di Paul Guillibert (trad. di Davide Gallo Lassere e Sara Marano)

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

 

[Per la rubrica Ecologie della trasformazione, pubblichiamo l’Introduzione del libro Éxploiter les vivants. Un’écologie politique du travail, Editions Amsterdam, Parigi, 2023. L’autore, Paul Guillibert, discuterà le tesi del volume nel corso del sesto seminario annuale di POE (Politica Ontologie Ecologia), il 30 novembre e l’1 dicembre a Firenze, presso la Scuola Normale Superiore].

 

 Nel luglio 2006, dopo mesi di mobilitazione a bassa intensità, alcuni delegati dei quartieri popolari che costeggiano i porti di Long Beach e Los Angeles incontrano dei sindacati di camionisti, delle organizzazioni ambientaliste e delle associazioni politiche californiane. Questa riunione segna l’inizio della Campaign for Clean and Safe Ports (Campagna per porti puliti e sicuri, NdT), che ha l’obiettivo di costringere il Comune a vietare i motori a diesel e ad adottare misure ambientali più severe. Ogni anno, più di venti milioni di container passano attraverso i due porti logistici della baia di San Pedro, che insieme costituiscono il più grande sito portuale del Nord America, e la principale porta d’ingresso per le merci verso gli Stati Uniti. Sulle strade che portano ai magazzini, il costante andirivieni di camion è all’origine di un livello di inquinamento particolarmente elevato (anidride solforosa, monossido di carbonio e altre particelle fini). Nel 2006, mentre il numero di persone affette da malattie respiratorie aumenta, la popolazione, prevalentemente afroamericana e ispanica, che vive nei quartieri colpiti dal problema, incontra le associazioni locali e i Teamsters, uno dei principali sindacati americani dei camionisti. La richiesta principale è che i camion diesel siano gradualmente eliminati e sostituiti da veicoli meno inquinanti. Ma fin dall’inizio emerge una difficoltà imprevista. I camionisti non sono dipendenti dei porti o delle aziende di logistica che riforniscono di merci. Sono lavoratori autonomi, proprietari dei loro camion, scarsamente sindacalizzati e quindi particolarmente vulnerabili al potere economico dei loro “clienti”, i porti e le multinazionali della logistica. Se fosse rimasta a quel livello, la richiesta di una migliore salute ambientale si sarebbe basata sulla capacità di lavoratori poveri di sostenere i costi della transizione ecologica. La giustizia ambientale avrebbe rafforzato l’ingiustizia sociale.

 

Ma il movimento coglie immediatamente l’opportunità di difendere due rivendicazioni parallele: la riduzione dell’inquinamento ambientale legato all’utilizzo dei camion diesel, e il riconoscimento dello status di salariati agli autotrasportatori. La questione è semplice. Rafforzare il potere dei lavoratori di fronte al capitale è una condizione necessaria per una transizione ecologica giusta ed efficace. Tuttavia, dopo mesi di battaglie legali e politiche, la 9ª Corte d’appello della California emette una sentenza che dichiara la legittimità della prima rivendicazione, ma non della seconda. In altre parole, gli autotrasportatori devono pagare di tasca propria per l’acquisto di nuovi camion, dal momento che sono considerati come lavoratori autonomi. La decisione porta ad una serie di azioni, blocchi e scioperi da parte dei camionisti, ma alla fine si traduce in un rafforzamento del potere degli appaltatori sui lavoratori. Alcuni fornitori hanno accettato di acquistare i nuovi camion, a condizione di affittarli agli autisti e di prelevare i soldi direttamente dal loro salario. Questa lotta per la giustizia ambientale mostra fino a che punto gli obiettivi di una transizione ecologica devono integrare le richieste di migliori condizioni di lavoro, se non vogliono rafforzare le oppressioni sociali.[1]

 

È proprio questa l’intuizione del presente lavoro: lo sfruttamento del lavoro è al cuore della crisi ecologica; attenuare gli effetti della seconda presuppone di combattere la prima. Per quanto ovvia possa sembrare, questa idea non è molto comune. Si potrebbe addirittura affermare che le relazioni di lavoro siano vistosamente assenti dall’ecologia politica. In effetti, nel discorso di chi detiene il potere, l’ecologia sembra essere una questione di invenzioni tecniche o di imperativi etici. Pannelli solari, auto elettriche e sensori di CO2 sono spesso presentati come soluzioni alla crisi ecologica.

