[È uscito da poco il nuovo numero di «Semicerchio. Rivista di poesia comparata», dedicato a Zanzotto e i linguaggi degli altri: qui l’indice. Pubblichiamo l’introduzione dei curatori, Luigi Tassoni e Sara Svolacchia, e il contributo di Alberto Russo Previtali, Tra scienza e pulsione. La lingua francese nella riflessione zanzottiana sul linguaggio]

 

Zanzotto e le lingue altre

di Luigi Tassoni e Sara Svolacchia

L’attenzione a linguaggi differenti, sia nella poesia che nei saggi, da sempre è il connotato evidente dell’opera di Andrea Zanzotto.  Questa caratteristica è stata nel tempo meglio identificata con la scoperta di una vera e propria poetica: una sorta di contrassegno che prolunga i suoi effetti molto al di là dei motivi dominanti ogni singolo libro del poeta di Pieve di Soligo.  Da questa considerazione essenziale deriva la nostra attenzione alle «lingue altre», ovvero all’insieme dei codici e dei generi, verbali e visivi, che si integrano in una sorta di azione bricolage nel testo poetico sin dalle origini di Dietro il paesaggio. L’ascolto di tali e tante sollecitazioni orienta l’elaborazione del discorso, in modo da arricchirne la centralità, e al contempo in modo da spiazzarla e deviarla verso forme miste, concomitanti, analogiche e informali.

In un intervento del 1995 sulla traduzione, il poeta fa notare che l’insieme dei «livelli del dire e delle lingue nella poesia vengono mobilitati: anche quando si crede di scrivere una poesiola tranquillissima, in realtà si mettono in gioco tutti questi livelli». L’esperienza di Zanzotto lo porta a far interagire la ricerca di una parola alta e riflessiva con una familiare dialettalità, alla convergenza fra oralità e scrittura, come a far sì che il lavoro di ricontestualizzazione delle lingue e dei lacerti di lingue più direttamente frequentate (come, ad esempio, il francese, il tedesco, e, in modo personalizzato, l’inglese) trovi complemento nella grafia, nel disegno e nell’immagine del testo. Basti ricordare gli inserti in varie lingue nel continuum del verso, il triangolo del sogno-incubo di Microfilm, i disegnini e le onomatopee anche fumettistici del Galateo in bosco, i riferimenti alla vocalità, alla glossolalia, al petél, e persino alle schegge di senso ripescate nella memoria, come il saluto che i soldati ungheresi rivolgono alla nonna in una poesia di Conglomerati. Proprio nell’ultimo libro, nella poesia Silvia, Silvia là sul confine, potremmo rintracciare la motivazione congeniale alla nostra scelta di approfondire per «Semicerchio» la vocazione zanzottiana del trovarsi al confine mentre sconfina per ricreare la propria lingua testuale, rispetto a un italiano o troppo legato alla convenzione linguistico-umanistica o troppo chiuso rispetto a esperienze ulteriori. Le aperture del linguaggio di Andrea Zanzotto, da noi qui privilegiate considerando il lavoro del poeta lettore e traduttore di lingue altre, e il lavoro dei suoi lettori e traduttori che provengono da culture altre, potrebbero riconoscersi nell’emblematica prospettiva della poesia su menzionata, e specialmente nella figura di Silvia, la ragazza che ne è protagonista, di cui il poeta scrive: «tu che ti sentivi progettata […]/ in “altre” lingue, in altre strutturazioni/ di te, che non possono in alcun modo finire».

 

