di Pietro Pascarelli

 

Circa vent’anni fa, nel 2001, uscì la nuova e ultima edizione, arricchita rispetto alle precedenti, pubblicate fra il 1984 e il 1989, del libro di Giuliano Scabia Lettere a un lupo, per i tipi di Casagrande di Bellinzona, con una bella copertina a colori — un’immagine con tanto rosso (il fuoco, giacché si vedono ceppi di legna ardenti, ma, forse anche, un riferimento alle fauci?) su sfondo blu (un cielo, peraltro stellato ma, forse, anche un’infinità, l’inconscio?) — disegnata dallo stesso autore. Dato il grande interesse che in me suscitava Scabia per la sua arte e le questioni che sollevava, avevo a suo tempo cercato l’Autore —non ricordo ora tutti i dettagli per il gran tempo trascorso— invitandolo a parlare delle sue opere in un dibattito pubblico che Scabia chiese di intitolare “Lettere a un lupo”. L’incontro con Scabia in persona saltò all’ultimo momento per motivi non dipendenti dalla sua volontà, ma si tenne ugualmente in absentia sulla base di una scaletta di letture concordata in emergenza e focalizzandosi sulla testimonianza di persone che ben lo conoscevano e avevano collaborato con lui. Ovviamente il risultato dell’incontro fu ottimo ma non poté essere quello che la sua presenza avrebbe reso possibile, e dopo di allora sono sempre in cuor mio ritornato sulla faccenda delle lettere a un lupo, che allora mi colpì molto e oggi ancora mi sembra cruciale.

 

Perché un uomo, un artista, a un certo punto della vita, entra in un tale progetto poetico, e avvia una corrispondenza epistolare con un lupo, lasciandogli lettere nel bosco, per anni e anche dopo pause di diversi anni?  A seguito —io penso, giacché il poeta si immerge senza spiegazioni subito nell’opera — del riconoscimento dentro di sé di un profondo desiderio di conoscenza e confronto, forse accentuato dalla sua scelta di vivere molto nella natura, fra i boschi dell’Appennino, e quindi di una prossimità reale ed emozionale. Forse anche, suggeriscono per assonanza le parole, di un desiderio di conforto rispetto a una posizione di incertezza esistenziale e filosofica tipicamente umana, conforto che può provenire solo da un’esperienza radicale, dal dialogo con un essere che non vive nel dubbio, ma nella pienezza assoluta dell’esperienza in ogni dato momento e luogo a differenza di noi uomini, che nella nostra costitutiva divisione ci agitiamo nel tormento di non saper accettare il piacere senza conflitto e la vita in presa diretta, senza il distacco dalle cose che le parole necessarie per descriverle producono, angustiati dalle continue domande che ci poniamo su di noi, che intercettano e intaccano la stessa unità del nostro essere. Come se, senza il lupo, ci mancasse un importante e specifico interlocutore, un simbolo di libertà, e inoltre la possibilità di pensare a certe cose necessarie e importanti, di immaginare un mondo diverso e di lasciare campo libero al pensiero nuovo e alla creatività, alla possibilità di coesistenza di cose contraddittorie: la ferocia e la dignità, la solitudine e l’amicizia, l’incontrastabile libertà e il legame. Il lupo è bestia silvana, ma può anche essere comprensivo e affettuoso, dice Scabia. Sembra di poterlo vedere insieme come compagno di strada con cui ci si può intendere e imparare, come mostro o amico, terrore vivente o confidente capace non solo di verità, ma anche di sorprendente mitezza, creatura anch’essa fragile e mortale. O si può riconoscere nel lupo un messo del Signore, portatore di un messaggio talora difficile da decifrare, agente della distruzione e della morte o di un diverso ordine superiore, di un’altra pace, di un’altra guerra; una finestra sull’universo, di cui suggerisce la complessità, le contraddizioni e l’obbedienza a una legge non umana, ma non per questo peggiore o ingiusta, o incomprensibile. O infine il lupo come la tigre di William Blake, con il suo splendore di fuoco e le sua spaventose simmetrie, su cui quel poeta non smette di interrogarsi con ammirata meraviglia, è il simbolo di un enigma insolubile la cui funzione è farsi accettare come parte dell’universo.

