di Thea Rimini

 

Romanzo senza umani, l’ultimo libro di Paolo Di Paolo (Feltrinelli, 2023), ha per protagonista Mauro Barbi, storico di professione, specializzato nella storia dei cambiamenti climatici e in particolare della piccola glaciazione che investì l’Europa nella seconda metà del Cinquecento. Arrivato a un punto morto della sua esistenza, Barbi comincia a rispondere a e-mail rimaste senza risposta per quindici anni, ma il turbamento che ne deriva è ingestibile e decide di mettersi in viaggio diretto al lago di Costanza. Forse proprio in quel luogo, oggetto di tanti anni di studio, potrà trovare delle risposte. La storia della piccola era glaciale dell’inizio della modernità che interessò il lago di Costanza si intreccia così alla piccola epopea contemporanea di Barbi.

 

In antifrasi con il titolo, Romanzo senza umani non solo è “pieno di umani”, com’è stato già detto in diverse sedi, ma è pieno di corpi. Il corpo, rabelaisianamente inteso, tra “basso” e “alto”: gli umori melanconici del principe rinascimentale che, divenuto folle per i climi freddi, i medici cercavano di contrastare con le cure più disparate, le funzioni gastrointestinali che controbilanciano emozioni e scrittura («L’ambizione che mi faceva friggere […] era continuamente irrisa dai movimenti gastrointestinali o dai richiami della vescica», p. 154). E poi, ancora, corpi in preda all’eccitazione, corpi nudi in compagnia, come sperimenta Mauro alle terme, corpi che provocano ansie e turbamento («Sei un tipo ansioso, ti preoccupa il corpo» (p. 125), sentenzia una ragazza dopo aver sottoposto Mauro a un test psicologico), corpi che si fanno memoria e mostrano le rughe del tempo. Degli eventi passati Barbi infatti si accorge di aver registrato soprattutto i movimenti fisici, come gli capita ripensando alla platea studentesca di una sua conferenza: «[…] una confidenza fra corpi che il tramonto del Novecento sembra aver accelerato. Si tastano, si abbracciano senza imbarazzo, si accarezzano, chiudono gli occhi come bambini poggiando la guancia sulla spalla del vicino» (p. 143). Se la memoria passa per il corpo, la scrittura si fa tattile, pronta a cogliere, e trattenere, gesti e volti. Ma i corpi si possono anche immaginare come fa Barbi quando sogna «da sveglio» quei «corpi alla prova degli anni» (p. 181) che nel tempo si sono avvicendati intorno al lago– e come, con un evidente rimando metaletterario, fa ogni scrittore quando immagina i suoi personaggi. E poi, su tutti, il corpo del lago che si è modificato nel tempo: secoli fa ricoperto da una lastra di ghiaccio, e ora diventato una meta turistica.

 

Romanzo di corpi, e di tempi

 

Romanzo di corpi, Romanzo senza umani è anche un romanzo di tempi. Dopo gli anni Venti del Novecento raccontati in Mandami tanta vita! e nel saggio narrativo Svegliarsi negli anni Venti, gli anni Ottanta immortalati in Lontano dagli occhi (Premio Viareggio-Rèpaci), la fine della Prima repubblica di Dove eravate tutti e l’Italia di oggi di Una storia quasi solo d’amore e degli articoli per «la Repubblica», adesso è il legame tra memoria e rimpianto a farsi architrave del libro. Sin dalla professione del personaggio: Mauro Barbi è uno storico, la sua missione è fare memoria, il suo modello è la Scuola delle Annales e l’importanza della micro-storia, la sua tesi di dottorato verte sullo «schock postraumatico della comunità umana alla prova del congelamento del Lago di Costanza 1572-1573» (p. 154). Tuttavia, Mauro è incapace di fare chiarezza sul suo passato personale, tra amori e amicizie che a un certo momento si sono interrotti e che gli hanno lasciato in bocca un retrogusto amaro. Una domanda gli ritorna con insistenza: «Che cosa ricordano, gli altri, di noi?» per poi rendersi conto a poco a poco che spesso quello che si ricorda di uno stesso momento condiviso non è identico per tutti coloro che l’hanno vissuto. Ecco allora che il romanzo intreccia diversi piani temporali: l’oggi di Barbi, alle prese con un passato irrisolto, e lo ieri della seconda metà del Cinquecento, quando i climi freddi attentavano all’equilibrio psichico dei principi rinascimentali e ricchi possidenti, preoccupati per le loro produzioni, partivano alla volta del lago ghiacciato per folli escursioni. La volontà di mettere in comunicazione il passato e il presente si ripercuote anche sulla struttura del libro, a livello tipografico, con le frasi che si rincorrono da un capitolo incentrato sull’oggi al successivo ruotante sullo ieri. In un richiamarsi continuo tra l’ora e l’allora.

