di Franco Buffoni

 

[Esce in questi giorni per i tipi di Vallecchi il saggio Giustizia di Franco Buffoni. Ne presentiamo il capitolo 18, dedicato a Elizabeth Bishop].

 

Due sono i toponimi essenziali che scandiscono la crescita di Elizabeth Bishop (Worcester 1911–Boston 1979) e la sua sete di giustizia: Great Village e Vassar College.

Great Village dove, in un’atmosfera di quieta vita borghese, trascorre l’infanzia nella casa dei nonni nella Nuova Scozia (Canada), alla quale il suo ricordo tornerà sempre in poesia, malgrado l’esistenza fortemente cosmopolita che condurrà, come al luogo più puro, più ‘giusto’.

Vassar College, dove è ammessa a diciotto anni nel 1929 e dove stringe amicizie che dureranno tutta la vita, in particolare con Mary McCarthy. E con le amiche del Vassar nel 1933 Elisabeth fonda la rivista “Con Spirito”. Nel 1934 conosce Marianne Moore, con la quale intrecciò un’amicizia al calor bianco, con reciproche letture di inediti e inevitabili reciproche influenze. Il loro epistolario è uscito col titolo One Art. Sarà proprio Marianne Moore, in seguito, a dare la definizione più azzeccata della poesia di Bishop: “La sua è una poesia arcaicamente nuova”. Una poesia quindi capace di innovare nei contenuti, mantenendosi solidamente nel solco della tradizione sul piano formale.

 

Negli anni successivi Bishop ha modo di conoscere e frequentare anche altri due poeti che hanno segnato la storia della poesia non solo americana: Robert Lowell e Ezra Pound. Inevitabili i soggiorni europei, soprattutto in Francia, come per tutti i poeti modernisti, ma per Bishop anche in Sud America.

Nel 1938 si stabilisce in Florida, a Key West, dove per altro abitò anche Hemingway. In Brasile invece visse per quindici anni, dal 1952 e il 1967. Come nacque e in seguito come si sviluppò questo soggiorno racconta molto del suo carattere e del suo temperamento. Inizialmente la permanenza era prevista per due settimane. Ma a Rio Bishop incontra la scrittrice Lota de Macedo Soares, appartenente a una delle famiglie più ricche e influenti del Paese. Profondo innamoramento reciproco, cui consegue una vivacissima storia d’amore che con alterne vicende si protrarrà per tre lustri, fino al drammatico suicidio di Lota.

Un quindicennio fondamentale sia per la diffusione in Europa e nelle Americhe dell’opera bishopiana, sia per l’acquisizione di quel taglio esotico-narrativo – con frequenti menzioni dei più svariati toponimi – che a tratti la sua opera assume, pur mantenendosi le radici sentimentali nel Great Village canadese dell’infanzia. Anche i titoli risentono di questo cosmopolitismo. Per citarne alcuni: North and South-A Cold SpringInterrogativi di viaggioGeografia III.

 

Nel 1956 con l’assegnazione del premio Pulitzer per la raccolta North & South-A Cold Spring, Bishop entra ufficialmente nel canone della poesia americana del Novecento. La sensazione – in primis della stessa Bishop – è che finalmente le sia stata resa giustizia.

Autrice anche di una poesia lirica estremamente raffinata e colta  (va ricordato che Bishop insegnò letteratura inglese e americana in prestigiosi atenei quali New York University, MIT e University of Washington), ritroviamo però la sua vena più genuina e duratura nel tempo in composizioni di taglio intimistico, dove l’auto-ironia risulta il tratto dominante. Come in Insonnia: “La Luna nello specchio del comò / guarda milioni di miglia lontano /…/ dove il cielo ha tanto poco spessore / quanto è profondo il mare e tu mi ami d’amore”. Una poesia diretta, che rifugge dalle metafore, capace di portarci dai mitici versi di Saffo, attraverso Shelley, alla contemporaneità canzonettistica di icone camp quali Madonna, o se vogliamo, in Italia, di Patty Pravo o Loredana Bertè.

 

A proposito di icone camp: se Brodskij giunse ad affermare che Bishop era “la Callas della poesia del novecento”, Mary McCarthy dovette smentire nella sua autobiografia di avere avuto Bishop come modello per il personaggio di Lakey, una delle ragazze ritratte nello scandaloso (per quei tempi) romanzo Il Gruppo, che McCarthy pubblicò nel 1963 e che in qualche modo inaugura, sul versante femminista, il ricco filone dei cosiddetti campus novel.

Bishop non le credette e se la prese molto, gridando all’in-giustizia e rompendo l’amicizia. Era pur sempre anche una docente universitaria e l’America degli anni sessanta non era tenera con le trasgressioni! Il romanzo racconta gli anni del Vassar College e della fondazione da parte di un gruppo di ragazze della rivista “Con Spirito”. Nel 1966 il romanzo divenne anche un film per la regia di Sidney Lumet, con tanto di profonde amicizie femminili, viaggi in Europa e funerale dell’amica suicida.