 

Non è chiaro se a scrivere lettere a un lupo sia lo scrittore in quanto autore di un prodotto dell’ispirazione e del suo talento, o invece l’uomo che egli pure è, e che a un certo punto passa la mano al poeta perché rielabori al meglio una partita che sembra sfuggire di mano sul piano della sola ragione ordinaria. Sta di fatto che due anni dopo l’uscita di quest’ultima edizione di “Lettere a un lupo”, nel 2003, Scabia, alla fine del suo libro di poesie “Opera della notte”invia una “Domanda di conforto a un poeta amico”: «ti scrivo come accennato in colloqui d’estate per chiederti conforto sulla notte —la difficile notte dei tempi…Il tempo degli assassini è venuto – ne siamo stati testimoni: e continua a venire.  Mi domando se non siamo anche noi partecipi – e se il gigantesco omicidio incarnato nelle guerre (personali e di massa) non sia una necessità della mente, come qualche pensatore va scrivendo. Che ne pensi? Il tempo degli assassini è confluito in quello dell’imbonimento. … cosa resta da fare ai poeti? Quattro anni fa [ nel 1997 al festival di poesia di Medellin, nota mia] ho incontrato un uomo speciale – un po’ diverso da tutti quelli incontrati prima. … il mamo (sciamano) Zäreymakú.. dalla Sierra di Santa Marta, altissimo monte (5000 metri)  nel nord della Colombia. … Più volte Zäreymakú ha detto: Gli uomini che abitano al di là della linea negra – il cerchio magico che circonda la Sierra di Santa Marta – non hanno sapienza (no tienen sabiduria) perché sporcano le acque, fanno fuggire i nostri uccelli e scarseggiare i pesci, rovinano le foreste e ci tolgono la possibilità di vita. Che stiano attenti – perché così distruggono anche se stessi- non hanno sapienza».

 

Il lupo, creatura controversa e iconica, occupa un posto di primo piano nelle fiabe e nell’immaginario, nonché nel weird, di tutti i popoli. Il premio Nobel per la letteratura Olga Tokarczuk ci ricorda che Platone prende in considerazione la trasformazione dell’uomo in lupo. Nel suo romanzo “Casa di giorno, casa di notte”, un personaggio dal nome solenne di Ergo Sum medita su una frase di Platone nell’ottavo libro della Repubblica, che sembra cogliere il momento causale della licantropia: «Colui che ha gustato visceri umani, si trasforma inevitabilmente in lupo».

Il lupo è presente (come lupo di Gubbio) nella vita e nelle testimonianze della santità di Francesco, il fraticello di Assisi, e così Scabia riporta il fatto: « …Qualcuno ha cercato di parlare col lupo, come san Francesco, e ci è riuscito. Con molte bestie feroci che abitano in noi si può dialogare, o cercare di stabilire rapporti epistolari, come ha fatto G. Si tratta però sempre di sogni e leggende».

 

La femmina del lupo, la lupa, e per estensione un essere che coglie la quintessenza al femminile di un vivente soggetto solo alle leggi della natura, compare in una sorta di rovesciamento della ferinità in accudimento materno quale nutrice dei gemelli Romolo e Remo —un’altra contraddizione in cui il mito la coglie— nella storia leggendaria di Roma, mentre rimane associata al cliché della turbinosa sensualità femminile nella novella omonima di Giovanni Verga, e genericamente ancora, ma stavolta con la denominazione di strega, in una giovinetta dell’epoca dell’Inquisizione, vista come icona delle forze incontrollabili e misteriose della natura, da cui attinge strane conoscenze e strani poteri, e stigmatizzata perché ritenuta fuori dal solco che separa la virtù bigotta e ignorante dall’empietà in “La strega” di Jules Michelet.