I critici e gli studiosi che hanno contribuito a questo dossier hanno indagato la relazione zanzottiana con le «lingue altre» attraverso prospettive diverse. Prima di tutto, come influenza diretta del francese, del tedesco e dell’inglese.  Al francese di Mallarmé, spesso considerato come riferimento privilegiato per Zanzotto, Valerio Magrelli accosta quello di Artaud, capace di «includere» là dove, invece, Mallarmé «espunge». Artaud, dunque, come modello da seguire per «fondere lo spazio del paesaggio e quello della tecnica, la perlustrazione del veneto terricolo e quella dell’inconscio lacaniano, il genius loci e la nuova linguistica, Heidegger e Pollicino». Sulla polarità Mallarmé-Artaud insiste anche Alberto Russo Previtali, che vi legge un conflitto tra «gli abissi acherontici del non dicibile e la possibilità della parola chiarificatrice», vale a dire, lacanianamente, tra «lingua e lalingua». In questo quadro, il francese appare per Zanzotto simulacro della «lingua pentecostale» dotato di «una funzione stabilizzante». Per quanto concerne il tedesco, non v’è dubbio che sia il modello hölderliniano a rimanere centrale al punto che, come ricorda Luigi Tassoni, esso è «così pervasivo ed essenziale da non potersi fissare in limitate corrispondenze». Fondamentale appare, tra le molteplici prospettive di indagine, l’immagine del bosco protettore garante di un’iniziale «identificazione dentro il paesaggio»; l’oscillazione tra il «qui» rassicurante e il «là» dell’estraneità (il dort); la sostanziale adesione all’idea di un silenzio «intrecciato e necessario al linguaggio poetico». A proposito dell’inglese, invece, il saggio di John P. Welle dimostra efficacemente quanto l’idea di un disprezzo per questa lingua da parte di Zanzotto sia errata. Come suggeriscono alcune delle lettere del carteggio con Zanzotto che l’autore ha gentilmente offerto alla pubblicazione, la conoscenza approfondita di Allan Ginsberg e dei modernisti di dantesca filiazione, quali Joyce, Eliot e Pound risulta approfondita, segno di una «fascinazione» ancora troppo sottovalutata.

 

 

 

«Lingue altre», inoltre, nel senso della traduzione e della ricezione di Zanzotto fuori dall’Italia. In Germania, ad esempio, dove la diffusione della poesia zanzottiana si deve oggi al collettivo Planet Beltà, di cui Camilla Miglio presenta nel dettaglio l’intento programmatico e la dimensione estetico-politica, intesa come attenzione ai «vettori multidirezionali di senso e suono» e  agli «echi multilingue»: traduzione non più vista come mera trasposizione, passaggio pacifico da una lingua all’altra, ma vero e proprio processo ri-creativo. Ed è proprio attraverso un medesimo processo ri-creativo che Camilla Miglio retrotraduce in italiano le poesie zanzottiane dal tedesco del collettivo Planet Beltà: un «movimento a zigzag» attraverso cui entrare nel magma della lingua. Diversa la ricezione zanzottiana in Ungheria dove, come illustra Eszter Rónaky, l’interesse appare relativamente tardivo e ancora piuttosto circoscritto. Soprattutto negli ultimi vent’anni, tuttavia, un numero incoraggiante di saggi, studi critici e raccolte antologiche ha preso forma, corredato da importanti, sebbene ancora parziali, traduzioni.

«Lingue altre», infine, come «linguaggio altro»; linguaggio inteso come ricerca poetica costante, tensione verso un dire che può assumere i tratti della sofferenza, dell’insufficienza. Tale è la prospettiva indagata da Tommaso Gennaro in relazione al dramma dello «scrivere poesia dopo Auschwitz», del trovare le parole per dire, nonostante tutto. L’aiuto viene dall’altro «figlio della guerra», Paul Celan, che per primo sembrò mostrare a Zanzotto la necessità di scrivere «dentro le ceneri di Auschwitz».

 

In tale ottica multilinguistica, non poteva mancare una sezione dedicata alle traduzioni dei testi zanzottiani. Oltre alla già menzionata retrotraduzione di Camilla Miglio, che permette di conoscere parte della proposta tedesca del collettivo Planet Beltà, un’intera sezione del dossier è dedicata alle versioni in francese, una delle lingue in cui Zanzotto risulta, ancora oggi, maggiormente tradotto. Piuttosto che presentare le versioni oramai canoniche, si è voluto dare spazio a delle proposte recentissime (come quella del collettivo CIRCE) o ingiustamente passate inosservate (è il caso di Jacqueline Risset). Tali esperimenti traduttivi sono stati al centro della presentazione del numero di «Semicerchio» al Salon de la Revue di Parigi, così come di quella a Firenze nel quadro del festival internazionale di poesia «Voci lontane, voci sorelle».

A chiudere il dossier, quattro lettere inedite di Andrea Zanzotto a Luigi Tassoni introdotte e annotate da Milly Curcio. Tra le altre ricche informazioni che il carteggio rivela, è ancora questione di traduzioni, di poesia e di «legame musaico», segno di una preoccupazione quanto mai centrale in Zanzotto e per nulla affievolitasi nel corso degli anni.

