di Dylan Thomas (trad. di Tommaso Di Dio)
[È uscito in questi giorni un volume di poesie scelte di Dylan Thomas (1914-1953), Visione e preghiera (Giometti&Antonello), nell’interpretazione e cura di Tommaso Di Dio. Se ne presentano in anteprima alcuni testi, tratti sia dai quaderni giovanili che dai libri della maturità, e un breve estratto dall’introduzione che apre il volume.]
Sono venuto a prendere la vostra voce
Sono venuto a prendere la vostra voce, le vostre
costruite note che fuoriescono dalla gola
con gesticolazioni secche, meccaniche,
sono venuto a prendere il palo assiale
sebbene sia inflessibilmente eretto;
quando apro la mia bocca, la luce
verrà vi entrerà come una linea incrollabile.
Sono venuto a catturare la notte
guadando su ali feroci attraverso la sua caverna oscura.
Oh, a bocca aperta d’aquila,
sono venuto a strapparvi a portare via
il vostro esotico piumaggio,
sebbene non sia esile la vostra rabbia,
sono venuto a trasportarvi nel mio luogo più proprio
dove nulla potrà ricoprirsi di brina
né il petalo del fiore
cadere mai.
Mano nella mano Orfeo
E Artemide camminavano
Dentro il vuoto del senso
Tu hai bloccato il volo dell’aquila
Tu hai trasportato Endimione nella tua casa
Adesso voi camminate dentro il senso
Adesso voi camminate dentro il senso
E mi avete abbandonato all’amore delle vostre menzogne
E a affogare i miei pensieri prima che
Io muoia affogato.
Così metto la mano sul cuore
La risata da clown la risata è tutto ciò che ho
Rose e vino prima che muoia
E prima che vomiti fuori il mio stomaco
La dolce dolcissima menzogna va e cammina dentro il senso
Tu dolce dolcissima puttana
Con i capelli alla deriva e il fiato putrefatto andato
Giù nello scarico del senso, dentro il
mare algebrico.
Prima che il gas svanisca nel suo ultimo stridulo gorgoglìo,
e la caccia nell’attaccapanni scopra zero monetine di rame,
prima che l’ultima sigaretta e le maniche della camicia e le pantofole
e la trappola del secolo ti abbiano morso fra le cosce,
prima che il pezzo di terra sia diserbato e seminato,
che si raccolga dalla quercia e che crescano verdi gli alberi a primavera,
e che lo Stato cada a pezzi,
e diventi cibo per gatti,
prima che la civiltà risorga o diventi putredine,
(è una questione di viscere,
corruzione, veleno e beffa,
roba sentimentale, raggiri della ragione,
travestimenti camaleontici di pezzi grossi come vermi,)
che le mascelle si chiudano e la vita sia spenta con un click.
Prima dell’arrivo dell’angelo o del diavolo,
prima del bene o del male, della luce e del buio,
prima del nero del bianco e del calzino destro o sinistro
prima della buona o cattiva sorte.
Il tempo libero dell’uomo, prodotto dall’uomo, dura quattro stagioni,
è vuoto in primavera, e nessun altro tempo riduce di più
l’amaro, il malefico, il senz’impegni allungato e disteso
sonno traforato da risvegli, sogni
fratturati da soffocamenti,
la fame dei vivi, il forno e la pistola
che si svegliarono e furono sollevati nella furia
producono la fame di chi vive
quando le tasche sono vuote
e la pancia è vuota,
più dura da sopportare e la più forte.
La trappola del secolo si richiuderà una volta per tutte
tutt’intorno a te, la carne si spappolerà, e il sangue
scorrerà per le viscere del mondo
prima che il mondo si fermi, smetta di oscillare, si sia fermato
o oscilli, si muova di lato e oscilli, prima che il mondo vacilli.
Catturato nella trappola del macchinario, a luci spente,
con gli occhi che non vedono e con i cuori che non battono,
non vedrai il mondo diventare fermo né cadere
sotto i pesanti strati della notte che è
non bianca, non nera, non destra, non sinistra.
