di Filippo La Porta

 

In occasione di un convegno al Centro studi Pasolini di  Casarsa, ideato e organizzato da Paolo Desogus – “Nel segno della contraddizione. Pasolini e Fortini due poeti del novecento” – ho voluto rileggere  Attraverso Pasolini (1993) di Fortini. L’ho riletto con ammirazione, per la qualità dell’intelligenza in esso dispiegata, e insieme con qualche sentimento di delusione. Fortini, la cui ultima opera poetica auspica che al disordine succeda il disordine, ha attraversato il disordine pasoliniano – apparentemente una intrepida catabasi – munito di una   impenetrabile e distanziante  corazza. Quando parla di sé stesso diventa elusivo, allegorico, oscuro. Alla fine accenna pure a una “immagine menzognera del nostro paese, del mondo intero, della poesia” che “con Pasolini abbiamo trascinato insieme alle nostre esistenze”. Questa è la pagina conclusiva del libro e invece doveva essere la prima! In cosa consiste quella “immagine menzognera?

 

Da una parte si  tratta del  libro di critica più bello  mai scritto  sullo scrittore friulano.  Oltre ad essere  il diario in pubblico  di uno dei maggiori intellettuali del dopoguerra  e un  denso capitolo di storia delle idee del nostro paese, contiene una miriade di  penetranti osservazioni sulla produzione di Pasolini, in prosa e in versi (con considerazioni anche tecniche preziose). La mia non è una captatio benevolentiae. Quella di Fortini  è anche una   meditazione alta sul destino, sulla responsabilità, sull’impegno. Però, al tempo stesso, leggendolo ho pensato a una occasione mancata. Perché Fortini, pur in tutta la sua cavillosità argomentativa a tratti talmudica, si sente un po’ troppo al riparo nei suoi  giudizi sull'”amico avverso”, non fa veramente i conti con la propria ossessione bellicistica e la sicurezza granitica, quasi metafisica  su chi siano i “nemici della verità”.  Provo a spiegare perché.

 

Fortini,  si sa, vuole interpretare tutti i ruoli sulla scena, e quasi sempre spiega ai suoi interlocutori e avversari le loro ragioni meglio di quanto loro non  facciano. La sua  opera contiene già tutte le obiezioni alle proprie stesse idee. Pensate che Fortini indulga a un eccesso di pathos messianico  nei confronti del futuro (Del Noce avrebbe detto: sostituisce il paradiso con il futuro)? Eppure in epigrafe ai Dieci inverni (1957) mette la frase di un teologo giansenista seicentesco sul “pensiero dell’avvenire” che è una “pericolosa tentazione dell’Avversario, contraria al Vangelo”, inoltre  nel 1961 stende un elogio sorprendente di Herzen, il quale  rivendicava il valore assoluto del presente. Nella  difesa delle “prediche umanitarie” di Solgenitsin contro  i culto dei  militanti per la durezza sottolinea come nessuno può decidere della correttezza di un “giudizio di classe”, magari invocando la necessità storica.  E non voglio tacere della sua – almeno per me –  fondamentale correzione all’ascesi negativa dell’Adorno dei Minima moralia: “non si dà vita vera se non nella falsa”(cioè nella unica vita di cui disponiamo: impura, contraddittoria, fatalmente dissipativa). Ritenere che anche la società comunista sarà segnata da contraddizioni, come scrisse Fortini,  è la migliore obiezione a qualsiasi assolutismo politico. Potrei fare molti altri esempi. Modulava le proprie posizioni in relazione al suo pubblico. Sul “Corriere”di Piero Ottone  ricordava ai borghesi illuminati e ipocriti  la lotta di classe e la dimensione materiale, sul “Manifesto” ricordava ai “compagni”, chiusi in una militanza troppo angusta, il limite oscuro dell’esistenza, la necessità di dare un luogo e un senso alla morte, quella dimensione spirituale che aveva trovato e commentato splendidamente  in Pasternak. Tutto ciò lo rende a volte inafferrabile. In questo inesauribile gioco di maschere e di parti sulla scena – beninteso tutte recitate in buona fede –  non so mai bene quale Fortini ho davanti. A un certo punto pensando al titolo  del suo libro pasoliniano mi è capitato di vagheggiare un Attraverso Fortini scritto da Fortini medesimo: sarebbe stato un libro magnifico – una miniera  labirintica –  che peraltro solo lui avrebbe potuto scrivere. Noto per inciso  che anche Pasolini, che si presentava come educatore di coscienze,  amava autorecensirsi per  prevenire qualsiasi critica alla sua opera: insomma in entrambi ritroviamo un pedagogismo narcisista.