 

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Tra scienza e pulsione. La lingua francese nella riflessione zanzottiana sul linguaggio

di Alberto Russo Previtali

 

Nella sua poesia e nelle sue riflessioni in prosa, Andrea Zanzotto è riuscito a fare esistere nuovi modi di pensare diversi e cruciali aspetti della realtà umana. Tra questi, uno di particolare fascino è indubbiamente il rapporto tra la poesia, il linguaggio e la lingua. Anche nelle fasi di più intenso confronto con alcune teorie portanti del linguistic turn (come la linguistica di Saussure, la psicoanalisi di Lacan o la filosofia di Heidegger), la riflessione universalizzante di Zanzotto sul linguaggio è sempre permeata da un ascolto affilatissimo della particolarità delle lingue, della loro idiomaticità eccentrica, del loro carattere sfuggente rispetto al discorso oggettivante della scienza. Si tratta di una serie di riflessioni che toccano le diverse lingue abitate e attraversate dal poeta (sia dall’uomo diglossico[1] che dal letterato e «botanico delle grammatiche»[2]) in un approccio flessibile capace di fare interagire la dimensione più latamente storico-culturale, quella psicologica e quella sociolinguistica.

 

Un esempio pregnante di questo approccio è la ricostruzione in chiave freudiana data dal poeta del rapporto tra l’italiano, concepito come lingua paterna della cultura e dell’Io, il latino identificato come Super-io normativo e il dialetto come lingua materna e amniotica dell’inconscio[3].  Un rapporto dinamico, che viene fin dalle prime raccolte situato nell’orizzonte annichilente della «consapevolezza geologica»[4], fuori dalla temporalità della storia e della cultura: «Io parlo in questa / lingua che passerà»[5]. L’insistenza sulla singolarità della lingua in cui si è destinati a parlare e vivere è sempre connessa in Zanzotto alle possibilità creative, di libertà e di autenticità che essa offre. Per questo, egli ha percepito l’inglese, o meglio il «neoinglese», come l’espressione di un «enorme potere politico, economico, scientifico, tecnologico, culturale e anche bassamente massmediale»[6], come una forza pervasiva votata ad accrescere l’impoverimento e la marginalizzazione delle lingue nazionali e dei dialetti.

 

Un rapporto particolarmente denso e profondo è quello che Zanzotto intrattiene con la lingua francese. Lingua straniera da lui meglio conosciuta, lingua di molti autori letterari e filosofici di riferimento, lingua dell’esperienza della traduzione (Balzac, Bataille, Leiris, Michaux etc.) e della migrazione (in Svizzera), il francese viene ad assumere la funzione polare di un modello capace di attirare e produrre una serie di argomentazioni e di slanci etici e poetici.  Su questa lingua, Zanzotto prova a saggiare la possibilità di un’esplorazione della tensione conflittuale tra la spinta alla comunicazione panterrestre e quella particolarizzante e identitaria della comunità. Nei suoi interventi, ritorna spesso l’idea di una coincidenza tra l’universalità linguistica non omologante e la differenza della singolarità idiomatica. Ciò avviene spesso attraverso il riferimento al miracolo di Pentecoste, ovvero a quel passo biblico in cui si narra che di fronte agli apostoli in preda alla glossolalia «la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,1-11).

 

Nella poesia Microfilm, punto centrale di Pasque e uno dei momenti più densi dell’itinerario zanzottiano, l’avvicinamento al miracolo di questa lingua «felicemente pentecostale, dotata di universalità ‘per eccesso’»[7] viene tentato attraverso la combinazione dei segni grafici (lineetta, cerchio e arco semicircolare), che passano dalla loro elementare geometricità alla dimensione grafemica di base  (la ‘i’ e la ‘o’) e quindi a quella del significante e delle sue derive (Odio, O Dio, Io Dio, Iodio etc.). Racconta il poeta che attorno a questi segni, formatisi e vissuti da lui in sogno, all’alba, in un sonno influenzato dagli psicofarmaci, «subito cominciarono a formarsi anche dei commenti che balzarono fuori in francese»[8]. È lui stesso a offrire un’interpretazione di questa scelta linguistica inconscia, che aveva a suo dire «soprattutto la funzione far ricordare che ‘quello’ non doveva essere italiano, ma più-che-italiano, qualcosa che mirava a entrare, cioè, in un ordine di simboli immediati, pentecostali, universalmente leggibili vi propria»[9]. Alla possibilità di vedere nel francese la lingua migliore per assolvere quella funzione contribuisce certamente l’interesse prestato in quegli anni da Zanzotto allo sviluppo delle scienze umane (e soprattutto alla «croce, costituita da psicoanalisi e linguistica»[10]) sotto l’impulso dello strutturalismo. Questa attenzione, prima ancora che di ordine propriamente scientifico, è di tipo etico, poiché ispirata dalla speranza di poter ancora far valere nel discorso sociale i valori del poetico di fronte all’incontrollato sviluppo della scienza e della tecnica. È dunque una fiducia in una possibile alleanza tra poesia e scienze umane volta ad affrontare, suturare, assorbire i traumi prodotti dalla modernità, come nel caso del disastro del Vajont che è all’origine di Microfilm[11].

