di Aleksandar Hemon e Vanni Santoni

 

Aleksandar Hemon, bosniaco di nascita ma ritrovatosi bloccato negli Stati Uniti, dove si trovava in viaggio, all’avvio guerra nell’ex Jugoslavia, è considerato oggi uno dei più influenti autori americani, ammirato in particolare per la qualità della sua prosa nella lingua “adottiva”. Il suo ultimo romanzo,Il mondo e tutto ciò che contiene, che racconta una grande fuga in lungo e in largo per l’Asia e l’Europa degli anni della Prima Guerra Mondiale, è uscito il 14 novembre per Crocetti.

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V.S. Hemon, il suo ultimo romanzo ha avuto una gestazione di dodici anni: com’è nato e come si è sviluppato?

 

A.H. Forse anche più di dodici, dato che il contratto l’ho firmato nel 2011 ma l’idea aveva cominciato a girarmi in testa già da qualche anno. Sono un appassionato lettore di libri di storia, li scelgo volentieri anche a caso, e una volta mi sono imbattuto nella storia della spia inglese Frederick Bailey che attraversò le montagne dell’Asia centrale a inizio Novecento, zone che a quei tempi erano contese tra Russia e Impero Britannico in quello che era chiamato “The Great Game”; i russi gli diedero la caccia in ogni dove, al punto che dovette cambiare diversi nomi e ricorrere anche a dei travestimenti, finché incontrò un tale Mandić, un bosniaco che lavorava per i servizi segreti russi, ma che invece di arrestarlo gli propose di allearsi per scappare da lì assieme. Mi piacque la figura di questo Mandić, uno che voleva soltanto tornare a casa. Un uomo la cui sola ideologia era – potremmo dire – la nostalgia. Da lì ho cominciato a immaginare il mio romanzo. Negli anni ovviamente molte cose sono cambiate, ad esempio nell’idea originale i protagonisti erano amici, ma siccome avevo già raccontato la storia di due amici in viaggio nel Progetto Lazarus, ho pensato che avrebbero potuto essere, invece, amanti.

 

Anche il tema del viaggio senza meta, o comunque pieno di deviazioni impreviste, è ricorrente nella sua opera.

 

Sì, e stavolta ho voluto forzarlo ancora più che nel Progetto Lazarus o in altri lavori. Il mio punto di riferimento per Il mondo e tutto ciò che contiene sono stati quelli che potremmo chiamare i “libri fondativi” delle civiltà umane, penso al Gilgamesh, all’Odissea… In questi libri il viaggio è sempre centrale, anzi è di fatto la trama, visto che solo spostandosi da un luogo all’altro i personaggi incontrano situazioni più o meno tese, da cui poi nascono una serie di vicende distinte. Nell’antichità non esisteva ancora l’idea di un “plot”, di una vicenda che si deve poi per forza risolvere a fine libro: in genere c’erano tante vicende più piccole, tenute assieme da una linea generale, che molto spesso era un viaggio, o una guerra.

 

Questo ci porta a un altro dei suoi temi ricorrenti. Il mondo e tutto ciò che contiene è ambientato durante la Prima guerra mondiale, ma nei suoi libri, in un modo o nell’altro, la guerra c’è sempre.

 

Mio nonno usava dire che nessuno vive una vita intera senza almeno una guerra. Ovviamente lui parlava di viversela in prima persona, ma anche se a me nessuno ha mai sparato addosso e nessuno della mia famiglia è stato ucciso, se vivo negli Stati Uniti e non in Bosnia è a causa della guerra; se scrivo in inglese è quindi a causa della guerra, e direi che in fondo non potrei costruire una narrazione senza metterci la guerra. Un privilegio che non consiglio a nessuno, visto che le guerre fanno collassare le società e ti ritrovi esule, senza niente più con te se non usanze e storie. Anche nel Mondo e tutto ciò che contiene, il protagonista Pinto non ha nulla, solo le lingue che conosce, il suo amore per Osman e le storie che gli hanno raccontato da piccolo. 

La questione della narrazione orale è molto rilevante nel suo romanzo. 

Raccontare storie è una necessità biologica degli umani, non ci sono culture senza storie, così come non ci sono culture umane senza musica, al di là della forma che poi prendono nei vari luoghi o nelle varie epoche. E quando qualcuno si trova scagliato fuori dalla sua casa e dalla sua terra contro la propria volontà, come è accaduto a me ma come era accaduto anche ai miei nonni ai tempi dell’Impero Austro-Ungarico, molto spesso non può fare altro che aggrapparsi a quelle storie.

 

Parlando del suo protagonista Pinto, ha citato anche le lingue che conosce. Il suo è un romanzo babelico, pieno di lingue diverse.

 

Avevo sempre desiderato dar vita a un personaggio poliglotta. A Sarajevo capitava spesso di incontrare gente che parlava molte lingue, o anche delle curiose lingue ibride. Gli imperi di un tempo erano multietnici e multiculturali, e lo spostamento di masse di persone, vuoi per emigrazione, vuoi come profughi a causa di qualche guerra, vuoi come occupanti, portava queste lingue a mischiarsi tra loro. Mi interessano molto i linguaggi che nascono nelle famiglie di emigrati, in cui spesso i bambini non conoscono molte parole della lingua d’origine e i vecchi non sanno molte di quelle della lingua adottiva, e così nascono gerghi familiari, lingue dell’intimità. Volevo che il mio protagonista avesse una mente costruita a partire da questa molteplicità: credo fosse indispensabile per costruire, come era mia intenzione, un’epica dei rifugiati.

 

[Questo articolo è uscito originariamente sul “Corriere Fiorentino”, che ringraziamo.

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