La retorica dell’innovazione ambientale lascia sperare che tutto possa continuare come prima: l’accumulazione di valore rallenterà temporaneamente, ma la sua traiettoria a lungo termine non sarà influenzata da nature[2] diminuite o distrutte. I nostri stili di vita saranno quindi garantiti dalla continuazione di crescita economica e sviluppo tecnologico.

 

Da un altro punto di vista, l’imperativo etico ci interpella in qualità di consumatorз informatз e responsabilз: avremmo l’obbligo morale di cambiare i nostri modelli di consumo, di acquistare prodotti da agricoltura biologica (anche se industriale), di ridurre i nostri rifiuti e la nostra dipendenza energetica per ragioni che hanno a che fare tanto con la transizione ecologica che con la sovranità energetica. I due imperativi “ecopolitici”, tra l’altro, stanno bene insieme. Consumare meglio (ma non certo di meno) dovrebbe consentire ad alcuni di continuare ad accumulare profitti sviluppando al contempo nuove tecnologie. Invenzioni tecniche ed imperativi etici non devono essere rigettati in quanto tali: in futuro bisognerà abbandonare alcuni dispositivi tecnici e le infrastrutture su cui si basano, nonché cambiare i nostri consumi ordinari. Tuttavia, l’innovazione e la moralizzazione non bastano da sole per affrontare il problema ecologico. Due esempi saranno sufficienti a dimostrarlo.

 

Per quanto riguarda le innovazioni tecnologiche, sappiamo che i dispositivi messi a punto per risolvere la crisi energetica possono portare ad un aumento dei fenomeni estrattivi che stanno distruggendo gli ecosistemi. Anche se questo esempio è ormai un’ovvietà, l’estrazione del litio necessario per la fabbricazione delle batterie elettriche sta causando dei disastri ambientali. Lo stesso vale per l’estrazione del rame necessario alle reti elettriche – che siano alimentate da energie rinnovabili o meno – e per le terre rare necessarie alla “transizione digitale”. A ciò si aggiunge un fenomeno noto nell’economia della tecnologia come paradosso di Jevons, o “effetto rimbalzo”: quanto più efficiente è una tecnologia, tanto meno costa, tanto più aumenta il suo utilizzo, portando ad una crescita del consumo che il suo perfezionamento avrebbe dovuto ridurre. Se un’auto consuma meno benzina, si tenderà a usarla di più e quindi a inquinare di più. Inoltre, quando si parla di energia, il problema delle emissioni non è legato a un particolare dispositivo (motori termici alimentati a combustibili fossili) ma a un insieme di infrastrutture connesse tra loro in un sistema di oggetti (pozzi petroliferi, oleodotti, porti e petroliere, raffinerie, pompe di benzina, autostrade e reti urbane, automobili). In breve, è assurdo aspettarsi che una tecnologia prenda il posto di un sistema di oggetti interconnessi, senza che avvenga un profondo cambiamento complessivo dei modi di produzione e circolazione.

 

Ma nemmeno gli imperativi etici del consumo consapevole, da soli, saranno sufficienti a mettere in moto una biforcazione ecologica. La prima ragione di questa impossibilità è che la trasformazione degli stili di vita, soprattutto nelle moderne società liberali, si basa su scelte individuali. Per quanto potente possa essere la mobilitazione emotiva del desiderio, l’incoraggiamento, la pedagogia o l’invettiva non porteranno tuttз a cambiare, tanto meno a cambiare ora. Contrariamente ad un pregiudizio che presuppone che le classi lavoratrici siano meno attente all’ecologia rispetto ai ricchi, va ricordato che questi ultimi inquinano molto di più dei primi, e non c’è nulla a farci pensare che intendano trasformare volontariamente i loro modelli di consumo per soddisfare le esigenze di una rapida transizione ecologica. Dal 1990, l’1% più ricco del mondo ha emesso più CO2 del 50% più povero della popolazione mondiale.[3] Una seconda ragione è la capacità di cambiare le nostre pratiche ambientali. Questo dipende in gran parte dal potere d’acquisto. Smettere di utilizzare l’automobile per recarsi a lavoro significa vivere abbastanza vicino ad una rete di trasporti pubblici, i prodotti etichettati come “verdi” costano più degli altri, l’utilizzo di prodotti domestici sostenibili spesso richiede più tempo di lavoro, etc. Infine, gli imperativi etici di consumo consapevole, da soli, non possono portare ad alcuna transizione ecologica, poiché contribuiscono a nascondere l’esistenza di forme di lavoro alienato.