 

Sul titolo del romanzo di Mary McCarthy The Group va ricordato il peso semantico posseduto dal termine in inglese. Anche noi usiamo l’espressione “gruppo di studio”, ma nel gergo accademico anglosassone the group indica la classe seminariale. Ricordo a esempio questo scambio di battute: “Don’t speak to me as if I were a group” / “But you are a group: a group of one”. (E smettila di parlarmi come se io fossi una classe! Ma tu sei una classe: una classe composta da una sola persona!). E qui potremmo ricordare la coeva teorizzazione della scuola di Palo Alto in California di Watzlavick e Beavin sulla Pragmatica della Comunicazione Umana, con la capitale differenza tra comunicazioni di contenuto e comunicazioni di relazione, fondamentale per modulare il grido e giungere a un razionale punto di partenza volto a ottenere un barlume di giustizia ‘terrena’.

 

Le parole che Elizabeth Bishop consegnò al poeta Robert Lowell per il suo epitaffio sono chiare: “Dì che sono stata la persona più sola al mondo”. Si è già accennato all’importanza di quel raffinatissimo diario poetico a due voci che è l’epistolario One Art tra Elizabeth Bishop e Marianne Moore. Certamente non a caso Harold Bloom cita insieme le due autrici collocandole insieme sul gradino più alto della poesia Americana del Novecento. Possiamo ricordare una delicata lettera di Elizabeth a Marianne Moore del 5 gennaio 1937 scritta da Naples, Florida, a Marianne che si trova a New York: una lettera in cui Elizabeth racconta del soggiorno in Florida di Louise Crane, un’altra amica del Vassar College, e dei loro pomeriggi insieme a pesca, delle lunghe passeggiate, corredate – da buona collegiale d’antan – da frammenti di conchiglie e noci di cocco. Certo, la distanza tra la Florida e New York è un po’ come quella tra la Tunisia delle spiagge assolate e la Svizzera dell’Oberland bernese. Ma che delicatezza, che tocco di classe da parte di Bishop nel sottolineare le differenze grazie a minimi dettagli, a piccoli scarti di senso, per giungere a comunicare quel senso di giustizia di cui è assetata nei confronti del riconoscimento della dignità delle relazioni sentimentali e affettive tra persone dello stesso sesso.

 

La depressione e l’alcolismo furono il tormento di Bishop negli ultimi anni. La pazzia della madre, che morì in manicomio, e l’affidamento della bambina prima ai nonni materni, poi paterni, quindi a una zia, la segnarono profondamente e forse spiegano quella sua capacità di immersione senza “toccare“, senza “possedere”. Ma formidabili restano le sue descrizioni della Florida: “Dai pochi stati che ho visto, sceglierei subito la Florida come il mio preferito. È così selvaggia, e quello che esiste qui di coltivato sembra piuttosto in rovina e sul punto di ridiventare selvaggio”.

Il Brasile significò per Bishop una vita appartata con Lota a Ouro Preto, e la composizione della raccolta Interrogativi di viaggio uscita nel 1965. Complessivamente pubblicò pochissimo: in totale nell’arco di cinquant’anni completò quattro raccolte, circa ottanta poesie. Interrogativi di viaggio contiene tra le altre Brasile e Arrivo a Santos. In Brasile evoca l’arrivo del Portoghesi: “In gennaio la natura si offre al nostro sguardo/ così come dev’essersi offerta allora al loro: / ogni centimetro quadrato fitto di fogliame…/ foglie grandi, foglie piccole e foglie gigantesche, / azzurro verdazzurro, verde oliva, / con venature o bordi un po’ più chiari, /o il lembo rovesciato di una foglia/ come raso”.

 

Maliziosi, delicatissimi i versi in cui compaiono le lucertole: “Le lucertole respirano appena; tutti gli occhi/ sono puntati sulla più piccina, la femmina, di schiena, / la coda con malizia arricciolata in su/ rossa come un filo rovente/”.

A un amico brasiliano che una volta la vide in lacrime disse che stava soltanto piangendo in inglese. E nel 1933 scrisse a Donald Stanford, studente di Harvard: “Cosa mai intendi quando dici che le mie percezioni sono quasi impossibili per una donna? … C’è qualche ragione ghiandolare che impedisce a una donna di avere delle buone percezioni, o che cosa?”

E nel 1978 Elizabeth, pensando alla sua stessa prossima fine, scrive la poesia North Haven ‘23 in morte dell’amico Robert Lowell: “Non potrai più ricomporre o ridisporre / (…) le tue poesie. / Le parole non cambieranno più.”

E la giustizia ‘dickinsoniana’ di cui si è detto nel cap. 13, è fatta.

 

[Immagine: Elizabeth Bishop].

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