 

Il rapporto tra la strutturazione linguistica e l’«ustione del non senso»[12], ovvero, per dirla in termini psicoanalitici, tra significante e pulsione, si ritrova nella prosa Tra ombre di percezioni ‘fondanti’ (appunti), una delle riflessioni critiche più dense e suggestive di Zanzotto. In questo intervento, il poeta traccia «due linee fondamentali che hanno caratterizzato la poesia del Novecento»[13]: la linea Mallarmé e la linea Artaud. La prima viene connotata a partire dal primato della «poesia-lingua come qualche cosa che ha una assoluta vita propria, ricca di una totale autonomia, basata sul vigore del significante»[14], mentre la seconda è descritta attraverso la «negazione dello ‘stile’» dovuta alla spinta verso il «lato del superidiomatico, addirittura dell’autistico»[15]. Partendo dal lessico, queste due citazioni rimandano immediatamente alla riflessione sulla lingua pentecostale e sulla particolarità idiomatica delle lingue. Il vigore proprio del significante sembra essere concepito come un’iperstrutturazione universalizzante, capace di organizzare la «violenza lavica»[16] delle pulsioni e di cancellare la particolarità tipologica ed eccentrica che attraversa ogni idioma. Il «mondo parallelo» e desomatizzato della poesia-lingua, fondato su un sistema in cui «le parole si richiamano fra di loro, s’incatenano e creano un ‘distacco’»[17], non può non rimandare alla teoria lacaniana dell’inconscio «strutturato come un linguaggio», richiamata proprio nel testo-commento di Microfilm attraverso il «significante barrato» e il nome stesso di Lacan: «est-ce que D est de quelque manière le ‘grand signifiant barré’ qui a part au nihil (moitié invisible) et au réel (moitié visible)? (Lacan)»[18].

 

Questa citazione mostra che lo spazio combinatorio e disincarnato del significante, in linea con la fase ‘classica’ della teoria di Lacan, è pensato attraverso una visione del linguaggio come struttura di separazione, che, in quanto tale, non può che intrattenere dei legami di fortissima correlazione con la dimensione pulsionale (con la Cosa, con das Ding freudiano) da cui essa separa ed è separata. Zanzotto tiene a sottolineare questo legame, riconoscendo che «anche la stessa ‘astratta’ vita del significante raggiunge per sue strade la creaturalità, la fisicità, il corpo di colui che scrive, pur restando nella sua sfolgorante libertà»[19]. Si tratta di una precisazione che permette di pensare il rapporto di contrasto-convivenza tra i poli Artaud/Mallarmé come una relazione conflittuale tra situazioni che «vogliono essere dialettizzate ma non sono mai completamente dialettizzabili»[20]. Inevitabile, in questo quadro, il riferimento alla psicoanalisi, concepita come un movimento «a spola»[21] tra gli abissi acherontici del non dicibile e la possibilità della parola chiarificatrice, della parola impregnata dell’esperienza della risalita, del lavoro di scavo e di bonifica. Il riferimento in questo testo è a Freud, ma, come vedremo, nella produzione in prosa di Zanzotto è possibile rinvenire questa dinamica anche in una prospettiva lacaniana, con un richiamo alla specificità del francese.