Quasi addosso alla vigilia incendiaria
di molte morti a venire,
quando l’ultimo fra i tuoi più amati l’unico
e da sempre conosciuto dovrà scacciare via
i leoni e le fiamme del suo ondeggiante respiro,
quello fra i tuoi amici immortali
che solleverebbe gli organi della polvere numerata
per scoccare e cantare la tua lode,
quell’unico che, chiamato giù dal fondo, sarà sempre in pace
quello che non può far cessare né far affondare
infinitamente la sua ferita
nella straniata afflizione dei molti maritati di Londra.
Quasi addosso alla vigilia incendiaria
quando alle tue labbra e alle tue chiavi,
serrando e disserrando, saranno tessuti stranieri ammazzati,
l’unico che è il più sconosciuto,
stella polare e prossimo tuo, sole di un’altra strada,
si tufferà all’altezza delle lacrime.
La sua pioggia di sangue sommergerà nel mare maschio
chi avanzò superbo per la tua morte
e dal filo d’acqua tuo srotolerà il suo globo
e caricherà le gole delle conchiglie
con ogni pianto da quando luce
abbagliò per prima attraverso i suoi occhi a tuono battenti.
Quasi addosso alla vigilia incendiaria
di morti e ingressi,
quando il vicino e l’estraneo feriti sulle onde di Londra
avranno cercato la tua singola tomba,
il nemico, l’unico di molti, che bene conosce
il tuo cuore luminoso
nella sorvegliata oscurità, tremando fra cantine e serrature,
estrarrà i bulloni di luce del tuono
perché il sole diventi chiuso, affonderà, monterà le tue oscurate chiavi
e ustionerà le schiene dei cavalieri,
finché quell’unico il meno amato si stagli
ultimo Sansone del tuo zodiaco.
per Llewelyn
Questo lato della verità
che tu, figlio mio, potresti non vedere,
Re dei tuoi occhi azzurri
nell’accecante landa della giovinezza,
che tutto è annullamento
sotto i cieli senza mente,
d’innocenza o di colpa
prima che tu ti muova a compiere
gesti del cuore o della testa, tutto
è riunito e rovesciato in una
vorticante oscurità
come la polvere di un morto.
Il bene e il male, due modi
di girovagare intorno alla tua morte
sul mare macinante,
Re del tuo cuore nei ciechi giorni,
scompaiono come un fiato vanno
a piangere attraverso di me e di te
e attraverso le anime di tutti gli uomini
nella innocente
oscurità e nella colpevole oscurità, nella buona
morte e nella cattiva morte e infine nell’ultimo
elemento volano
come il sangue delle stelle
come le lacrime del sole,
come il seme della luna, spazzatura
e fiamme, come sproloquio volante
del cielo, re dei tuoi sei anni.
E il malefico desiderio
giù fin dall’origine delle piante
degli animali e degli uccelli
giù fino alle acque e alla luce, alla terra e al cielo,
prima che tu agisca è già deciso,
e tutte le tue azioni e tutte le tue parole,
ogni verità, ogni menzogna,
Muore in un amore che non giudica.
*
I have come to catch your voice
I have come to catch your voice,
Your constructed notes going out of the throat
With dry, mechanical gestures,
To catch the shaft
Although it is so straight and unbending;
Then, when I open my mouth,
The light will come in an unwavering line.
Then to catch night
Wading through her dark cave on ferocious wings.
Oh, eagle-mouthed,
I have come to pluck you,
And take away your exotic plumage,
Although your anger is not a slight thing,
Take you into my own place
Where the frost can never fall,
Nor the petals of any flower drop.
(1930)
Hand in hand Orpheus
and Artemis go walking
into the void of sense
you stopped the eagle in its flight
you took Endymion to your place
now you go walking into sense
now you go walking into sense
and I am left to love your lies
and drown my thoughts
before I die of drowning.
So I place my hand upon my heart
the laugh clown laugh is all I have
roses and wine before I die
or cough my stomach up
the sweet sweet lie goes walking into sense
you sweet sweet trull
with drifting hair and rotten breath gone
down the drain of sense
into the calculated sea.