 

Per la ricercatrice ecofemminista Carol Farbotko, lo smistamento dei rifiuti, ad esempio, contribuisce ad un aumento del “lavoro domestico ambientale”.[4] Individualizzata, la transizione ecologica spesso assume la forma di un imperativo morale ad assumersi una serie di compiti come consumatorз individualз. Questo non significa negare l’importanza pratica di queste azioni, ma piuttosto mettere in discussione l’efficacia politica di un’individualizzazione e moralizzazione della transizione ecologica. Che quest’ultima presupponga una nuova “eticità”, cioè un nuovo modo di pensare ai tipi di comportamenti individuali accettati o disapprovati in una società sostenibile, non implica che queste abitudini siano al di fuori dell’ambito dell’economia politica.

 

La moralizzazione ecologica funziona in particolare rendendo invisibile il lavoro. Nella raccolta differenziata dei rifiuti, spacciando il lavoro gratuito per un atto morale o civico, si dissimula la natura dei compiti coinvolti nel processo e, soprattutto, le persone che li svolgono. Come hanno dimostrato delle ricercatrici australiane, non solo le attività, ma anche le preoccupazioni legate all’adozione di comportamenti ecocompatibili all’interno delle mura domestiche sono principalmente a carico delle donne, con un’aumento del carico di lavoro domestico che queste già svolgono. La moltiplicazione dei compiti e degli imperativi ambientali in casa contribuiscono ad accentuare le differenze di genere nella rappresentazione del tempo. Per le donne intervistate in questa ricerca, il tempo è frammentato dalla molteplicità dei compiti che devono svolgere, mentre gli uomini possono dedicarsi alle loro attività per degli intervalli temporali più lunghi. Tempo di lavoro retribuito, tempo di lavoro domestico e tempo di riposo, per loro, sembrano essere chiaramente delimitati, mentre sono permanentemente intrecciati nel caso delle donne, che si assumono la responsabilità delle richieste di transizione ecologica sulle pratiche domestiche. La moralizzazione della transizione passa quindi per la commercializzazione di «prodotti responsabili», l’individualizzazione e invisibilizzazione del lavoro domestico, la riproduzione di relazioni di genere asimmetriche all’interno della famiglia.[5] Ma, d’altra parte, rendendo la transizione ecologica una questione di atti gratuiti che fanno capo alla sola responsabilità morale della famiglia, è l’insieme dellз lavoratorз salariatз coinvoltз in compiti ecologici che si ritrova invisibilizzato. Lз lavoratorз del settore dei rifiuti sono numerosз: dagli operai salariati delle fognature e dei rifiuti ai lavoratori precari dei centri di transito, a quellз degli impianti di incenerimento, passando per lз lavoratorз della logistica internazionale e lз raccoglitorз informalз delle metropoli mondiali.

 

La produzione di immagini legate ai rifiuti illustra bene il processo di invisibilizzazione del lavoro nell’immaginario della transizione ecologica. Da un lato, si sviluppa tutta una cultura visiva legata alla responsabilità degli individui o delle famiglie nella gestione dei rifiuti. Il fotografo californiano Gregg Segal, ad esempio, ha prodotto una serie di fotografie intitolata 7 Days of Garbage, in cui vediamo persone di tutti i ceti sociali sdraiate in mezzo alla spazzatura che producono in una settimana, sullo sfondo di una natura rigenerata. Secondo Segal, queste immagini hanno uno scopo educativo, in quanto mirano a far riflettere le persone sulle abitudini di consumo. Ciò che colpisce di questi cliché è la sporcizia (sia in termini igienici che morali) di un mondo pieno di rifiuti. Ma ciò che non è visibile è il motivo per cui tutti questi rifiuti non ingombrano il pavimento dei luoghi in cui viviamo. Perché ne vediamo così pochi, se ne produciamo così tanti? La risposta può essere trovata confrontando un’altra serie di immagini, questa volta prodotte dallз lavoratorз dei rifiuti.