 

Dopo La Beltà e Pasque, raccolte in cui domina una poetica del significante influenzata dal pensiero del Lacan strutturalista, in Filò e ne Il Galateo in Bosco, con l’irruzione del dialetto, Zanzotto dialoga con il Lacan che arricchisce la sua teoria, passando dal linguaggio alla «linguisteria» e dal significante al tema concettuale di «lalingua»[22]. Con questi neologismi, lo psicoanalista mette in risalto il lato materno e affettivo della lingua, il suo fondo inarticolato e puramente fonematico che continua a pulsare e a fluttuare al di qua del taglio significante. In questa prospettiva, il linguaggio non è nient’altro, dice Lacan, che «ciò che il discorso scientifico elabora per rendere conto di quella che io chiamo lalingua»[23]; il linguaggio come oggetto di studio e prodotto della linguistica appare quindi solo come «un’elucubrazione di sapere su lalingua»[24]. Ora, nell’opera di Zanzotto, il motivo errante di lalingua viene a sostenere la riflessione sul dialetto, il quale, escluso dai primi libri, appare, come si è detto, con Filò, e si ripresenta poi nella produzione successiva in gruppi di testi o componimenti isolati. Lo scavo lacaniano nella dimensione amniotica di lalingua permette a Zanzotto di pensare meglio lo statuto del dialetto, concepito come un modo di darsi del fatto linguistico che sfugge alla norma e alla presa della storia. Il poeta avverte infatti il dialetto come «veniente di là dove non è scrittura […] né ‘grammatica’»[25], ovvero da un’alterità impensabile, che la fissazione normativa della lingua tenta di disciplinare; un’alterità non padroneggiabile né oggettivabile, che rivela «il nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene, monta come un latte»[26]. Questa immagine di risalita rimanda al rovesciamento tra «polo infero» e «polo supero»[27] rappresentati dalla linea Mallarmé e dalla linea Artaud, le quali, è bene sottolinearlo, sono anche leggibili come due modi estremi di attestarsi della lingua francese. In Tra ombre di percezioni ‘fondanti’, la reversibilità è esplorata a partire dall’immagine ungarettiana della parola «saliente dall’abisso»[28], esperienza iniziale e fondante anche per «il poema che sembra generarsi dalle parole stesse, al di fuori di quello che è un controllo dell’inconscio e del magma»[29].

 

Il legame correlativo tra i due poli non può dunque che essere posto in parallelo con quello tra lingua e lalingua teorizzato da Lacan (molto intenso il richiamo tra i due participi «veniente» e «salienti»). Su questo terreno, Zanzotto riconosce allo psicoanalista il merito di essere riuscito a porsi in ascolto di lalingua, di essere stato capace di percepire la sua presenza e di parlarne, dandone una consistenza teorica proprio a partire dall’idea dell’impossibilità di costruire una teoria compiuta, essendo lalingua un «tema», ricorda suggestivamente il poeta, che dovrebbe «rifiutare qualunque rapporto con la carta scritta (o addirittura con qualunque significante chiamato a denotarlo)»[30]. Ora, poiché per Zanzotto lalingua rimanda immediatamente allo spazio inafferrabile del dialetto, la sua prospezione della genesi di questo tema in Lacan non poteva che darsi in una chiave propriamente linguistica, a partire da una riflessione sulla lingua francese:

Grande merito di Lacan è stato il riuscire a indicarne la presenza [di lalingua] stando all’interno del francese, lingua che ha assassinato i dialetti e il tipo di oralità perpetua che in essi balugina, per diventare esangue, traslucida e mineralizzata in una specie di struttura di silicio/argento. Per quanto mobile e ricchissima. O Lacan ha percepito il verso di lalangue proprio perché egli stava nel francese?[31]

 

Dopo avere attraversato le riflessioni sul legame correlativo tra parola pentecostale e superidiomaticità, e quelle sulla reversibilità tra i poli Artaud/Mallarmé, capiamo immediatamente da quale costellazione teorica proviene questo interrogativo. Ciò che interessa allora sottolineare è la possibilità di leggere la riflessione sulla lingua francese da cui nasce questa domanda in parallelo con le descrizioni della poesia-lingua e del francese onirico di Microfilm. In questi casi attraversati in precedenza, la lingua francese può essere considerata come una struttura che viene plasmata da altre esperienze (la poesia pura, la spinta al «più-che-italiano»), mentre nell’ultimo passo citato le proprietà di quelle esperienze vengono proiettate sulla lingua francese in quanto tale nella sua attuale situazione storica. Il francese viene connotato attraverso le caratteristiche reperibili nella tendenza universale della parola pentecostale e nell’autonomia del significante perseguita da Mallarmé: è una lingua disincarnata e distaccata («esangue», «mineralizzata»), e quindi, grazie a questa separazione, una lingua animata da ampie possibilità di combinazione tra gli elementi del significante («mobile e ricchissima») votata alla chiarezza («traslucida», «struttura di silicio argento»).