(1930)
Before the gas fades a harsh last bubble,
And the hunt in the hatstand discovers no coppers,
Before the last fag and the shirt sleeves and slippers,
The century’s trap will have snapped round your middle,
Before the allotment is weeded and sown,
And the oakum is picked, and the spring trees have grown green,
And the state falls to bits,
And is fed to the cats,
Before civilization rises or rots,
(It’s a matter of guts,
Graft, poison, and bluff,
Sobstuff, mock reason,
The chameleon coats of the big bugs and shots,)
The jaws will have shut, and life be switched out.
Before the arrival of angel or devil,
Before evil or god, light or dark,
Before white or black, the right or left sock,
Before good or bad luck.
Man’s manmade sparetime lasts the four seasons,
Is empty in springtime, and no other time lessens
The bitter, the wicked, the longlying leisure,
Sleep punctured by waking, dreams
Broken by choking,
The hunger of living, the oven and gun
That turned on and lifted in anger
Make the hunger for living
When the purse is empty
And the belly is empty,
The harder to bear and the stronger.
The century’s trap will have closed for good
About you, flesh will perish, and blood
Run down the world’s gutters,
Before the world steadies, stops rocking, is steady,
Or rocks, swings and rocks, before the world totters.
Caught in the trap’s machinery, lights out,
With sightless eyes and hearts that do not beat,
You will not see the steadying or falling,
Under the heavy layers of the night
not black or white or left or right.
(1933)
On almost the incendiary eve
Of several near deaths,
When one at the great least of your best loved
And always known must leave
Lions and fires of his flying breath,
Of your immortal friends
Who’d raise the organs of the counted dust
To shoot and sing your praise,
One who called deepest down shall hold his peace
That cannot sink or cease
Endlessly to his wound
In many married London’s estranging grief.
On almost the incendiary eve
When at your lips and keys,
Locking, unlocking, the murdered strangers weave,
One who is most unknown,
Your polestar neighbour, sun of another street,
Will dive up to his tears.
He’ll bathe his raining blood in the male sea
Who strode for your own dead
And wind his globe out of your water thread
And load the throats of shells
With every cry since light
Flashed first across his thunderclapping eyes.
On almost the incendiary eve
Of deaths and entrances,
When near and strange wounded on London’s waves
Have sought your single grave,
One enemy, of many, who knows well
Your heart is luminous
In the watched dark, quivering through locks and caves,
Will pull the thunderbolts
To shut the sun, plunge, mount your darkened keys
And sear just riders back,
Until that one loved least
Looms the last Samson of your zodiac.
(1940)
for Llewelyn
This side of the truth,
You may not see, my son,
King of your blue eyes
In the blinding country of youth,
That all is undone,
Under the unminding skies,
Of innocence and guilt
Before you move to make
One gesture of the heart or head,
Is gathered and spilt
Into the winding dark
Like the dust of the dead.
Good and bad, two ways
Of moving about your death
By the grinding sea,
King of your heart in the blind days,
Blow away like breath,
Go crying through you and me
And the souls of all men
Into the innocent
Dark, and the guilty dark, and good
Death, and bad death, and then
In the last element
Fly like the stars’ blood
Like the sun’s tears,
Like the moon’s seed, rubbish
And fire, the flying rant
Of the sky, king of your six years.
And the wicked wish,
Down the beginning of plants
And animals and birds,
Water and light, the earth and sky,
Is cast before you move,
And all your deeds and words,
Each truth, each lie,
Die in unjudging love.