 

Ora una nota personale, che può essere di qualche utilità. Nel  1983 ci reammo  in pellegrinaggio da lui, tutta la redazione della rivista “Linea d’ombra”, portati per mano dal direttore  Goffredo Fofi, in un ideale Grand Tour presso i maggiori intellettuali  e scrittori italiani, o almeno quelli legati a un pensiero critico sulla realtà (prima di ogni incontro Fofi ci parlava anche un po’ male di quell’intellettuale che andavamo a visitare,  per evitare qualsiasi  dannosa  mitologia da parte nostra!).  Dopo  essere stato citato   positivamente in un  suo articolo sul “Corriere” (quel giorno brindai con gli amici!) ebbi con Fortini nell’estate di quell’anno  un breve carteggio: a una mia prima lettera che lo interrogava sui temi che allora più mi stavano a cuore  –   ne ricordo solo uno: gli obiettai che credere nella possibilità di realizzare un ordine civile perfetto può portare a non fermarsi di fronte a qualsiasi mezzo per realizzarlo –    rispose con una lettera insolitamente lunga e fitta di argomentazioni, poi io controreplicai  con una lettera fluviale tempestandolo ancora di domande, a questa mi rispose, certamente spazientito, con una letterina conclusiva di tre righe. Ero già fuori tempo massimo.  In occasione di un nostro incontro, nella sua casa di via Legnano,  una volta mi azzardai a citargli Simone Weil e Kierkegaard, che peraltro avevo letto nelle sue traduzioni – e specie della prima la critica  radicale  e per me insuperata al marxismo – ma lui volle liquidarli frettolosamente  facendomi capire che erano per me letture pericolose. Voleva mettermi in guardia proprio come, secondo lui,  gli scritti di Togliatti e Alicata dovevano mettere in guardia i lettori comunisti dai “pericoli deviazionistici” del “Politecnico” di Vittorini.

 

Ma, tornando al libro di Fortini,  mi sembra che il suo  discorso su Pasolini sia  più giusto, e anzi puntuale, nei dettagli, ma quanto all’ interpretazione complessiva  tenda a ridurlo a un manierismo floreale e  funerario, lo appiattisce sulla immagine di decadente vitalista e rousseauviano, nichilista e martire per elezione,  lo psicologizza continuamente riportando le sue scelte a un oscuro bisogno di espiazione e a una sindrome sadomaso ( e lasciamo stare qui la questione dell’eros pasoliniano “malato”, perverso e autodistruttivo, avrei voluto chiedere a Fortini qual è per lui un eros “sano”!). Tutta la lettura di  Fortini  a tratti fa pensare a un abuso  interpretativo diciamo sul piano psico-morale: definisce ad esempio la “proposta” di Pasolini a sé e agli altri “erronea e priva di avvenire”….”erronea”? chi sta parlando, il Dio biblico? Un giudice dell’Inquisizione?  Si sofferma sulle “menzogne interiori” di Pasolini, sui suoi troppi “alibi” e   “autoinganni”, sulle “omissioni” e   sui  privilegi di classe goffamente mascherati,  sui suoi “limiti umani” oltre che politico-ideologici,  senza mai neppure sfiorare i propri alibi e autoinganni, le proprie omissioni e le proprie responsabilità  (è stato la figura intellettuale più influente del nostro ’68). A un certo punto  osserva che il mondo del popolo di Pasolini “è ai margini del sogno”. Ma la nostra ideologia di quegli anni non era anch’essa ai margini del sogno?  Poi aggiunge che Pasolini confonde la dialettica con la contraddizione. Ma è la realtà stessa, fatta di contraddizioni senza alcuna dialettica, a confonderle. In Pasolini c’è il senso della “contraddizione irrecuperabile del negativo” (Luperini), che nessun artificio dialettico potrà riassorbire: non è garantito l’happy end hegeliano.

