di Daniele Lo Vetere

 

Consigli di classe. Scuola, democrazia e società, 
rubrica a cura di Mimmo Cangiano

 

[Inauguriamo oggi, con questo articolo di Daniele Lo Vetere sulla recente riforma dei tecnici e dei professionali, una nuova rubrica sulla scuola animata, fra gli altri, da Emanuela Bandini, Roberto Contu, Rossella Latempa, Daniele Lo Vetere, Marco Maurizi, Marina Polacco].

 

Il recente disegno di legge del Governo Meloni (D. Lgs. 924/2023), che interviene sugli istituti tecnici e professionali e sull’istruzione e formazione professionale (IeFP), nonostante la sua scarsissima eco mediatica, è un provvedimento la cui portata politico-ideologica non può essere sottovalutata.[1]

A partire da esso è possibile fare una riflessione più ampia, che svilupperò in tre passaggi: 1) illustrazione dei risvolti pedagogicamente e politicamente regressivi di questa norma; 2) suo inquadramento nel rapporto tra scuola e lavoro, in generale ed entro la specifica «razionalità» dell’epoca attuale, che chiamerò «neoliberale» sulla scorta di Pierre Dardot e Christian Laval;[2] 3) le questioni politiche che provvedimenti come questo pongono, in particolare alla sinistra.

 

Il ritorno dell’avviamento professionale

 

Gli interventi legislativi che riguardano il segmento tecnico e professionale della scuola secondaria superiore non risalgono certo a oggi: basti qui richiamare il precedente più significativo, la riforma degli istituti professionali del 2017. Il disegno di legge 924/2023 si inserisce però anche nel più ampio contesto di quadriennalizzazione della scuola secondaria in tutti e tre i suoi indirizzi (licei, tecnici, professionali), che è stata oggetto di una serie di decreti, a partire dal DM 567/2017,[3] e che, nonostante l’eloquente parere negativo del Consiglio superiore della Pubblica istruzione[4] non ha arrestato il proprio corso. Maiora premunt: nel frattempo sono arrivati i fondi del PNRR, i quali, secondo una logica politica (più precisamente tecnocratica) ormai nota, vengono erogati solo in cambio di riforme.[5]

 

Il D.Lgs. 924/2023 immette istituti professionali, istituti tecnici e l’IeFP in un unico percorso quadriennale chiamato, con termine preso di peso dal lessico del lavoro industriale, «filiera formativa», che comprende quattro anni di scuola superiore più un biennio di frequenza degli ITS Academy (Istituti tecnici superiori). Come per la già avviata sperimentazione quadriennale generale, a dispetto del taglio di un anno scolastico, si stabilisce che debba comunque essere garantito «il conseguimento delle competenze di cui al Profilo educativo, culturale e professionale dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado, nonché delle conoscenze e delle abilità previste dall’indirizzo di studi di riferimento», anche grazie al «ricorso alla flessibilità didattica e organizzativa, alla didattica laboratoriale, all’adozione di metodologie innovative» (non altrimenti specificate).[6] La spesso invocata “apertura al territorio” si concretizza in forme non nuove di ampliamento dell’“offerta formativa” «funzionali alle esigenze specifiche dei territori», per mezzo di accordi con università, istituzioni formative e «altri soggetti pubblici e privati» (anch’essi non specificati). Entro tali accordi sarà possibile per «soggetti del mondo del lavoro e delle professioni» stipulare «contratti di prestazione d’opera per attività di insegnamento» con gli istituti che partecipano alla filiera.[7]

 

Un ultimo dettaglio merita una speciale menzione. Se tale riforma scolastica dovrà avvenire, come è abituale prassi in Italia, «nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», non mancano però i fondi (815.228 euro) per la creazione di una «Struttura tecnica per la promozione della filiera formativa tecnologico-professionale» composta da un coordinatore di livello dirigenziale generale, un dirigente di livello non generale e otto esperti.[8]