 

Alla COP26 di Glasgow, i netturbini del sindacato scozzese GMB hanno prodotto una serie di video nell’ambito del loro sciopero per ottenere migliori retribuzioni e condizioni di lavoro. Uno dei video mostra Chris Mitchell, uno dei portavoce del sindacato, mentre cammina per le strade traboccanti di rifiuti non raccolti.[6] Egli arringa lo spettatore denunciando una situazione inaccettabile sia per gli addetti alla raccolta dei rifiuti che per gli abitanti della zona, e descrive le condizioni di lavoro netturbini dalla crisi sanitaria in poi (mancanza di risorse e di personale, esposizione alle malattie, ritmi di lavoro accelerati che provocano problemi di salute e disturbi muscoloscheletrici, etc.). Mentre le foto di Gregg Segal rivelano la quantità di rifiuti prodotti per casa e ci interpellano dunque in qualità di consumatorз responsabilз, la serie di video di GMB svela invece il lavoro di trattamento dei rifiuti – dunque la divisione del lavoro e l’economia politica su cui questo si basa. Invitando alla solidarietà tra lavoratorз e attivistз per il clima, lo sciopero della GMB è stato sostenuto da moltз dellз ambientalistз presentз alla COP26, tra cui Greta Thunberg. Di conseguenza, alcune delle loro richieste sono state rapidamente soddisfatte.

 

Al contrario, l’alleanza tra lavoratori e attivisti ambientali rivela una delle dimensioni essenziali degli approcci individualisti alla transizione ecologica: ci interpellano unicamente come consumatorз responsabilз. Ora, interpellare l’individuo come soggetto ecologista-consumista è un meccanismo ideologico. Il suo scopo è quello di produrre soggettività subalterne al regime delle merci ma ritenute responsabili delle loro azioni, soggetti morali del potere capitalista nell’Antropocene. Affinché il potere si eserciti sugli individui, si può ovviamente contare sulla forza (l’uso della violenza sistematica della polizia contro le persone razzializzate o i Gilets jaunes, per esempio), ma si può anche contare su forme di incitamento, di guida, di autodisciplina o di consenso, senza le quali i soggetti del potere non accetterebbero necessariamente di applicare le misure sostenute dallo Stato. Occorre quindi formare soggettività che aderiscano (almeno in parte) alle condizioni di esercizio del potere. La retorica moralizzante della transizione ecologica è un esempio perfetto di soggettivazione e assoggettamento degli individui. Nella misura in cui l’azione per il clima è una questione di buon senso, di razionalità scontata – la razionalità imposta dagli eventi climatici confermati dalle scienze ecologiche – un gran numero di persone cerca di orientare le proprie azioni in una direzione più sostenibile. Questi legittimi desideri di allineare le pratiche individuali alla razionalità dei tempi sono importanti motivi di mobilitazione emotiva nell’epoca del disastro ecologico.

 

Tutta una serie di istituzioni del capitale e dello Stato attivano questi desideri etici dando loro un contenuto: comprare questa merce piuttosto che quell’altra, cambiare questo o quel comportamento individuale per non intaccare il sistema produttivo stesso. Comprare “biologico” piuttosto che porre fine all’agricoltura intensiva e alla grande distribuzione; differenziare i nostri rifiuti piuttosto che mettere in discussione il sistema industriale che li produce in serie; abbassare il riscaldamento di un grado piuttosto che ripensare le infrastrutture e i metodi di produzione dell’energia; insomma, una sorta di “l’ecologia comincia a casa”[7], a patto che non influisca sulle strutture politiche ed economiche. Il potere si esprime così nella sua capacità di far compiere agli individui un certo numero di atti sulla base di motivazioni soggettive che essi sottoscrivono. Il potere si esercita quindi all’interno di una logica di individualizzazione e moralizzazione che tende a negare le dimensioni politiche della crisi ecologica, le dominazioni sociali che essa genera e i conflitti a cui inevitabilmente dà luogo. Il consumo di merci in risposta a nuovi desideri ecologici è una condizione per l’accumulo di valore e il risultato della formazione di soggettività adatte alla governabilità ecopolitica del capitalismo.