 

Ma vi è anche, in quest’uomo/poeta che cerca qualcosa di diverso da sogni e leggende, l’idea che lui stesso abbia —cioè noi abbiamo— qualcosa del lupo, e sia/siamo anzi in parte almeno il lupo, o anche il lupo; che anche qualcosa di lui abbia una parte nella nostra costituzione soggettiva e nel nostro modo di sentire, pensare, fare. Qualcosa che in parte entra nella vita della veglia cosciente, in parte abbiamo rimosso e può tornare in modo pauroso. Il lupo dunque come una sorta di alter ego, o come incarnazione del lato oscuro dell’uomo, il perturbante di Freud. E proprio in virtù di questo modo di funzionare della psiche sulla base di estensione identificatoria riusciamo poi a pensare nella prospettiva data dal distacco dell’intelligenza umana, che può entrare in dialogo anche con esseri selvatici e non umani. La saga di Nane Oca, un’opera importante di Scabia in forma di trilogia, si conclude con il romanzo dal titolo “Il lato oscuro di Nane Oca”, che viene cercato per consiglio del Pesce Cavo. Ma si sa che Nane Oca non ha in sé il male alla nascita quasi fosse il peccato originale, e dunque non ha nessun lato oscuro, mentre gli uomini della vita normale forse sì. Quanto al lupo —è tutto molto chiaro— la ferocia, la ferinità, sono necessità per la sua esistenza, sono ciò che gli serve, a uccidere cioè, per vivere: «caro lupo, …Non ho più il coraggio di mangiare le trote del lago segreto. Ma la legge è uccidere per vivere. È inutile fingere. Noi siamo più abili e feroci di te. Salve». Fiero e invincibile, se non con l’inganno, perché è audace e intelligente, il lupo vive di caccia, non avverte la sua solitudine e la tragedia incombente perché ignora il genere umano e i suoi inganni. «Caro lupo, non ti porterò questa lettera. Si sono accorti che c’eri, o hai commesso un’imprudenza. Ti hanno aspettato e ucciso.  Oggi pendevi da un olivo, sangue per terra e bocca spalancata. Salve, ti onoro. Nel bosco porterò memoria di te.  Amico lupo, addio».

 

Siamo uniti al lupo da una straziante nostalgia, qualcosa di noi resta legato a lui e vive oltre la morte.  Ma crediamo di poter condividere col lupo, con gli animali, anche la più grande e spaesata gioia, la gioia edenica e panica del Carnevale. La musica celeste del Carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns potrebbe esserne la pensante colonna sonora.

«Caro lupo, spero di poterti ancora scrivere a lungo. Non trovo le lettere che depongo. Le prendi, vero? Ieri è stato l’ultimo di Carnevale, Carneval grosso, martedì. …Eravamo i tre fantasmi! ..il capofesta, vestito da antico, ha cominciato a fissarci. Conosco questa gente! – ha detto. Siamo scappati. Ci hanno inseguiti, su e giù per le strade del paese, a nascondino per tutta la sera. Alla fine, verso mezzanotte, sono usciti con una barca a ruote sormontata da una casetta. Ci hanno inseguiti con quella. Siamo scappati, tre fantasmi, che gelo, che sudati.  … Poi ci siamo lasciati prendere… Che gioco, che notte! Voi lupi e animali giocate a nascondervi, a travestirvi? Penso, caro lupo, che il gioco e la festa profonda siano il tempo degli dei. Gli animali hanno dei? Salve».

E invece della morte del lupo per mano umana, si può anche immaginare un diverso epilogo: «caro lupo, dopo la festa notturna ho l’impressione che tu non sia più nel bosco. Ti sei perduto inseguendoci? O hai cambiato bosco? Sento che non sei là ma ti sento, come se fossi in questa casa, nel camino, dentro di me. Dove sei? Se non apparirai non ti scriverò altre lettere. Basta che tu (io) rilegga quella che abbiamo scritto da capo e da capo, e là sempre ti ritroverò, e mi ritroverai. G.».