 

Oltre a Microfilm, questa concezione si riflette anche in altri testi dell’opera poetica zanzottiana in cui avviene l’irruzione del francese. Ne La Pasqua a Pieve di Soligo, sono in francese i versi in cui viene menzionato il rapporto soggettivo con la psicoanalisi : «oui, je lis scilicet, la revue paraissant trois fois l’an / à Paris, sous la direction du docteur J. Lacan; / oui, je veux savoir ce qu’en pense l’école freudienne de Paris, / peut-être par là arriverai-je à étouffer mes soucis; / je déborderai comme ce halo, comme cette herbe, du grabat / où mon Begehren m’a cloué et d’Oedipe le stérile combat»[32]. Sotto il tono canzonatorio che ricopre il passo – essendo l’ironia una delle strategie testuali portanti del poemetto – occorre rinvenire la volontà di ribadire, in francese, il potenziale orientativo del discorso lacaniano. Non può essere un caso che questo appunto autobiografico segua in giustapposizione quello che, sempre in francese, ricorda la propria “fedeltà” virgiliana, che allude a sua volta, metonimicamente, al legame intimo, ormai percepito come assurdo e obsoleto, con la lingua latina («Oui, l’après-midi je lis Virgile puisqu’on / m’avait appris le latin dans un vieux collège de ma région»[33]). Il latino in quanto lingua della Storia, in quanto simbolo della norma linguistica e dell’eredità classica, ma anche, come ha fatto notare Giorgia Bongiorno, in quanto lingua della scienza che si pone come «potente intermediario fra tradizione e lingua massificata del dopoguerra»[34].

 

Un altro esempio dell’idea di una funzione stabilizzante del francese è rappresentato dalla poesia Bleu, ultimo componimento di IX Ecloghe. Dopo aver attraversato la crisi della propria vocazione di poeta bucolico di fronte all’avvento della Grande accelerazione; dopo aver spinto la propria poesia ai limiti dell’implosione informale (che avrà luogo con La Beltà), Zanzotto chiude il suo libro con un componimento in «raffinato francese post-simbolistico»[35]. Questa poesia da un lato rappresenta un momento finale di pacificazione rispetto agli sperimentalismi e alle ibridazioni lessicali dei testi che lo precedono, e dall’altro conferma la percezione soggettiva della vicinanza tra latino e francese come riferimenti ad alto valore normativo. Non si deve dunque, in questo caso come nel precedente, accordare un primato al tono leggero e distaccato che, dopo avere attraversato molti punti della raccolta, permane anche in questo componimento conclusivo.

 

In questo senso, ci sembra che sia da completare la giusta analisi in cui Stefano Dal Bianco fa notare che il francese «in genere compare in citazioni letterarie» leggibili nell’ottica di una «specializzazione nel senso della frivolezza»[36]. Ora, quest’ultima, come mostrato negli importanti casi appena analizzati, non è da considerare solo in relazione ai contesti generali delle raccolte, ma deve esserlo anche nel suo intimo legame con la ricerca zanzottiana di uno «zero da cui partire»[37], di un terreno simbolico in cui poter fare poesia in modo non inautentico; poiché questa ricerca è condotta sempre con la coscienza acutissima dell’impossibilità di un fondamento, del carattere mancante di ogni sapere umano. Va in effetti sottolineato che questa ambivalenza tra il movimento di sutura del trauma e quello verso la nominazione del vuoto attraversa, a diversi livelli e in diverse dimensioni, tutta l’opera di Zanzotto.  Ciò vale dunque anche per la presenza del francese, come dimostrano altri casi citati da Dal Bianco. Se la presenza dell’incipit della Marsigliese («Allons enfants de la patrie»[38]) in Medusa in un freddo luglio e la citazione pascaliana in Euganei («joie joie joie, pleurs de joie»[39]) sono interpretabili solo come strategie finalizzate a produrre effetti di abbassamento e di innalzamento all’interno dei singoli componimenti, gli inserti di Su un nuovo campo di fagioli e di Avventure metamorfiche del feudo  possono essere letti ancora, oltre il filtro dell’ironia, come richiami alla valenza strutturante del francese. Nel primo di questi inserti, la scelta linguistica entra in opposizione con il significato del messaggio: «Mais tout j’adore en mon jargon / et tout en mon jargon s’adore»[40]. L’esaltazione della particolarità del proprio idioletto (jargon) è in effetti espressa attraverso un forte parallelismo che rende visibile il lato relazionale e sovraindividuale del significante. Una lettura affine si può proporre per il secondo inserto: «Le GRAND FIEF TOUJOURS REVENANT / DISPARAISSANT / LE ROI DES REVENANTS»[41]. Al di là dell’ironia creata dai «caratteri maiuscoletti e altisonanti»[42], occorre in effetti considerare come il francese sia qui chiamato a sostenere la descrizione della dinamica essenziale del poetico: il movimento di presentificazione e di assenza dell’oggetto (il feudo) attraverso il significante (il Fort-da freudiano), valorizzato qui dalla ripetizione del fonema [ã].