 

In breve, o inventiamo nuove tecniche, oppure incoraggiamo nuove forme di consumismo senza affrontare la radice del problema, la produzione capitalistica, cioè la produzione di merci per il profitto basata sullo sfruttamento del lavoro salariato e sull’appropriazione gratuita del lavoro umano e delle forze naturali. Criticare le relazioni sociali che causano la crisi ecologica non significa, come spesso si sente dire a sinistra, contrapporre la produzione alla tecnologia e al consumo. Mentre la retorica dei governi e delle imprese pone l’accento sulle soluzioni tecnologiche e sui comportamenti individuali, l’ecologia radicale tende talvolta a considerare che la soluzione ai problemi ecologici non risiede né nelle invenzioni tecniche né nel cambiamento delle abitudini di consumo. Questa opposizione tra produzione, da un lato, e tecnologia e consumo, dall’altro, ignora cosa sia un “modo di produzione” nel senso in cui lo intende Karl Marx.

 

Produrre significa trasformare le realtà naturali per soddisfare i bisogni sociali attraverso il lavoro socialmente organizzato. Nel senso più generale che possiamo dargli – cioè in un senso astratto, diverso da tutte le forme storiche in cui si manifesta concretamente – il lavoro è un’attività che mobilita le tecniche in modo sequenziale, secondo un ordine dato, per generare nuove realtà adeguate ai bisogni sociali[8]. Appropriarsi della natura per trasformarla presuppone quindi sempre un insieme di mediazioni tecniche che informano il processo di lavoro stesso. Non produciamo nello stesso modo né nelle stesse proporzioni quando sfruttiamo la forza motrice dell’acqua per alimentare un mulino meccanico o una diga idroelettrica. Il complesso tecnica-risorsa determina non solo la rete di infrastrutture energetiche, ma anche la natura del lavoro coinvolto nella produzione di energia e, in ultima analisi, in tutte le forme di produzione in cui questa energia viene mobilitata. L’organizzazione del lavoro è condizionata dagli usi tecnici della natura. È anche vero che i compiti svolti nell’ambito di un lavoro non sono mai determinati esclusivamente da dispositivi tecnici. L’organizzazione tecnica è sempre relativa all’organizzazione sociale del lavoro, alle relazioni tra persone e gruppi che determinano le condizioni, la durata, le relazioni interpersonali, la distribuzione dei compiti e così via. Il lavoro reale è quindi co-determinato dai mezzi tecnici a nostra disposizione per appropriarci della natura e dalle relazioni sociali che definiscono i modi in cui il lavoro è organizzato, e la ricchezza sociale distribuita. Le dimensioni più fondamentali dei rapporti di produzione, quelle che sovradeterminano il processo lavorativo, si riferiscono quindi alla proprietà – della terra e dei mezzi di produzione – e alla divisione del lavoro. Perciò, se da un lato non possiamo ridurre un modo di produzione alla sua dimensione tecnica, dall’altro non possiamo nemmeno negare l’importanza delle mediazioni strumentali nell’intera organizzazione sociale del lavoro. La produzione di elettricità in una centrale nucleare si basa su un insieme di pratiche, competenze, istituzioni e infrastrutture che hanno un impatto sull’ambiente naturale e sul processo di produzione – un impatto molto diverso da quello dei sistemi che utilizzano l’energia animale, per esempio.

 