 

Ma tutto questo fa problema? Sembra che dobbiamo abituarci a pensare quanto prima che no, la contraddizione, l’inatteso, l’anomalo, il prodigio, non fanno assolutamente problema, anzi vivificano e rilanciano il discorso. E intanto ci si continua a chiedere quale sia il rapporto fra il bene e il male. Potremmo interrogare Georges Bataille, che fa del rovesciamento dei canoni e delle logiche convenzionali la missione della letteratura, la quale deve accettare la responsabilità di apparire come il male rispetto a un bene non più tale perché soffocato dall’ipocrisia e dalle convenienze sociali, o James Joyce, o un maudit come Lautréamont.  Maldoror, mal d’aurora, esseri della notte. Non indugiamo sull’idea che il male sia appannaggio della tenebra, che sia la notte a favorire insani e perversi piaceri, a proteggere con la sua coltre presenze infernali. L’ipotesi è sempre al primo impatto suggestiva, ma non possiamo certo ridurre la portata eversiva, lo strappo degli scritti di Lautréamont a una simile seducente ingenuità. A meno che non intendiamo per notte l’allusione a qualcosa di diverso che sta oltre i confini del mondo della veglia, ad esempio la fuoruscita dell’inconscio dalle sue profondità, il suo dilagare nella città e nel bosco urbano, nei passages che sono come il mare, o come grotte e camminamenti segreti come immaginano Louis Aragon in “Le paysan de Paris” o Julio Cortázar in “El otro cielo”, o nel ventre di Dublino come Joyce ci mostra nell’Ulisse e in particolare nell’episodio 15, di Circe, con Bloom nel bordello in sfrenato incontro con Bella Cohen. Si tratta della sovversione delle regole del mondo ordinato.  Ciò che in Lautréamont e negli altri Autori qui citati vuol colpire, risvegliare per scosse violente il lettore adagiato in torpidi schemi, la  sarcastica dissoluzione di ogni principio vigente, non si riduce alle suggestioni fosche di un feuilleton. E neanche possiamo ridurre a questi termini la poesia di Scabia, altrettanto rivoluzionaria. Più assiduo del vento, della pioggia o del sole, di tutti gli esseri camminanti o striscianti o fermi sulla terra e per le strade, nel mondo umano secondo Scabia è il divino nella sua accezione pagana, come ilare entusiasmo e forza vitale e il divino inteso come numinoso al di là di ogni specifica confessione religiosa, che si riversa per ogni dove, ed è anche il mitico, il meraviglioso, nonché la possibilità di pensare il mondo in un modo affatto diverso da quello abituale, fatto di schemi, di sola logica binaria, di contrapposizioni frontali ed esclusioni, di moti antilibidici, di sterilizzazione di ogni cosa che vive e si muove, e rappresenta una spinta al nuovo. Nel nostro mondo solito, per come siamo abituati a pensarlo, accogliamo con angoscia il cambiamento e notiamo finanche con ribrezzo la vita che ci coglie di sorpresa, il suo brulicare inatteso in segni e forme di cui la più inquietante è il movimento. Il movimento è, del libero divenire, la forma che più inquieta il sistema d’allarme umano nell’esplorazione dell’ambiente. Ci turba la trasformazione che ogni movimento di cosa sconosciuta suggerisce consistendo attimo per attimo in un diverso e continuo nuovo disporsi, conformarsi e apparire della materia nello spazio, ma soprattutto la percezione di qualcosa che incede, si avvicina, assume posture o emette segnali visivi e sonori, con una sua completa incontrollabile quanto repellente e spaventosa autonomia e volontà: inquietante estraneità, oscura minaccia che procede indifferente a noi, repulsione fino allo schifo e all’orrore. Ecco, invece, nel mondo incantato di Scabia, nel grande e lungo sogno che è la sua poesia e la sua narrazione, non c’è orrore né ribrezzo, né cosa impossibile o priva di senso che non si possa accogliere e non si riconverta in senso. L’anomalo non è patologico né assatanato, gli animali possono parlare senza scandalo e con dignità, l’animo è predisposto ad accogliere senza paura il nuovo e i prodigi, e si fa strada una strabiliante e serena visione delle cose del mondo, e c’è anche il male, ma commisto al bene, da cui è in realtà inseparabile e con esso in qualche modo conciliabile, traendo ognuno dei due opposti senso dall’altro. Il mondo meraviglioso, che non è una super realtà idealizzata senza crimine e ingiustizia, ma un piano di possibilità in comunicazione con dimensioni diverse e non convenzionali, non ha bisogno, per esistere, di costruire il timore, la paura, il rifiuto, esso non è concepito per governare e dominare, sorvegliare e punire, non ci sono aspiranti tiranni o mostri famelici ma un ordine superiore. Nel mondo meraviglioso, in cui splende l’immaginazione popolare, le cose possono accadere con tutta la loro forza vitale e di fascinazione. Si possono «ritrovare i fondamenti del gioco e dell’amore». È in questa cornice che occorre riflettere sulle lettere a un lupo di Scabia, con l’avvertenza di usare infine una speciale e paradossale accortezza, di cui dirò.

