’ansia della perdita? Per impararlo, dovremmo però avere il coraggio di riconoscere, accogliere, e solo poi fare i conti con gli angoli meno etici dei nostri bisogni affettivi.

Amore è anche paura di lasciare da solo qualcuno che abbiamo amato, il desiderio di essere buone e gentili che vince l’istinto di conservazione e il bisogno di proteggersi. Amore è continuare a credere nel buono e nel bello, non riuscire a contemplare lo scenario peggiore, anche per autodifesa, protezione della propria memoria, della razionalità delle scelte passate. È Giulia che sale su quell’auto, ancora una volta, fiduciosa, o ingenua.

Il desiderio dell’altro, e di sé nell’altro, è anche desiderio di morte, e fino a quando non si farà davvero i conti con questa verità, l’aggressività e la violenza non potranno essere contenute e limitate. I tentativi (cristianeggianti) di separare l’amore da tutto ciò che di malvagio e pericoloso abita l’anima umana sono lodevoli, ma limitati, e inutili. La purificazione dell’amore è parte del problema, esattamente come la cecità nei confronti della dimensione strutturale della violenza di genere.

 

Nota

 

[1] Avevo già parlato di questo, qui.

2 thoughts on “Bruciare tutto, tutto brucia. Della rabbia e dell’amore

  1. Se non è solo ipocrisia autogiustificativa e si vogliono considerare gli aspetti meno confortanti dell’amore, allora bisogna avere il coraggio di sapere che la scienza ha dimostrato che le donne eterosessuali sono irresistibilmente attratte, negli uomini, dalla ‘triade nera’: machiavellismo, narcisismo e psicopatia.

    https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0191886921000027
    https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S019188691500210X
    https://doi.org/10.1111/spc3.12018

    Dietro ogni coppia eterosessuale c’è un uomo che proietta potere e capacità di distruggere l’altro e una donna che lo convince ad amarla perché lui non la distrugga. Lo schema non sempre riesce. Lo diceva già Michelangelo Antonioni sessant’anni fa che l’eros era malato. Siamo noi gli scemi che, letto Freud in fretta, lo crediamo sano. Gesù Cristo non era casto per caso.

  2. Ricordo che su un milione di uomini all’anno in Italia quelli che commettono femminicidio, escludendo i ragazzini, sono 4 o 5. Dobbiamo fare di tutto per portare quel 4 o 5 a zero ma temo che su un milione di maschi si trovino 4 o 5 di tutto, poeti santi eroi navigatori serial killer eccetera, cioè tutte quelle condizioni che per la loro rarità si definiscono non per caso eccezionali. Numeri minimi suoi quali è difficile intervenire con “l’educazione”. Che può
    molto di più sui comportamenti negativi maggiormente diffusi. Provarci è doveroso, peraltro.

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