Nonostante la contrazione temporale, nonostante gli istituti vengano vincolati alle esigenze produttive locali, nonostante l’immutata condizione di sottofinanziamento, l’ambizione dichiarata è comunque quella di un’alta qualificazione del percorso scolastico: «rispondere alle esigenze educative, culturali e professionali delle giovani generazioni, e alle esigenze del settore produttivo nazionale secondo gli obiettivi del Piano nazionale “Industria 4.0”».[9]

 

Benché l’approccio sia quello “morbido” di una sperimentazione che riguarderà, per il momento, solo una parte degli istituti, salta all’occhio la profonda trasformazione impressa a scuole che oggi sono scelte da quasi la metà degli studenti tra i 14 e i 19 anni.[10] Se infatti la convergenza tra gli istituti tecnici, da un lato, e gli istituti professionali e l’IeFP, dall’altro, potrebbe – almeno sulla carta – rappresentare una valorizzazione in particolare per quest’ultima, già da oggi percorso non quinquennale chiuso a ulteriori sbocchi, non si può non notare l’assoluto schiacciamento del segmento tecnico (che comprende i 3/5 di quella metà di studenti che non sceglie i licei) su quello tout court professionale.

Detto in altre parole, una riforma come questa rischia di affossare gli istituti tecnici e di trasformare il nostro sistema tripartito della secondaria superiore in un sistema, nei fatti, bipartito: da un lato studenti che a 14 anni scelgono un percorso professionalizzante, che idealmente li porterà, dopo 4+2 anni, a lavorare, dall’altro studenti che scelgono i licei, per poi idealmente laurearsi e ulteriormente specializzarsi. Ma chi conosce gli istituti tecnici sa che l’escursione tra gli indirizzi è alta: per percorsi che in effetti sono orientati al lavoro, ce ne sono altri che preludono all’università, ad esempio in facoltà come informatica o chimica. Gli studenti che attualmente frequentano questi percorsi sarebbero costretti a decidere, dopo la secondaria inferiore, se “licealizzarsi” o “professionalizzarsi”. È un mutamento radicale, che non può essere promosso attraverso una “sperimentazione” e che pone interrogativi decisivi sul destino di quelle scuole che, proprio in funzione di uno sviluppo produttivo, hanno sempre avuto il compito di formare quadri e dirigenti: in che direzione va il nostro capitalismo?

 

Ma gli aspetti preoccupanti sono molti altri. Pur non essendo a priori impedito l’accesso all’università, l’impianto complessivo della riforma porta a un netto sganciamento dei tecnici e professionali da un esito simile; la presenza di esperti esterni in veste di docenti – evidentemente prelevati dal mondo imprenditoriale –, marginalizza e svilisce il ruolo dei docenti e del loro compito formativo, oltre ad affiancare nello stesso istituto lavoratori che dipendono dallo Stato e lavoratori del settore privato, con clamorose discrepanze contrattuali e di percorsi di accesso alla professione (affiancamento che diventerebbe strutturale e non occasionale, come può capitare già oggi); è esplicita la possibilità di curvare (o sottomettere?) l’offerta formativa alle necessità produttive locali, cosa che, se può essere in parte comprensibile per evitare le forme più clamorose di indisponibilità di quelle figure professionali legate all’artigianato e alla piccola impresa che ancora oggi sono formate con la modalità dell’apprendistato, asservirebbe una quantità enorme di studenti e studentesse all’instabile legge della domanda e dell’offerta del loro territorio.

Nessun generico lamento idealistico di chi si rifiuta di prendere in considerazione il nesso tra scuola e lavoro, che è tema che ha ascendenze nella storia della sinistra; ma la convinzione che siamo di fronte a una riforma ampiamente regressiva, oltre a quanto ne ho già detto, è sostanziata da altri due ordini di considerazioni.