Non dobbiamo quindi essere troppo precipitosi nell’opporre al tecno-soluzionismo delle ecologie dominanti un tecno-nichilismo cieco nei confronti delle attrezzature da cui dipendiamo. L’idea che l’intero problema derivi dalle relazioni sociali – in altre parole, dall’organizzazione sociale dell’appropriazione della natura, della produzione di ricchezza e della sua distribuzione – trascura il fatto che i responsabili immediati della crisi ecologica sono i dispositivi tecnici: le centrali elettriche a carbone, la benzina nei motori, gli input chimici nei terreni agricoli, la plastica negli oceani, ecc. Il fatto che la loro produzione sia organizzata da relazioni sociali non toglie nulla al fatto che la traiettoria eco-cida del capitalismo sia immediatamente causata da sistemi di oggetti tecnici. Questo è ciò che lo storico Andreas Malm ha visto chiaramente quando ha distinto il capitalismo dall’economia fossile, che è solo una delle fasi energetiche della sua storia[9]. Non c’è quindi motivo di opporre un approccio alla catastrofe ecologica basato sulla produzione a un altro basato sulla tecnologia. Una teoria ecologica del capitalismo considera le forze produttive coinvolte in questo modo di produzione, cioè tutti i mezzi naturali, tecnici, scientifici e sociali a sua disposizione per trasformare la natura.

 

Un’argomentazione simile può essere fatta in relazione alle critiche agli approcci basati sul consumo. Non è raro vedere i sostenitori di un approccio basato sulla produzione contrapposti ai seguaci di un approccio basato sul consumo. Ho già accennato ai limiti della moralizzazione dei comportamenti individuali e ai rischi dell’intervento governativo eco-capitalista nelle soggettività consumistiche, ma vale la pena ricordare che non vi può essere produzione senza consumo. Quello che Marx chiamava “consumo produttivo”[10] non è produzione senza consumo, ma si riferisce a tutta l’energia, i materiali e le risorse consumate, cioè utilizzate e distrutte, per alimentare il processo di creazione di nuovi oggetti. L’esempio paradigmatico è la costruzione di edifici. L’edilizia produce un’enorme quantità di rifiuti, macerie e inquinamento. Tutti questi rifiuti sono il residuo dei materiali consumati nel processo produttivo stesso. Si stima che questo settore produca il 15% dei rifiuti nei Paesi del Nord globale. Poiché ogni produzione presuppone un consumo produttivo, non è possibile opporre una trasformazione ecologica della produzione a un cambiamento dei modelli di consumo. Nelle società in cui la divisione socio-spaziale del lavoro è avanzata come nella nostra, il consumo individuale non completa il ciclo di circolazione delle merci, le quali continuano a muoversi e a essere riciclate come rifiuti su scala globale. L’80% dei nove milioni di tonnellate di rifiuti elettronici prodotti ogni anno in Europa viene inviato illegalmente in discariche a cielo aperto nei Paesi in via di sviluppo. I danni ecologici e sanitari causati da questi rifiuti non sono distribuiti uniformemente sul pianeta, ma aggravano le disuguaglianze razziali e ambientali tra ricchi e poveri, tra Nord globale e Sud globale. Se questi rifiuti costituiscono un “bene comune negativo”[11], va comunque detto che la sua gestione appartiene soprattutto a quella parte della popolazione mondiale che non beneficia del loro utilizzo. La crisi ecologica riproduce quindi le disuguaglianze socio-spaziali generate da secoli di razzismo, colonialismo e imperialismo.

 

Questo è il programma di ricerca di una critica dell’ecologia politica. Essa studia le relazioni di dominio che portano alla distruzione delle condizioni di abitabilità del pianeta e gli effetti della transizione ecologica sulle dinamiche di potere tra gruppi sociali gerarchici. Per chiarezza, propongo una definizione generale di ecologia politica basata sulla distinzione di Marx tra economia volgare ed economia politica. La prima sistematizza “le rappresentazioni degli agenti di produzione”[12], in altre parole, essa rappresenta un universo di pensiero che giustifica il normale funzionamento dell’economia. La seconda, invece, cerca di fornire una base scientifica per comprendere i meccanismi con cui la ricchezza viene prodotta e fatta circolare. Gli economisti politici cercano di identificare le strutture reali dell’economia al di là delle loro manifestazioni fenomeniche e della loro particolare forma storica. Questa esigenza di scientificità spiega la presenza del pensiero critico all’interno dell’economia politica stessa, nonostante la sua tendenza a naturalizzare il capitalismo. Lo stesso vale per l’ecologia politica.