 

Questa lettura della presenza del francese nel corpus (che andrebbe completata e approfondita) dovrebbe rappresentare la prima parte di un’indagine complessiva sul modo in cui la concezione della lingua francese formulata discorsivamente da Zanzotto è portata ad influire sulla sua poesia. Questa indagine dovrebbe, a partire dal filtro teorico suddetto, reinterpretare i materiali e i risultati dei lavori dettagliati che sono stati condotti per ricostruire l’intertesto delle influenze e delle riscritture dei modelli francesi[43]. Per raggiungere una vera profondità interpretativa, questa indagine dovrebbe però, in seguito, approdare a un’analisi strutturale e stilistico-formale dell’incidenza nell’itinerario poetico delle due linee presentate nell’antinomia Mallarmé/Artaud. Se è vero, infatti, che in Zanzotto, come ricorda Nicola Gardini, «il francese e il tedesco vengono prima», poiché «incarnano la modernità stessa»[44], la microteoria delle percezioni ‘fondanti’ deve essere letta come un modo superiore di interagire con i modelli letterari d’oltralpe e con quel modello linguistico fortemente idealizzato che è la lingua francese; la quale, in questa dicotomia, si presenta in tutta la sua ambivalenza.

 

Possiamo quindi chiederci, a mo’ di conclusione: perché secondo Zanzotto ‘stare’ nel francese ha permesso a Lacan di intrasentire lalingua? Poiché tendendo all’autonomia significante, nel suo periodare e versificare cristallino, questa lingua non può che far risuonare ancora di più il suo rovescio, il suo rimosso: l’ineliminabile oralità spuria, pulsionale e affettiva dell’idioma che si vuole singolare, al di qua di coscienza, scrittura e grammatica, storia e nazione.

 

Note

 

[1] Cfr. Andrea Zanzotto, Nota a Filò, in Le poesie e prose scelte, Milano, Mondadori 1999, p. 541. (D’ora in poi citeremo il volume con la sigla Pps).

[2] Cfr. Id., Europa, melograno di lingue, Pps, p. 1355.

[3] Andrea Zanzotto, Lingua e dialetto (appunti), Pps, p. 1103.

[4] Andrea Zanzotto, Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, Roma, Nottetempo 2007, p. 46.

[5] Andrea Zanzotto, Caso vocativo in Vocativo, Pps, cit., p. 145.

[6] Andrea Zanzotto, Tra lingue massime e minime, Pps, p. 1304.

[7] Ibidem.

[8] Andrea Zanzotto, Una poesia, una visione onirica?, Pps, cit., p. 1297.

[9] Ivi, p. 1298.

[10] Andrea Zanzotto, Autoritratto, Pps, cit., p. 1209.

[11] Per una lettura approfondita di Microfilm in questa prospettiva si veda Alberto Russo Previtali, La scrittura del trauma: Microfilm. La lettera e il suo doppio, in Id., Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire, Milano, Mimesis 2019, pp. 155-166. Si rimanda inoltre a questo volume per una trattazione approfondita degli aspetti essenziali del rapporto tra la poesia di Zanzotto e la psicoanalisi lacaniana.

[12] Andrea Zanzotto, Una poesia, una visione onirica?, Pps, cit., p. 1296.