 

Il primo. In questa proposta la logica professionalizzante non è affatto in equilibrio con le necessità formative generali della persona e del cittadino. La costituzionalista Roberta Calvano ha osservato come la ormai conclamata tendenza a dedurre i compiti dell’istruzione dalle esigenze del mercato disattenda la volontà dei costituenti, che non casualmente inserirono la formazione generale e quella professionale in articoli distinti della nostra Costituzione, rispettivamente il 33-34 e il 35, comma 2:

 

La chiara distinzione tra ciò che si deve apprendere nella scuola, e più ampiamente la materia dell’istruzione, rispetto alla specificità della formazione professionale è rimarcata dalla collocazione della norma richiamata nel titolo III, dedicato ai rapporti economici, sede distinta quindi rispetto alle altre norme concernenti la “Costituzione scolastica” (ovvero i principi fondamentali e i diritti sull’istruzione), tutte riunite nel titolo II, dedicato ai rapporti etico-sociali.[11]

 

Il secondo. È la logica generale del rapporto tra scuola e lavoro che nei nostri anni si è fatta sempre più strumentalistica. Non è un caso che essa si manifesti sintomaticamente proprio in quelle scuole nelle quali tale rapporto è da sempre centrale. È perciò il momento di parlarne.

 

Scuola e lavoro nell’età neoliberale

 

L’ironia di cui diventa bersaglio chi evochi l’etichetta “neoliberismo” o “neoliberalismo” è causata assai più dall’ignoranza sull’argomento di chi fa ironia che dal ridicolo presunto di chi ne è fatto oggetto. Come è noto, il termine ha una valenza storico-descrittiva, prima che politica e polemica, e per i suoi propugnatori il suo senso è assolutamente positivo, perché il neoliberalismo sarebbe un progetto politico ed economico in grado di garantire insieme sviluppo economico e libertà individuale.[12] Si può perciò parlare, senza essere accusati di semplificazioni, anche dell’esistenza di una «scuola neoliberista» (o neoliberale), la cui nascita il pedagogista Massimo Baldacci colloca (naturalmente grosso modo) nel 1994 e che è ancora quella attuale.[13]

 

In tutte le fasi di crisi e di transizione del capitalismo, nella scuola l’equilibrio tra vocazione alla formazione generale della persona e vocazione alla formazione professionale si incrina a favore della seconda.[14] Noi viviamo in una di quelle fasi. Il legame della scuola con il mondo produttivo, quindi, non nasce certo oggi, come pensa qualche moralista o idealista che confonde la parte con il tutto, i licei per le classi dirigenti del passato con la scuola tout court. In passato non è nemmeno mancata, proprio per le scuole tecniche e professionali, una accurata programmazione dall’alto del fabbisogno di lavoratori manuali e di tecnici, come è capitato in modo paradigmatico nel dopoguerra del boom economico e del compromesso socialdemocratico.[15] Tuttavia negli ultimi decenni l’“economia della conoscenza”, la globalizzazione, l’aumento della competitività globale e l’imporsi di politiche neoliberali hanno cambiate profondamente quel legame. Ma prima di parlare della scuola, bisogna accennare sommariamente ad alcuni aspetti del neoliberalismo.

 

Due sono quelli decisivi, ricavabili dalla letteratura sull’argomento: l’estensione, anzi l’universalizzazione, della logica dello scambio ad ambiti sociali che il liberalismo classico considerava esterni al mercato; una diversa modalità di soggettivazione degli individui. Entrambe queste trasformazioni hanno investito la scuola, ma, per brevità, mi concentrerò solo sulla seconda.

Il «dispositivo industriale di efficienza», tipico del fordismo, era fondato sul ciclo “produzione/risparmio/investimento”. Tale dispositivo apprezzava nei soggetti attitudini e  capacità come l’autodisciplinamento, la metodicità, il rinvio superegotico della soddisfazione dei bisogni al futuro.[16] È l’epoca della classe media che lavora, risparmia, compra televisori, auto, frigoriferi, o “investe” nel mattone, dopo aver messo i soldi necessari da parte. Anche l’azienda era concepita secondo la forma piramidale e gerarchica della burocrazia statale. L’avanzamento di carriera era fondato sul principio “automatico” dell’anzianità, che garantiva una prevedibilità del futuro e delle traiettorie di vita.[17]

 