 

L’ecologia volgare comprende discorsi individualisti moraleggianti e grandi narrazioni tecno-soluzioniste. Questa ecologia apologetica del capitale “sistematizza le rappresentazioni degli agenti di produzione”, che vedono nell’eterna riproduzione dei meccanismi di mercato le condizioni per superare la crisi. Nella misura in cui cerca di comprendere le condizioni ambientali in cui si esercita il potere e i suoi effetti sull’ambiente, l’ecologia politica permette invece di descrivere le patologie eco-sociali del mondo contemporaneo. Secondo l’antropologa Anna Tsing e i suoi colleghi, “l’ecologia politica è una miscela interdisciplinare di economia politica e studi ambientali […] che integra una riflessione sulle scale spaziali e sulle differenze sociali”[13]. Gran parte della ricerca contemporanea in ecologia politica contiene un momento critico senza portare fino in fondo la decostruzione delle strutture di dominio. Potremmo, ad esempio, ipotizzare che il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) – i cui rapporti sull’adattamento al cambiamento climatico sviluppano un discorso scientifico sulle interrelazioni tra politica, clima e biosfera – faccia parte della costituzione di un’ecologia politica basata sui risultati delle scienze del sistema Terra. In quanto tali, questi rapporti rappresentano un momento critico, anche se di per sé non mettono in discussione le relazioni di potere (capitalistiche, coloniali, di genere) che hanno presieduto alla traiettoria del disastro. Allo stesso modo, alcune branche dell’ecologia politica provenienti dalle scienze sociali si impegnano a smascherare la struttura cosmologica o le divisioni ontologiche che costituiscono la modernità, senza prendere realmente le misure della storia economica della crisi ambientale. Vorrei sostenere che la storia del disastro ecologico ci impone di trasformare le nostre relazioni con il mondo naturale e le nostre cosmologie, ma che ciò non può essere realizzato senza una trasformazione dell’apparato produttivo, in cui i lavoratori svolgeranno un ruolo essenziale.

 

La critica all’ecologia politica, invece, insiste sulle relazioni di dominio come costitutive della catastrofe attuale. A questo proposito, le varie correnti dell’ecofemminismo cercano di dimostrare come il dominio della natura è stato accompagnato, almeno dall’inizio della modernità, da dominazioni di genere che hanno assegnato alle donne una posizione subordinata, così come la natura è stata ridotta al rango di oggetto appropriabile. La libera disponibilità delle cose della natura è costitutiva di un potere maschile che si esercita sui corpi e sul lavoro delle donne, a loro volta assimilate alla natura “usa e getta”[14]. La critica decoloniale o anticoloniale dell’ecologia politica insiste sul fatto che la crisi ecologica è iniziata nelle colonie con la predazione delle risorse e il lavoro forzato dei popoli colonizzati[15]. La colonizzazione non è stata solo il laboratorio di pratiche distruttive, ma anche la condizione di possibilità per lo sviluppo del capitalismo industriale. Senza “il carbone e le colonie”[16], il capitalismo europeo sarebbe stato incapace di superare i limiti del sistema di produzione feudale. Altri critici dell’ecologia politica sottolineano il ruolo dello Stato, dello sviluppo tecnico e dei rapporti di produzione nella catastrofe ecologica[17]. Potremmo quindi moltiplicare i regimi di critica in base alle forme di dominio che prendono come oggetto (di genere, razziale, capitalista, ecc.), in base agli approcci disciplinari (filosofia, storia, antropologia, economia ambientale, ecc.) o alle correnti di pensiero da cui traggono ispirazione (ecofemminismi, marxismi, teorie decoloniali, ecc.). Le opere più importanti non rientrano mai in una sola di queste categorie, ma combinano metodi, oggetti e correnti di pensiero generalmente disgiunti. La critica a cui questo libro contribuisce, la critica marxista dell’ecologia politica, studia la centralità delle relazioni di classe nella crisi ecologica. In che modo la crisi ecologica è legata alle forme capitalistiche di sfruttamento del lavoro? Questa è la domanda a cui cerca di rispondere.

 

Questo libro non è il culmine di un progetto di ricerca, ma una tappa provvisoria di un programma in corso. Vuole quindi essere un mezzo per diffondere e divulgare un insieme di testi fondamentali sull’ecologia politica marxista in una sintesi originale le cui ipotesi, che spero siano fruttuose, cominciano a emergere. Il suo scopo è quello di creare una base di discussione comune tra ricercatori e attivisti, tra organizzazioni dei lavoratori e movimenti ambientalisti.