 

Scabia compie una sintesi ricca di molteplici elementi. I quali gli derivano da una personalissima narrazione fantastica lieve e sanguigna, eterea e sensuale, che fa però capo alla tradizione fiabesca e favolistica insieme, e ne accoglie, mi pare, figure e dispositivi narrativi  canonici. Non entro qui in più fini discriminazioni basate sulle cruciali opere di Propp, ad esempio, o di altri studi sulla materia, per limitarmi a registrare come Scabia, poeta e uomo di teatro, che si mise anche al servizio della causa della liberazione dei matti col suo Marco Cavallo, sia in contatto quasi spontaneo con la vita della comunità umana nella sua realtà più fantasiosa e spirituale, coi temi e i modi della narrativa popolare radicata in una zolla culturale feconda di sapienzialità e di invenzione. Ne derivarono i testi, per lo più ambientati nel magico mondo veneto intorno all’antica Pava, a volte ispirati alle consuetudini della tradizione tosco-emiliana, che scriveva e leggeva/rappresentava in varie occasioni tradizionali, dal Natale alla proclamazione della primavera nei Maggi, in diverse località dell’Appennino reggiano, che furono teatro anche di sue lezioni per il DAMS di Bologna, e saldarono una consuetudine, una collaborazione e un legame d’affetto con la gente del luogo.

 