L’età neoliberale non ha bisogno di tale ragionevolezza e misura: le qualità “medie” e il conformismo sono anzi sospetti. Il dispositivo industriale di efficienza è stato sostituito da un «dispositivo di prestazione/godimento», caratterizzato da «un discorso manageriale che fa della prestazione un dovere e [da] un discorso pubblicitario che fa del godimento un imperativo»; il soggetto deve puntare «a un “oltre”, un “di più”, che Marx aveva chiamato “plus-valore”», investendo le proprie capacità in prestazioni d’eccellenza, solo per rilanciare/reinvestire su se stesso, verso uno stadio ulteriore di profitto.[18] Il richiamarsi di prestazione e consumo/godimento è naturalmente fondato sul modello di intensità instabile del capitalismo finanziario, per cui Dardot e Laval hanno parlato di «soggettivazione contabile e finanziaria».[19] Nell’epoca del nuovo capitalismo, osserva Sennett, il futuro è diventato imprevedibile, le vite si disarticolano nella difficoltà o impossibilità di progetti dotati di coerenza psicologica e temporale.

Alla sequenza “produzione/risparmio/investimento” si è sostituita quella “costo-investimento-rendimento”, tipica della logica imprenditoriale. Secondo tale logica deve diventare «naturale, per tutti gli attori, comportarsi come si comporta un imprenditore».[20] A nessuno, naturalmente, è chiesto di aprire un’azienda: si tratta di una logica generalizzata dell’azione sociale, catturare la quale è sempre stato l’obiettivo più ambizioso dei teorici neoliberali.

 

Che conseguenze ha avuto sulla scuola questo mutamento storico? La produzione di capitale umano è diventato il suo mandato principale, talvolta esclusivo, mentre la formazione generale della persona e del cittadino è diventato un principio secondario e subordinato. Come è ormai platealmente evidente a chiunque non viva a Ventotene, tra i nobili fantasmi di Spinelli, Rossi e Colorni, è anche in larga parte il modello di scuola dell’Unione europea, a partire dai libri bianchi degli anni Novanta e dalla Strategia di Lisbona (2000), in cui al sistema dell’istruzione è demandato il compito – cito a memoria ma quasi alla lettera dalla famosissima premessa del documento del 2000 – di rendere quella del continente la più competitiva tra le economie della conoscenza globali.[21] Il mercato è stato eretto a «principio unico, o comunque prioritario, di razionalità sociale, e quindi a criterio di organizzazione».[22]

 

Oggi la scuola è una delle agenzie deputate sia all’obiettivo di sistema di «massimizzare l’utilità della popolazione, accrescendone l’impiegabilità e la produttività», sia a quello specificamente formativo di «produrre nel soggetto individuale un rapporto con se stesso omologo al rapporto con il capitale: il soggetto, per essere più esatti, è portato a vedere in se stesso un “capitale umano” da valorizzare indefinitamente, un valore da aumentare sempre di più».[23] In questa «fusione senza residui tra il capitale – inteso come ciò che rende possibile un reddito futuro – e colui che lo detiene», il neoliberalismo è riuscito a «cancellare con un semplice colpo di spugna tutte le teorie dell’alienazione»: il lavoratore non offre la propria prestazione solo per ottenere in cambio un salario, bensì investe «il proprio capitale, cioè se stesso, utilizzando le risorse di cui dispone in termini di capacità e competenze».[24]

 

Tuttavia, a differenza di altre forme di capitale, da quello umano non è possibile estrarre plusvalore senza la partecipazione e coinvolgimento del “portatore”. Da qui nasce l’esigenza di “attivarlo”, coinvolgendolo, motivandolo, costringendolo a “scegliere liberamente” di essere performante, come si può evincere da un’analisi della letteratura del management delle risorse umane, nella quale, da un lato le tecniche di role playing, team building, dall’altro l’insistenza sulla creatività e partecipazione in prima persona del lavoratore, sono utilizzate allo scopo di far emergere i tratti della personalità che non si leggono nel curriculum vitæ, per «raccogliere il maggior numero possibile di informazioni in modo da poter costruire un’immagine il più possibile veritiera ed esaustiva della risorsa».[25]