(1945)
*
Introduzione
di Tommaso Di Dio
[…] È un aspetto importante da sottolineare: soltanto mediante questo lungo soggiorno nel lavoro linguistico si attua ciò che Thomas indica come «la registrazione della mia lotta individuale dall’oscurità verso una certa misura di luce».[1] Questo passaggio dal buio a «una certa misura di luce» non dipende da un’epifania improvvisa, da un mistico momento insondabile e irrazionale, ma interamente dall’intensità del lavoro e del lavorìo intorno e dentro la materia concreta della lingua. Quando gli fu chiesta una definizione della poesia, Thomas si espresse in questi termini:
la poesia è il movimento ritmico, inevitabilmente narrativo, da una cecità sopravvestita [overclothed] a una visione nuda, che dipende, nella sua intensità, dalla forza del lavoro [the strength of the labour] impiegato nella creazione della poesia.[2]
È il continuo lavoro dentro il linguaggio che è capace di spogliare la visione, di chiarirla e di farla più intensa, più perspicua. Un ordine è conquistato, ma senza eroismo di alcuna natura, perché tutto dipende da questa dimensione operativa, che ha di mira solamente un obiettivo:
Scrivere una poesia è, per me, il compito fisico e mentale di costruire un compartimento di parole a tenuta formalmente stagna [formally watertight compartment of words], preferibilmente con una colonna mobile principale (cioè la narrazione) perché contenga un poco delle cause e delle forze reali del corpo creatore e del cervello.[3]
L’obiettivo della scrittura è la scrittura, ma è una pratica che coinvolge la totalità della persona, del corpo e della mente. C’è al fondo dell’arte di Thomas il ripiegarsi infinito di una tautologia che non ha niente a che fare con l’arte per l’arte, ma è capace di irradiare un’esperienza di chiarore che è pienamente «utile», al poeta così come ai suoi lettori, almeno fintanto che possano trarre «beneficio dalla vista e dalla conoscenza dei difetti e dei minori meriti in quella documentazione concreta»[4] che è in ultimo la poesia. La poesia è l’atto stesso di scrivere una poesia: significa solo ciò che la scrittura significa e esiste solo fintanto che ci si situa in questo tempo operativo di prossimità con il movimento reale e trasformativo delle parole, mentre vanno alla ricerca della loro forma più propria, mentre esistono come forma in azione.
In una lettera di non molti anni dopo, inviata al giovane critico e poeta Henry Treece, scriverà di questo aspetto con estrema chiarezza:
La poesia è, tutte le poesie lo sono, la domanda e la risposta di sé stessa, la sua stessa contraddizione, la sua stessa concordanza. Chiedo soltanto che la mia poesia venga presa alla lettera. Lo scopo di una poesia è il segno che essa stessa produce: è la pallottola e il centro del bersaglio; il bisturi, il tumore e il paziente. Una poesia si muove soltanto verso la propria fine, che è l’ultimo verso. Ogni altra cosa più in là di questa è la sostanza problematica della poetica, non della poesia. Questo è il mio solo argomento critico, se tale può essere chiamato; il resto è un argomento poetico, e può soltanto essere trovato nelle poesie.[5]
La poesia è un fatto letterale, non letterario, sembra intendere Thomas; ha a che fare con la consistenza materiale del linguaggio che va plasmato iuxta propria principia e niente più. «Una poesia si muove soltanto verso la propria fine»: è un’azione che, una volta innescata, va compiuta fino all’esaurimento, fino all’esaustione meccanica che essa sola può indicare.
Thomas non cambierà idea nemmeno molti anni dopo, quando gli eventi della vita – tre figli, un matrimonio devastato da continui tradimenti e la gravità crescente del suo alcolismo – lo avranno in qualche modo mutato, ma non avranno scalfito questa radice. Si trovava nel 1950, all’University of Indiana, a Bloomington, per presentare il suo lavoro come sceneggiatore cinematografico; Thomas era nel pieno della sua fama, viveva all’estero da diverse settimane, fra feste in suo onore, amanti, sbornie continue e viaggi estenuanti da un reading all’altro, da un successo all’altro; chi era lì ricorda la sigaretta perennemente attaccata alle sue labbra e la cenere che cadeva fra le pieghe della sua camicia stropicciata e sul vestito di cotone che gli amici gli avevano comprato per l’occasione, data l’impresentabilità di quello con cui era arrivato, il solo che si era portato, il solo che poteva permettersi. Alcuni studenti gli chiesero cosa percepisse della realtà “in quanto poeta”. Thomas rispose laconico, pronto, senza pensarci un attimo: «Sono un poeta solo quando scrivo poesie. Il resto del tempo, io… beh, Cristo, guardami».
Note
[1] Dylan Thomas, Answers to an Enquiry, in «New Verse», 11 ottobre 1934.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem
[4] Ibidem.
[5] Lettera del 16 Maggio 1938.