 

Note

 

[1]Le informazioni sul Clean Truck Program (tr.it. Programma Camion Pulito) sono tratte principalmente dalle due fonti seguenti: Steve Cummings, Preemptive Strike: Law in the Campaign for Clean Trucks, in «UC Irvine Law Review», vol. 4, no 3, 2014, p. 939-1165 ; Daryn Snell, « Trade Unions and Environmental Justice », in N. Räthzel, D. Stevis et D. Uzzell (dir.), The Palgrave Handbook of Environmental Labour Studies, Cham, Springer International, 2021, p. 149-173.

[2]L’uso del termine «nature», al plurale, laddove nel linguaggio comune si preferirebbe il singolare, serve ad indicare la consapevolezza dei rischi di un concetto di Natura universale ed ipostatizzato.

[3]Lucas Chancel, Global Carbon Inequality over 1990-2019, in «Nature Sustainability», vol. 5, no 22, 2022, p. 931-938.

[4]Carol Farbotko, Domestic Environmental Labour: An Ecofeminist Perspective on Making Homes Greener, London, New York, Routledge, 2017.

[5]Vanessa Organo, Lesley Head et Gordon Waitt, Who Does the Work in Sustainable Households? A Time and Gender Analysis in New South Wales, Australia, «Gender, Place & Culture», vol. 20, no 5, 2013, p. 559-577.

[6]« Chris Mitchell Tells Politicians Workers Are Exhausted and the Cuts Need to Stop », YouTube, 23 gennaio 2022.

[7] Lo slogan “Sustainability Begins at Home” è stato utilizzato dal governo australiano e si ritrova anche nelle comunicazioni di organizzazioni che sostengono la crescita verde come OpenGrowth. Si veda ad esempio Kajal Tharwani, “Sustainability Begins at Home: How to Live a Lower-Carbon Lifestyle”, OpenGrowth.com, 24 marzo 2022.

[8] F. Fischbach et E. Renault (a cura di), Philosophie du travail. Activité, technicité, normativité, Paris, Vrin, 2022.

[9] Andreas Malm, Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming, Londra e New York, Verso, 2016.

[10]Si veda ad esempio l’introduzione del 1857 ai Grundrisse di Karl Marx, (cit dall’edizione francese, Éditions sociales, 2011, p. 46): “l’atto di produzione, in tutti i suoi momenti, è dunque anche, in tutti i suoi momenti, un atto di consumo”.

[11] Alexandre Monnin, « Les “communs négatifs”. Entre déchets et ruines », Études, 2021/9, p. 59-68.

[12] Karl Marx, Le Capital, livre troisième, trad. fr. C. Cohen-Solal et G. Badia, Paris, Éditions sociales, 1976, p. 739

[13] Anna Lowenhaupt Tsing, Andrew S. Mathews et Nils Bubandt, « Patchy Anthropocene: Landscape Structure, Multispecies History, and the Retooling of Anthropology: An Introduction to Supplement 20 », Current Anthropology, vol. 60, no S20, 2019.

[14]Per un’antologia di testi fondamentali sull’ecofemminismo, si veda l’antologia di Émilie Hache, Reclaim, trans. É. Notéris, Parigi, Cambourakis, 2016.

[15]Si veda ad esempio Malcom Ferdinand, Une écologie décoloniale. Penser l’écologie depuis le monde caribéen, Paris, Le Seuil, 2019; oppure Fatima Ouassak, Pour une écologie pirate, Parigi, La Découverte, 2023.

[16] Kenneth Pomeranz, Une grande divergence. La Chine, l’Europe et la construction de l’économie mondiale, trad. fr. N. Wang, Paris, Albin Michel/ MSH, 2010.

[17]Si veda ad esempio Murray Bookchin, Une société à refaire, trans. C. Barret, Montréal, Écosociété, 2010; Aurélien Berlan, Terre et Liberté, Saint-Michel-de-Vax, La Lenteur, 2021; Jean-Baptiste Fressoz, L’Apocalypse joyeuse, Le Seuil, 2012; James O’Connor, “La seconde contradiction du capitalisme causes et conséquences”, Actuel Marx, n. 12, 1992, pp. 30-40.

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