 

Chi lavora da qualche anno nella scuola si sarà accorto dell’insistenza crescente sulle competenze trasversali, sulle competenze non cognitive, su metacompetenze come imparare a imparare e incorporare vari “spiriti” – di collaborazione, di iniziativa, di impresa. Si tratta, in ogni caso, delle solite «otto competenze chiave europee»: nulla che non fosse già previsto, ma che viene semplicemente “implementato”, un passo alla volta. Nella prospettiva del lifelong learning[26] diventa prioritario creare atteggiamenti e forme mentali, piuttosto che insegnare Leopardi o Caravaggio o gli integrali. Fatti e documenti degli ultimi anni parlano da sé.

 

La «didattica orientativa» introdotta da un decreto ministeriale recente[27] mostra inquietanti consonanze con il management delle risorse umane aziendale cui si è accennato sopra, come hanno potuto constatare gli insegnanti che, tra quest’estate e l’autunno, hanno seguito il corso di formazione online per tutor e orientatori sulla piattaforma Sofia. Lo scopo di conoscere meglio le proprie attitudini e capacità, il “narrare la propria storia” attraverso un e-portfolio, il concentrarsi su ciò che non emerge nel contesto scolastico per renderlo trasparente alla propria consapevolezza, in un contesto in cui la lezione di un pedagogista era affiancata a quella di formatori del mondo del lavoro che parlavano di «clienti», risultava indistinguibile dal «costruire un’immagine il più possibile veritiera ed esaustiva della risorsa», più che di se stessi. Ma con un po’ d’attenzione, nelle «Linee guida» allegate al decreto, si può rintracciare anche una spia lessicale del dispositivo di prestazione/godimento: il documento, l’esperienza, la produzione personale che ciascuno studente sarà tenuto a scegliere fra quelle, scolastiche e non, realizzate nel corso dell’anno scolastico, per inserirla nel proprio «e-portfolio», era definito il proprio «capolavoro».

 

La recente norma sull’introduzione delle soft skills a scuola (ovvero la pretesa di lavorare in modo esplicito su attitudini personali, tratti caratteriali, aspetti emotivi) e il Sillabo dello spirito di imprenditorialità (una delle «otto competenze chiave europee») sono documenti di cui solo una grande ingenuità o una profonda malafede possono continuare a non vedere la limpida origine neoliberale, che mette a frutto un complesso di saperi di cui prima o poi bisognerà fare la genealogia: si tratta, presumibilmente, di un miscuglio tra linguaggio del management delle risorse umane (linguaggio già di per sé ibrido: economia comportamentale, sociologia e psicologia del lavoro, economia aziendale),[28] e quello della psicologia comportamentista-cognitivista, della pedagogia, finanche della filosofia.

 

D’altra parte, nel mondo universitario non mancano nemmeno i contributi teorici che puntano ad appianare alla radice ogni possibile conflitto tra la razionalità pedagogica e il discorso del capitale umano:

 

“Capitale umano” è una metafora che transita con profitto dal mondo dell’economia alla pedagogia, favorendo così lo sviluppo e il successo delle abilità. Da questo punto di vista, le teorie del capitale umano sono un interessante esempio di ibridazione culturale tra due sfere – economica e pedagogica – ancora troppo distanti l’una dall’altra […] il capitale umano si allontana gradualmente dalla sua matrice economica per scoprire una dimensione pedagogica […] qualsiasi differenza nel campo dell’educazione – tra le azioni soltanto orientate allo sviluppo integrale del soggetto e l’azione finalizzata all’investimento nel capitale umano – viene meno […] Le teorie del capitale umano hanno contribuito all’evoluzione della formazione educativa, rappresentando una svolta pragmatica per la pedagogia. Una prova indiretta viene dal fatto che la formazione sia proposta in termini di abilità, che è un modo più concreto di occuparsi di apprendimento e di rendere il concetto di merito più democratico.[29]

 

Conclusioni politiche: le colpe prevedibili della destra, le responsabilità storiche della sinistra

 

Vorrei concludere sottoponendo al lettore alcune questioni politiche, che lascio aperte ma che sono decisive.