 

Trovo invece – voglio sottolinearlo –  straordinaria, e tutta da sviluppare,  la pagina in cui commenta il disprezzo di Pasolini per la “maledetta cretina” che lo aveva intervistato, disprezzo cioè verso gli intellettuali subalterni, verso la classe media, in nome di una indimostrata, superiore complicità tra Poeti  e Sottoproletari, ma non è questa la sede per discuterla (la “maledetta cretina” è quasi la stessa povera giornalista di una TV privata locale che Nanni Moretti schiaffeggiava, abusivamente e  razzisticamente,  in “Palombella rossa”)

 

Forse il Convitato di Pietra nel dialogo a distanza con Pasolini era proprio il comunismo. Quel comunismo che in Benjamin acquista tinte mistico-religiose, in Bloch è profezia e annuncio, in Sartre è il culmine della filosofia occidentale, in Lukacs erede dell’umanesimo, di Goethe ed Hegel (come peraltro aveva già detto Marx stesso). Il comunismo, una delle idee più alte che ha espresso l’umanità (prima di Marx almeno Spinoza) è stato per la mia generazione – che guardava a Fortini come un maestro – sia uno strumento di emancipazione intellettuale e sia un narcotico collettivo, che ha oscurato, ad esempio, intere tradizioni di pensiero che hanno svolto una critica ancor più radicale dell’esistente e del capitalismo (tradizione libertaria non-violenta, anarco-cristiana, liberalsocialista: da Weil a Capitini, da Orwell e Camus a Calogero). Il comunismo in Fortini somiglia al Dio della teologia negativa: viene definito per ciò che non è oppure attraverso defatiganti tautologie circolari.  Pasolini invece, che pure si dichiarò  fino all’ultimo  –  sentimentalmente –  comunista, denuncia negli Scritti corsari e in Petrolio  il marxismo come  una retorica  che nasconde privilegi di ceto e logiche di potere,  e che implica troppi equivoci.

 

Fortini obietta spesso a Pasolini che tende a semplificare troppo. Ora, Fortini in una poesia aveva scritto  “Questa la mia religione. / Che tutto sia segno / e si converta in altro”. Nicola Chiaromonte potrebbe dire che è, trascritto in versi,  l’alibi e la  formula perfetta  dell’ambiguità. Sappiamo che non è il caso di Fortini, che invece in innumerevoli occasioni ha denunciato  –  come accennavo all’inizio – le prepotenze storicistiche e lo stalinismo più o meno dissimulato.    Però nella sua opera tutto rimanda ad altro, è figura e allegoria di altro. La Rivoluzione Culturale cinese, con le stragi e le purghe che ha prodotto (migliaia di morti), si converte in altro, parla di noi senza neanche saperlo. Sì a volte Pasolini semplifica, ma ogni tanto bisogna pur farlo.  Pasolini oggi  ci appassiona  perché le sue contraddizioni sono anche le nostre, benché il suo modello di vita  diciamo eroico-tragico è distante dalle nostre esistenze. Quando parlava in occasioni pubbliche, e io mi precipitavo a sentirlo nei cinema di periferia  con il mio vespino, sentivo che stava parlando a me, sentivo che aderiva al presente (drammaticamente), che cercava di strappare un senso alla nostra esperienza del presente. Quando mi parlava Fortini certamente  ampliava i miei orizzonti culturali, arricchiva il mio marxismo dottrinario di allora, faceva lampeggiare cortocircuiti intellettuali che mi hanno formato,  però  mi perdevo a volte  in una fittissima nebbia teologico-marxista, piena di allusioni, suggestioni ipnotiche e  allegorie indecifrabili. E infine non si è mai collocato  veramente all’altezza del suo lettore: si mette  sempre o molto più in alto (dialettica storica, tempo messianico) o molto più in basso (già sprofondato sottoterra, in uno spettrale oltretomba).

 

In ultimo vorrei sottolineare un elemento comune. Entrambi danno il meglio di sé nelle recensioni letterarie –   non smetto di leggerle  e rileggerle! – , che sono  un esercizio di umiltà e ospitalità: recensendo un autore ospitano  infatti  una alterità, una voce altra. A contatto con  la concretezza  dei testi, con la singolarità delle esperienze di vita  raccolte nelle opere letterarie, la  intelligenza di Fortini e Pasolini si autocorregge ed evita miracolosamente certi difetti  dell’uno e dell’altro, dalla elusività alla mania persecutoria.  Nella sua casa milanese  a un certo punto Fortini mi indicò con aria gelosamente compiaciuta un mobile in un angolo, l’unica libreria chiusa, con due ante e vetri finemente  lavorati, dicendo che lì dentro si custodiva il sancta sanctorum: e si trattava dei classici della letteratura! Leggetevi i suoi scritti di critica letteraria, così aperti sul mondo e sulla verità multiforme dell’esperienza del presente. Questi scritti ci mostrano un teatro dialettico  dove  l’incontenibile capocomico  Fortini non è rimasto da solo a recitare tutte le parti; e anzi sembra che abbia bisogno degli altri per poter esprimere qualcosa di sé. Così Pasolini: a  contatto con le opere letterarie smette di autogiustificarsi ed esce finalmente, almeno per un po’,  dal centro dolorante  della scena.