[13] Andrea Zanzotto, Tra ombre di percezioni ‘fondanti’ (appunti), Pps, p. 1338.

[14] Ivi, p. 1341.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, p. 1340.

[17] Ivi, p. 1342.

[18] Andrea Zanzotto, Microfilm, in Pasque, Pps, p. 413.

[19] Andrea Zanzotto, Tra ombre di percezioni ‘fondanti’ (appunti), Pps, p. 1341.

[20] Ivi, p. 1345.

[21] Ivi, p. 1342.

[22] Cfr. Jacques Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora, Torino, Einaudi 2011.

[23] Ivi, p. 132.

[24] Ivi, p. 133.

[25] Andrea Zanzotto, Nota a Filò, Pps, p. 542.

[26] Ibidem.

[27] Andrea Zanzotto, Tra ombre di percezioni ‘fondanti’ (appunti), Pps, p. 1342.

[28] Ivi, p. 1343.

[29] Ibidem.

[30] Andrea Zanzotto, Su “Il Galateo in Bosco”, Pps, p. 1220.

[31] Ibidem.

[32] Andrea Zanzotto, La Pasqua a Pieve di Soligo, in Pasque, Pps, p. 425.

[33] Ibidem.

[34] Cfr. Giorgia Bongiorno, Corpi e tempi morti nella poesia di Andrea Zanzotto, in Laura Toppan, Donatella Favaretto (a cura di), Hommage à Andrea Zanzotto, Paris, Cahiers de l’Hôtel de Gallifet 2014, p. 115.

[35] Pier Vincenzo Mengaldo, citato in Stefano Dal Bianco, Profili dei libri e note alle poesie, in Pps, p. 1482.

[36] Stefano Dal Bianco, Le lingue e l’inglese degli haiku, in Giorgia Bongiorno, Laura Toppan, Nel “melograno di lingue”. Plurilinguismo e traduzione in Andrea Zanzotto, Firenze, Firenze University Press 2018, p. 44.

[37] Andrea Zanzotto, Qualcosa al di fuori e al di là dello scrivere, Pps, 1234.

[38] Andrea Zanzotto, Medusa in un freddo luglio, in Sovrimpressioni, in Id., Tutte le poesie, Milano, Mondadori 2011, p. 926.

[39] Andrea Zanzotto, Euganei (1), in Conglomerati, ivi, p. 1045.

[40] Andrea Zanzotto, Su un nuovo campo di fagioli, in Sovrimpressioni, ivi, p. 906.

[41] Andrea Zanzotto, Avventure metamorfiche del feudo (4), ivi, p. 940.

[42] Stefano Dal Bianco, Le lingue e l’inglese degli haiku, cit., p. 44.

[43] Si vedano le seguenti ricerche: Silvia Bassi, Un «giardiniere e botanico delle lingue»: Andrea Zanzotto traduttore e autotraduttore, tesi di dottorato, Università Cà Foscari di Venezia, 2010; D. Favaretto. Da Pieve di Soligo a Parigi: Andrea Zanzotto e la poesia moderna francese tra Michaux e Cendrars, tesi di dottorato, Université Paris-Sorbonne, 2015.

[44] Nicola Gardini, Il latino di Andrea Zanzotto, in Giorgia Bongiorno, Laura Toppan (a cura di), Nel “melograno di lingue”. Plurilinguismo e traduzione in Andrea Zanzotto, cit., p. 85.

1 thought on “Zanzotto e i linguaggi degli altri

  1. Forse, si poteva anche precisare – come le curatrici sanno – che quel misterioso “CIRCE” non è altro se non un gruppo di giovani dottorandi e ricercatori, a guida del poeta-traduttore Jean-Charles Vegliante (già prof ordinario alla Sorbonne-Nouvelle), di cui faceva parte pure uno dei contributori del numero della rivista “Semicerchio”, Giovanni Solinas.
    – Altre informazioni su: https://uneautrepoesieitalienne.blogspot.com/search/label/Zanzotto
    Quel seminario ha funzionato per anni, e ha prodotto (oltre ai contributi del sopracitato blog) vari lavori italianisti in ambito francofono, come l’dizione critica bilingue della “Vita nova” (con la lezione di G. Gorni) per i tipi della Garnier Classiques.
    Grazie dell’attenzione,
    Michèle

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