Ho provato sinteticamente a ricostruire il terreno ideologico dal quale sono nate molte delle riforme degli ultimi anni e da dove nasce anche quest’ultima riforma, che concepisce una scuola interamente dedotta da un unico principio, quello della produttività economica. Sarebbe superfluo citare la pletora di normative, dichiarazioni, documenti nei quali la necessità di riformare la scuola viene argomentata, ormai in modo esplicito e senza giri di parole, sulla base dell’obiettivo di «ridurre il mismatch nel mondo del lavoro».[30] Ma non è solo la politica a operare questa forma di riduzionismo del discorso scolastico: gli esperti non sono da meno. Si vadano i due numeri monografici del 2016 sull’alternanza scuola-lavoro, l’apprendistato e l’IeFP della rivista dell’Iprase di Trento «Ricercazione». La premessa dalla quale prendono le mosse è sempre la stessa:

 

Anche se la scuola non ha una mission esplicita (a differenza della Istruzione e Formazione Professionale) nel preparare, in senso stretto, giovani lavoratori, è inevitabile che il mismatch tra competenze in uscita dal sistema educativo e in entrata nel mondo del lavoro venga ricondotto ad essa. E oggi diventa inevitabile considerare l’alternanza come l’unico antidoto per curare tale mismatch. […] [La scuola deve lavorare allo] sviluppo di una serie di caratteristiche individuali, che in parte possiamo definire come competenze trasversali, necessarie per affrontare al meglio l’uscita dalla scuola e l’ingresso nel mondo del lavoro (e per ridurre il più possibile il già citato mismatch di competenze) […]: pensiamo a quanto ne potrebbero giovare [sic] i percorsi di alternanza scuola lavoro se fossero basati esplicitamente sullo sviluppo dell’adattabilità professionale degli studenti.[31]

 

La posizione sociologicamente equilibrata di riconoscere una reciproca retroazione tra scuola e società è stata liquidata, in una perfetta naturalizzazione e giustificazione della realtà esistente, scaricando unilateralmente sulla scuola il compito di adeguarsi a una società fondata su un monismo economicistico. Lo stress cui così si sottopone la scuola è insostenibile: tanto i ritardi, gli squilibri e i fallimenti nella competizione, quanto l’incapacità di integrazione sociale dei giovani, sono interamente attribuiti ad essa. La precarizzazione del mercato del lavoro è diventata un dato di fatto cui la scuola deve rispondere sviluppando nei soggetti una capacità di riadattamento continuo («La flessibilizzazione dei processi lavorativi […] ha imposto ai sistemi educativi di farsi carico della produzione biopolitica dell’uomo flessibile»).[32]

 

Si sta spacciando agli studenti e alle loro famiglie il mito di un mondo del lavoro che chiederà, sempre e a tutti, alte prestazioni cognitive e resilienza,[33] in cambio però della soddisfazione di un impiego creativo e capace di valorizzare le ambizioni dei singoli – tristemente, un ministro d’area PD come Bianchi è stato capace di dichiarare che: «I ragazzi vogliono un lavoro che soddisfi le loro esigenze, la propria creatività. E non come noi che pensiamo al posto fisso».[34] La verità, più probabilmente, l’aveva già intravista David Harvey nel 1990. Nella fase dell’«accumulazione flessibile» del capitalismo, iniziata negli anni Ottanta, il mercato del lavoro sarebbe stato fondato su una struttura centro-periferia, con al centro lavoratori “ad alto contenuto di capitale umano”, dotati di buone garanzie di sicurezza e soddisfazione sul lavoro, e un’ampia periferia di lavoratori precari, sfruttati, sottopagati.[35] Un lucido critico come Nico Hirtt, proprio considerando un mercato del lavoro segmentato nel modo descritto da Harvey, ha osservato come la concezione stessa dell’istruzione europea, fondata su uno «zoccolo duro di competenze», implichi l’idea che alla gran massa degli studenti vada fornito un corredo minimo di capacità – sufficienti ad adattarsi alle richieste del mercato – e che tutto quello che si apprende in più, per interesse, curiosità, passione, sarà a carico delle scelte del singolo.[36]