 

In Romanzo senza umani Di Paolo s’interroga anche sulla difficoltà, tutta contemporanea, di fare memoria, collettiva e privata, in un momento in cui invece l’operazione sembrerebbe facilitata dagli archivi digitali che rigurgitano di documenti. Oggi, più di ieri, paradossalmente incombe la minaccia dell’oblio che si materializza nell’invito insistente dei dispositivi a «risparmiare spazio ottimizzando l’archivio» (p. 107). Non solo. Per trasmettere memoria alle nuove generazioni, come si sforza di fare Barbi davanti a una platea annoiata di studenti o parlando con una ragazzina sveglia e vivace, si deve fare i conti con un immaginario fatto di ere glaciali a cartoni animati, tra il franchise della 20th Century Fox e il successo di Frozen.

 

Se un polo del libro è dunque la memoria, l’altro, connesso al primo, è il rimpianto. Che non è però solo ricordo nostalgico di esperienze passate, ma è anche «nostalgia del niente», di «una storia d’amore che non abbiamo vissuto […] del sesso che non abbiamo fatto» (p. 58), parente stretta della categoria di «nostalgia del possibile», nostalgia per quello che sarebbe potuto essere e non è stato, formulata da Tabucchi nel tentativo di redigere un catalogo della saudade. E proprio a Tabucchi Di Paolo rende omaggio, in modo implicito, lungo tutto il libro, sin dalla sua anticamera. Nel risvolto, troviamo la foto dello scrittore, di spalle, quasi in bianco e nero, lungo il lago di Costanza: viene in mente l’istantanea che ritrae Tabucchi lungo la Senna. Entrambi hanno percorso luoghi per esplorare tempi. Tra le pagine, c’è persino la citazione del dialogo mancato tabucchiano Il tempo stringe attraverso quella frase, «insieme curiosa e allarmante: “Il tempo stringe”» (p. 145) che Barbi legge nella mail di uno studente che aveva incontrato durante una conferenza tenuta in una scuola, un ragazzo che aveva delle domande e che chiedeva insistentemente risposte, una frase che all’epoca aveva trascurato e che ora gli si impone in tutta la sua urgenza e necessità. Ma è soprattutto il rovello del Tempo ad accomunare Tabucchi e Di Paolo: il rifiuto di misure precise e infallibili e il tentativo di forzare le barriere cronologiche facendo dialogare dimensioni lontane e apparentemente irriducibili, quasi si volessero riscrivere vite fuori tempo massimo (si ricordi la bellissima raccolta di racconti di Tabucchi che Di Paolo ha curato nel 2020 per Feltrinelli scegliendo come titolo proprio quello del racconto Che ore sono da voi?).

 

Aperture

 

Protagonista di Romanzo senza umani, il Tempo richiama un luogo, o meglio è un luogo a richiamare più epoche. Il lago di Costanza si fa cronotopo, diventa uno spazio al crocevia di più tempi: da una parte, quello bloccato, congelato, della Storia, dall’altra, un tempo che si può rimettere in moto. Ed è proprio quello che cercherà di fare Barbi: dopo aver compiuto il pellegrinaggio al lago di Costanza, decide di andare a trovare Anna, lasciando intravvedere un’apertura che, narrativamente, rimane però nella zona dei possibili. Un’apertura che Di Paolo aveva già evocato nel finale del precedente Lontano dagli occhi– «Il futuro adesso arriva davvero, ed è il migliore che io possa avere» – e che appare contro corrente in un periodo di previsioni catastrofiste e apocalittiche. Non si tratta certo di revisionismo, non condividiamo l’apprensione della redazione del programma televisivo che prima invita Barbi e poi teme che gli spettatori potrebbero insospettirsi sentendo parlare di glaciazioni in un momento di surriscaldamento del pianeta. Quella che traspare da Romanzo senza umani è la fiducia nel racconto, nel romanzo (genere di cui si è spesso decretata la morte e che invece campeggia – provocatoriamente – nel titolo) come «prova di coraggio» (p. 135), nella scrittura che, ancora alla Rabelais, disgela le parole. Recentemente, lo scrittore belga Jean-Philippe Toussaint, finalista al prix Goncourt, ha ribadito che scrivere è un atto di resistenza, non modesta, ma minore contro il buio che attraversiamo. Ebbene, il romanzo di Di Paolo sembra rivendicare quest’idea di scrittura come atto di resistenza contro la disumanizzazione, contro il raffreddamento – emotivo, etico – di una società in un’epoca di riscaldamento climatico.

 

Nella nota conclusiva, Di Paolo menziona le letture che sono state cruciali per l’origine e la redazione del romanzo. Dai testi storici ai romanzi di Karl Ove Knausgård, dal De rerum natura a Rabelais ma ce n’è una che sembra lavorare più di tutte nel testo: è quella di Amitav Gosh che nel saggio La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile si chiede se si possa rendere poetico lo scioglimento di un ghiacciaio. Ebbene, Romanzo senza umani ne è una prova.

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