I suoi tanti libri attingono a una gioiosa forza poetica,  e sono un canto della vita e delle avventure umane nel gran teatro dei piccoli mondi personali e sociali, talora commentati dagli animali, cui non sfugge l‘insensatezza delle azioni umane, come nel caso della strage di Roncisvalle di cui sono stati spettatori (“Teatro con bosco e animali”). Un contado con paesaggio, animali, fiori e alberi, acque e strade, villaggi e a distanza la città, percorsi da miti, credenze, leggende, superstizioni, e da bimbi e vecchi, avventurieri, soldati, giovani amanti e soggetti bizzarri, investigatori e tanti fiori, prati verdi, case adorne della loro storia e partecipi dell’intreccio delle cose umane, e tanta grazia e musica: tutti elementi atipici rispetto al mondo dei conti e della sola ragione, delle gerarchie, dei soldi e delle armi, e in qualche modo tutti toccati da un che di prodigioso che rende unica e illuminante per vari aspetti la loro vicenda. Si tratta di storie animate dall’intelligenza e dalle passioni dei singoli personaggi, che in realtà si aprono su tematiche e vastità cosmiche.  E la scrittura di Scabia si sofferma assiduamente  su quel limite dove stazionano esseri e concetti di confine fra il saputo e l’ignoto, fra la ragione e la sragione, fra la selva e la polis, fra la realtà e la fantasia, che la letteratura ha il compito di frequentare per superare il conformismo e i limiti della conoscenza. Non si può comprendere “Lettere a un lupo”, non si può cogliere il senso della suprema interrogazione intorno a cui ruotano quelle lettere che sono altrettanto pezzi d’arte, chiaroveggenza affettiva e sociale, se non si legge quest’opera guardando in filigrana alla sottostante tessitura dei romanzi, di cui mi limito qui a citare quelli sulle meravigliose storie di Nane Oca  (Le avventure di Giovanni Oca alla ricerca del momon) nei territori dell’antica Pava (Padova). Le racconta Guido il Puliero nella sua casa ai Ronchi Palù, a una piccola congrega di amici e compaesani, che là si riuniscono per ascoltare le pagine del romanzo a mano a mano che vengono scritte. È una creatura a parte la loro lingua che è snella e ornata, elegante e arguta come un ricamo, e tiene avvinti il signor Bet, fumatore di pipa, un prete di nome Ettore detto il Parco, il farmacista di Casalserugo,  il maestro Baroni mangiatore di minestre, due ciclisti vestiti da ciclisti ( i gemelli Cavaldoro primo e Secondo) che arrivano pedalando, il signor Oreste che arriva in paracadute con un tonfo leggero avendo fatto le frasche sfrascare, il dottor Gennari, Agostino e Nani Majo, Maria la governante e qualcun altro ancora, una monaca di nome Suor Gabriella, che esclama sempre “cisbicchio” e arriva volando. “Arriva volando”. E non ci stupisce più di tanto: qualcuno può volare, lo possiamo in qualche modo ammettere, per di più in un racconto fantastico. Non si sa perché, ma si accetta che una monaca voli, come gli angeli e i santi, con maggior facilità della possibilità che un lupo legga una lettera, e che qualcosa del lupo alberghi in noi stessi, e faccia parte della nostra natura. Quest’ultima è alquanto più impegnativa perché nel volo di suor Gabriella il confine fra fantasia e realtà si dissolve nel volo, che si propone come normale e quotidiano prodigio in un mondo incantato, in cui anche Dio tende il suo orecchio verso la casa del Puliero per ascoltare la storia, e una civetta fa lo stesso appollaiata sul tetto. Nel dialogo col lupo, invece, questa frontiera diventa di colpo stranamente incerta. La corrispondenza epistolare  col lupo non si pone come dettaglio della materia narrativa, sia pure esilarante com’è il volo della suora, ma come svolta cruciale, un affacciarsi sul versante drammatico dell’esistenza, sull’enigma insolubile che la governa, sulla scelta, una scelta di vita, di immergersi nel contesto naturale della montagna sempre più disertata, che è l’altro protagonista delle lettere. L’interrogazione che ci pone Scabia con il suo mandare lettere a un lupo investe il nostro mondo culturale per intero, con tutte le sue cecità, afasie, angustie, o aperture, credenze, illuminazioni, trasparenze, e ne implica torsioni, o rovesciamenti, fino a una completa rivoluzione delle consuetudini e dei significati dati per scontati. Può essere avvincente ma non sciolto da un che di sinistro e allarmante il racconto di Apuleio (“Le metamorfosi”, o “L’asino d’oro”) sull’uomo che la pelle e il corpo di un asino nascondono, o di Pinocchio imprudente e disobbediente che subisce il destino di questa stessa trasmigrazione o metamorfosi. Allo stesso modo non è semplice e innocuo interrogarsi per capire se un lupo può avere o nascondere qualcosa di umano, o se viceversa un uomo possa avere in sé qualcosa non solo di ferino, ma proprio del lupo, perché questo può mettere in discussione la possibilità di partecipare ancora di un’originaria innocenza e sintonia col creato e il progetto divino. Sarà proprio nel riferimento a William Blake e ai suoi Canti, fra cui quelli appunto dell’Innocenza (“Songs of Innocence”) e dell’esperienza “Songs of experience”), e alla loro splendida e abbacinante tigre di luce —mostrata non come l’incarnazione della ferocia e del male, ma come espressione di una volontà divina e di scopi per noi insondabili—che Scabia troverà dei punti di contatto fra un mondo e l’altro, in una dimensione che oscilla fra il creaturale e il non creaturale, ciò che prescinde da ogni comunità terrena o religiosa che sia, e da ogni principio dicibile, per ammettere possibilità che non conosciamo ancora, altri assetti della mente nel suo rapporto col corpo, Dio e l’universo.