 

Questa riforma dei tecnici e dei professionali è una riforma chiaramente di destra, nel duplice senso della parola: è una destra della gerarchia e della diseguaglianza, che rende ancor più subalterni i già subalterni, ed è una destra neoliberale, scrupolosa gerente degli affari del capitale. Ma la razionalità che ispira tali politiche, scolastiche e non, va ben oltre il posizionamento ideologico di questo governo: sarebbe un errore dimenticarlo, anche perché la «sinistra governamentale»[37] non ha difeso in questi decenni un’idea di scuola realmente alternativa a quella neoliberale e nella critica all’obiettivo classismo della riforma di Valditara troverebbe una facile scusa per rimandare ancora l’ammissione della propria condivisione dello spirito dell’epoca.

 

Note

 

[1]    Disegno di legge 924 del 18 settembre 2023: «Schema di disegno di legge di istituzione della filiera formativa tecnologico-professionale e di revisione della disciplina in materia di valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti».

[2]    P. Dardot – C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Derive Approdi, 20192. Preferisco ricorrere al termine «neoliberalismo», piuttosto che a «neoliberismo», per sottolinearne il carattere globale di progetto politico e non solo di agenda economica – per quanto questa sia ovviamente il cuore di quel progetto. Mi rifaccio peraltro all’uso foucaultiano e a quello di Massimo De Carolis, che per il neoliberalismo ha parlato di vero e proprio «congegno di civilizzazione»: M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, 2007; M. De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del neolberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet, 2017.

[3]    Decreto ministeriale 3 agosto 2017, n. 567, per la promozione di un Piano nazionale di innovazione ordinamentale finalizzato alla sperimentazione di percorsi quadriennali di istruzione secondaria di secondo grado a partire dal primo anno di corso

[4]    Consiglio superiore della Pubblica istruzione, parere n. 66 del 17/11/2021.

[5]    Eloquente questo passaggio del D.M. n. 344 del 03/12/2021: «RITENUTO di non accogliere il richiamato parere del CSPI, stante la valenza strategica del provvedimento all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, di cui alla Missione 4C1.1 – Riforma 1.4».

[6]    D. Lgs. 924/2023, art. 1 commi 2 e 6.

[7]    Ivi, art. 1 commi 3 e 6.

[8]    Ivi, art. 1 comma 9 e art. 2.

[9]    Ivi, art. 1 comma 1.

[10]  Cfr. i dati nel focus del Mim per l’a.s. 2023/24, pp. 10-13.

[11]  R. Calvano, Scuola e costituzione, tra autonomie e mercato, Futura, 2019, p. 26.

[12]  Cfr., oltre ai già citati Foucault e De Carolis, N. Wapshott, Keynes o Hayek. Lo scontro che ha definito l’economia moderna, Feltrinelli, 2012; Q. Slobodian, Globalists. La fine dell’impero e la nascita del neoliberalismo, Meltemi, 2021; Y. Wasserman, I rivoluzionari marginalisti. Come gli economisti austriaci vinsero la battaglia delle idee, Neri Pozza, 2021.

[13]  M. Baldacci,  La scuola al bivio. Mercato o democrazia?, Franco Angeli, 2019, p. 174.

[14]  Ivi, p. 9.

[15]  A. Cobalti, Globalizzazione e istruzione, Il Mulino, 2006, cap. 1.

[16]  P. Dardot – C. Laval, cit., p. 355 sgg.

[17]  R. Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino, 2006, cap. 1 «Burocrazia».