7 thoughts on “Nel segno della contraddizione. Pasolini e Fortini

  1. «Quel comunismo che in Benjamin acquista tinte mistico-religiose, in Bloch è profezia e annuncio, in Sartre è il culmine della filosofia occidentale, in Lukacs erede dell’umanesimo, di Goethe ed Hegel (come peraltro aveva già detto Marx stesso). Il comunismo, una delle idee più alte che ha espresso l’umanità (prima di Marx almeno Spinoza) è stato per la mia generazione – che guardava a Fortini come un maestro – sia uno strumento di emancipazione intellettuale e sia un narcotico collettivo, che ha oscurato, ad esempio, intere tradizioni di pensiero che hanno svolto una critica ancor più radicale dell’esistente e del capitalismo (tradizione libertaria non-violenta, anarco-cristiana, liberalsocialista: da Weil a Capitini, da Orwell e Camus a Calogero). Il comunismo in Fortini somiglia al Dio della teologia negativa: viene definito per ciò che non è oppure attraverso defatiganti tautologie circolari. Pasolini invece, che pure si dichiarò fino all’ultimo – sentimentalmente – comunista, denuncia negli Scritti corsari e in Petrolio il marxismo come una retorica che nasconde privilegi di ceto e logiche di potere, e che implica troppi equivoci.» (La Porta)
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    Il comunismo di Fortini «un narcotico collettivo»? Ma scherziamo! Questa se la bevono i lettori d’oggi (e non tutti, manco quelli che stanno soltanto sui social). Noi vecchi dovremmo trattare queste cose con più serietà.
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    P.s.
    Cfr. Appunti politici (3): “Comunismo” di F. Fortini: http://www.poliscritture.it/2017/02/09/appunti-politici-3-comunismo-di-f-fortini/
    (e appunti successivi: 4, 4bis)

  2. Complimenti per il testo. Sono semplicemente ammirato per la contenuta affettuosa vicinanza critica a questi due giganti. Mi viene voglia di prendere un vespino e inseguire La Porta per sentirlo ancora, lo farò

  3. Ho proposto due commenti sullo scritto di La Porta. Potete spiegare perché questo (sotto) non compare? Grazie.
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    «Quando parla di sé stesso diventa elusivo, allegorico, oscuro». (La Porta)

    Ma basta! Cosa si voleva (o si vuole ancora) che dicesse “di se stesso”? E non l’ha detto? Chi non si è fermato a questo tipo di rimprovero (o ad altri simili e stereotipati) l’ha saputo e l’ha pure scritto:
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    Sul riserbo di Fortini
    di Michele Ranchetti
    https://www.ospiteingrato.unisi.it/sul-riserbo-di-fortini/?fbclid=IwAR2Q00qIC0P2dJW9xZBwAMcBmZIyPpNy4-FjbGIQwbkWbaLMHpLMJpZfa9M

  4. La Porta afferma, ancora una volta, la “personalità” delle teorie: ciò che è stato negato in vista di un’ottica metastorica, sovraumana, pericolosamente contigua con la perfezione. “Personalmente” trovo particolarmente indisponente la pasoliniana, viscosa rivendicazione di imperfezione. Ma in ogni caso, la cosa più difficile è fare i conti con sé stesso, con la propria provenienza, relatività, intenzione. In questo, La Porta ci avvicina sempre più ai “maestri irregolari” che insegue da decenni. Irregolare, in questo senso è chi compie il miracolo: non sottoporsi ad alcuna regolarità ma non rivendicare per questo la santità dell’eccezione.
    Ottimo, ottimo saggio. Mi chiedo chi siano oggi le intellettuali e gli intellettuali che sanno interpretare, anzi impersonare, magari senza volerlo, questa dialettica.

  5. Sono d’accordo con La Porta (tra l’altro negli anni cinquanta Fortini era socialista più che comunista), che mostra un grande equilibrio critico, muovendosi con affetto tra due star in (apparente) conflitto senza radicalizzarne le posizioni. Mi è tornato alla mente un capitolo della Speculazione edilizia di Italo Calvino, scritto tra ’56 e ‘inizio ’57, con i profili dei due intellettuali Renato Solmi e Franco Fortini in trattoria, intenti a ipotizzare una rivista dal titolo “Il nuovo Hegel”, ancora prigionieri della ‘dialettica’!

  6. Visto che gli scritti migliori di Fortini e Pasolini, per La Porta, sono quelli di critica letteraria, potrei chiedere a quali saggi di Fortini si riferisce (di Pasolini dovrei saperlo).

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