 

L’accortezza finale di cui dicevo, necessaria per dare il senso più appropriato  all’ipotesi poetica di Scabia, è, a questo punto, rimuovere la cornice narrativa così ricca e preziosa di accadimenti e concetti, che ci ha fatto fin qui da guida e da sistema di riferimento, rendendo possibile e plausibile scrivere a un lupo, e aprire una nuova strada di ricerca. L’impalcatura narrativa deve a un certo punto essere abbandonata, dimenticata, come gli scontri di una nave sono sbloccati al momento del varo, perché il dialogo col lupo, dando il suo vero frutto ai limiti della riconoscibilità per gli umani, si manifesti per quel che è, un viaggio senza nome nè meta dichiarata, e ci porti davvero nel luogo che ancora non conosciamo. Si tratta di un viaggio cosmico, o anche mistico per certi aspetti, di una mutazione o torsione della psiche e dunque della sua proiezione nel mondo, in un campo di alta energia. Gli anni passano mentre si moltiplicano le lettere. E intanto l’uomo si fa lupo per tornare più umano, il lupo è umanato e trasumanato restando tuttavia poi quell’enigmatico imprendibile avventuriero che è, il bene cade dalla sfera idealizzata e incontra la possibilità di non guardare con orrore alla lotta del bene e del male, di dialogare col male per superarne le ragioni. Ciascuno supera se stesso, nelle parole e nei pensieri messi sul tappeto da uno solo per tutti. E nessuno ricorda o sa dire alla fine quel che era con precisione o quel che è, senza che questo turbi i dialoganti o il lettore. È un viaggio che porta fuori dal consueto come pure da ogni fantasia alternativa, da ogni insegnamento favolistico edificante, da ogni ipotesi di mondi che sia stata mai formulata fin qui o possa esserlo in futuro. No, qui, si tratta d’altro. Il lupo risponde alle lettere di Scabia in un modo che corrisponde a indicare le basi di un progetto che resta per definizione a noi sconosciuto ora, nei suoi sviluppi successivi all’oggi, e nel suo ideale compimento. Non si tratta neanche di andare “In capo al mondo” come titolava un romanzo di Scabia quale meta ultima della vicenda umana e del destino, che possiamo trovare fuori e lontano, o anche dentro di noi: “In capo al mondo è il posto più lontano in cui le anime sanno arrivare, sia dentro, sia fuori di sé”. Ci avviciniamo qui, forse, a una dimensione posta al di là dell’essere,  e quindi non solo alla poesia visionaria di William Blake, cui Scabia fa esplicito riferimento con “Albero stella di poeti rari. Quattro voli con il poeta Blake”, ma in teoria a Giordano Bruno, a Tommaso Campanella, a Giambattista Vico, a una conoscenza nuova, per dirla parafrasando Vico (la scienza nuova) o citando, da ultimo, alcune parole di Wallace Stevens (a new knowledge of reality) tratte dalla sua poesia dal titolo“Not Ideas About the Thing But the Thing Itself”, “Non Idee della Cosa ma la Cosa Stessa”), in cui un roco grido d’uccello annuncia il sorgere del sole immenso, ancora lontano, circondato da un gran coro di cerchi di luce. Un sole si vede anche in una poesia di Scabia, che riecheggia il volo di Parmenide sul carro del sole che la benevolenza di una dea gli concede, e che però va in alto, in direzione esattamente opposta a quello di Stevens, che porta a se stesso e incontro al lettore: “Alto il sole in suo carro andare,/mai la Notte gli è dato incontrare,/erbe aria bestie si sente respirare/è l’ora del Paradiso”.

1 thought on “Lettere a un lupo. Su Giuliano Scabia

  1. Ben altri lupi ci furono (Nadežda Mandel’štam, L’epoca e i lupi, Serra e Riva 1990) e ci sono in giro. Ma voi guardate solo quelli «fra i boschi dell’Appennino»,

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