[18]  P. Dardot – C. Laval, cit., p. 355. Naturalmente ci sono profonde affinità tra il discorso di Dardot e Laval, foucaultiano, e la teorizzazione da parte di Deleuze di una «società del controllo» che sostituisce quella disciplinare: cfr. G. Deleuze, Poscritto sulle società di controllo, in Pourparler, Quodlibet, 2000.

[19]  P. Dardot – C. Laval, cit., p. 38 e 306.

[20]  P. Maltese, Foucault e la teoria del capitale umano, in «Educazione. Giornale di pedagogia critica», IV, 2 (2015), p. 31, corsivi originali.

[21]  Tra i molti libri disponibili, segnalo la breve ma straordinaria sintesi di M. Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, 2019.

[22]  M. Baldacci, cit., p. 10.

[23]  P. Dardot – C. Laval, cit., p. 306 e p. 38, corsivo originale.

[24]  G. Leghissa, Il modello dell’impresa e le radici della governamentalità biopolitica, in L. Demichelis – G. Leghissa, Biopolitiche del lavoro, Mimesis, 2008, p. 79.

[25]  M. Nicoli, “Io sono un’impresa”. Biopolitica e capitale umano, in «aut aut», 356, 2012, p. 28, corsivo mio.

[26]  Cfr. G. Biesta, What’s the Point of Lifelong Learning if Lifelong Learning Has No Point? On the Democratic Deficit of Policies for Lifelong Learning, in «European Educational Research Journal», 5, nn. 3 e 4 (2006).

[27]  Decreto Ministeriale n. 328 del 22 dicembre 2022.

[28]  Cfr. M. Nicoli, cit., pp. 93-95.

[29]  A. Cegolon, Merit, Competence and Human Capital, in «Studi sulla formazione», 2022, 1, pp. 61-72, traduzione mia, corsivi miei.

[30]  L’ultimo esempio di questa lunga serie: alcune dichiarazioni del ministro Valditara relative alla presente riforma.

[31]  Editoriale di F. Pisanu, Integrare scuola, formazione e mondo del lavoro: il processo di alternanza dal punto di vista delle caratteristiche individuali degli studenti, in «Ricercazione. Six-monthly Journal on Learning Research and Innovation in Education», Vol. 8, nn. 1-2, 2016, pp. 7-9, corsivi miei. Pisanu, lamentando il ritardo con il quale in Italia si è realizzata un’alternanza scuola-lavoro strutturata, mancanza cui la Buona scuola renziana ha ovviato, parla per la fase iniziata allora (2015) come di una «new-wave dell’alternanza italiana».

[32]  P. Maltese, Precarietà, flessibilità e teoria del capitale umano, in «Ricerche di Pedagogia e Didattica – Journal of Theories and Research in Education», 13, 1 (2018), p. 194.

[33]  Ma sembra che nemmeno la resilienza sia più sufficiente. Essa avrebbe il limite di lasciare il soggetto immutato dopo uno shock. L’imperturbabilità, in un mondo fatto di «volatilità, casualità, disordine e fattori di stress», è un grave handicap. La vera qualità di successo sarebbe l’antifragilità, ovvero l’approfittare dello shock per migliorare: R. Barbaro – D. Barricelli (ISFOL National Research Institute for the Development of Vocational Training of Workers), New Emerging Learning Areas, in «Ricercazione», cit., p. 19.

[34]  P. Bianchi al convegno “La scuola sicura. La scuola che vogliamo” dell’Associazione Nazionale Presidi, 30 maggio 2022.

[35]  D. Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, 20153, cap. 9. Anche Sennett sostiene che la cultura del nuovo capitalismo nasca in realtà dall’esperienza di lavoro di pochi (Sennett intervista lavoratori della new economy e della Silicon valley): ma «i fautori di un ben determinato genere di capitalismo hanno convinto tanta gente che la loro via è la via del futuro», R. Sennett, cit. p. 14.

[36]  N. Hirtt L’approche par compétences: une mystification pédagogique, in «L’école démocratique», 39 (settembre 2009).

[37]  C. Laval – F. Vergne, Educazione democratica. La rivoluzione dell’istruzione che verrà, Novalogos, 2022.

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