di Camillo Chiappino

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

 

Spiazzamento, sporgenza ed epistemologia

 

La forza della riflessione di Althusser[1] è la sua capacità di sporgenza. A dircelo è Balibar, la stella più fedele di quella formidabile costellazione[2] che fu il circolo di allievi che, negli anni ’60, si riunì intorno al maestro Althusser per rileggere e rinnovare la lettura di Marx. Nel 1996, introducendo la nuova edizione in lingua francese di Per Marx, Balibar avverte di non farsi ingannare dalla forma del testo. Pur trattandosi di una riproposizione di alcuni interventi che Althusser aveva già redatto tra il 1960 e il 1965, la scelta di articolarli insieme in una forma unitaria fece di Per Marx una vera e proprio opera, un libro filosofico a tutti gli effetti. Filosofico: perché esce in un periodo in cui la filosofia cambia stile in quanto <<attraverso la storia e l’antropologia, la psicanalisi e la politica, la filosofia si confronta più intensamente di prima con il suo esterno, il suo inconscio, la non-filosofia>>. Un libro: perché non si trattò soltanto di attingere alla verità autentica di Marx (l’esegesi), ma di lavorare su Marx per produrre <<una straordinaria costellazione di strumenti concettuali>>. Forse rischiando di far dire a Marx qualcosa che non aveva pensato, ma comunque aprendo <<alla possibilità di esportare le nozioni e le questioni presenti in Marx all’intero campo dell’epistemologia, della politica e della metafisica>>[3]. Vista dal punto di vista della congiuntura attuale, in cui la crisi climatica come contraddizione tra società umana ed equilibri non umani è lo sfondo su cui si proiettano, innescano e giustappongono crisi sociali ed economiche, dell’immunizzazione biologica e belliche, ecc., rileggere Althusser è, in primo luogo, ripeterne l’atteggiamento filosofico secondo cui la produzione di concetti è un lavoro di sconfinamento tra diversi saperi – nel suo caso la filosofia, la psicoanalisi, la storia della scienza, la critica dell’economia politica – proprio perché siamo di fronte ad ordini di problemi in cui la teoria filosofica troppe volte, per dirla con Kant, cade in uno stato di minorità, sia che si tratti di epidemie, sia che si tratti di equilibri ecosistemici. Purtroppo, le parole di Kant non colgono il problema, possono essere richiamate unicamente sotto l’aspetto dell’efficacia semantica. Infatti, lo stato di minorità – leggiamo nelle prime righe del suo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo – è stato di eteronomia, pigrizia a servirsi del proprio intelletto senza guidarsi insieme agli altri, nonché riprodurre sul piano della conoscenza l’epoca in cui l’uomo era assolutamente determinato dalla natura. L’illuminismo è realizzare a pieno l’affrancamento dalla natura, ma oggi questa separazione è più che mai impossibile, se non addirittura la cosa più stupida da desiderare. Per non parlare dell’accusa di pigrizia, visto che siamo schiacciati da tempi di vita tossici per un intelletto che si voglia libero. Di fronte a questi problemi la filosofia non è semplicemente inadeguata, confinata in un’età “minore”: è che si sente proprio inutile, spiazzata, espulsa, in stato di inutilità.

 

In gioco non c’è la Filosofia – chissene: come è nata può anche morire – ma l’orizzonte di senso di chi la studia, e la forza e legittimità con cui pretendiamo, dentro il tempo del collasso climatico, le giuste condizioni materiali per continuare a farlo. Bisogna lottare e organizzarsi, ma le nostre lotte vanno concatenate con l’impegno a dimostrare che costruire nuovi concetti e/o farne la storia possa giocare un ruolo per costruire una vita bella. Concedetemi di insistere. Il punto non è solo saper rispondere alla domanda “a che serve la filosofia?” di fronte a una classe di liceo, ma rendersi conto del fatto che, oggi, non ti puoi manco indebitare con le banche o con lo Stato per sostenere un percorso di studio in filosofia[4], che i dottorati e i post-doc in filosofia sono ridotti all’osso rispetto agli ambiti tecnico scientifici, che “diventare meritevoli” all’insegnamento di storia e filosofia è un percorso a ostacoli infinito[5], e che la vita di chi comincia a insegnare storia e filosofia nel 2023 è vicina alla miseria. Che, a maggior ragione in un contesto di catastrofe climatica, con la diffusione di politiche di compensazione economica per i disastri ambientali (briciole per i beni materiali, cassa integrazione e riduzione del salario per chi un lavoro ce l’ha), con un’inflazione strutturale per la fine della “natura a buon mercato” ecc., le risorse per le materie umanistiche e il loro insegnamento saranno sempre meno. Sapere aude! va bene, ma dicendo che ruolo giochiamo dentro questi problemi epocali. E non studiare filosofia perché mi piace Husserl, Plotino, o anche Marx. Per dirla con Balibar: <<uno dei modi per risolvere l’aporia del “chi da ordini al filosofo?” è evidentemente quello di esporsi, il più spesso possibile e senza restrizioni di competenza, senza immunità garantita, a ordini, interrogazioni, richieste di teorizzazione di cui non si scelgono i termini […]. Si tratta di lasciare che altri soggetti, altre istanze determinino ciò di cui si ritiene, a torto o ragione, capaci di discutere, e, almeno in una certa misura, lasciarli scegliere per voi il linguaggio stesso della questione>>[6]. Ne va della sua scientificità[7], del suo ruolo nella società. Ma soprattutto, ne va della composizione di classe delle discipline umanistiche, del fatto che il loro studio e la loro storia sia alimentata dai desideri e preoccupazioni di molti, e non un affare ad uso e consumo dell’élite. Per farla finita con chi ti dice: “ma lo sai che Macron, o Marchionne, hanno studiato filosofia?”, “ma lo sai che potresti diventare un manager delle risorse umane nelle aziende?”, dunque per farla finita con la filosofia che si riabilita solo opprimendo, arricchendosi, sfruttando e licenziando. Ecco la miseria della filosofia: l’impossibilità di partire dalla miseria, dalla precarietà, dall’obbligo del lavoro salariato e di cura, dal tempo in cui si moltiplicano eventi estremi. Rileggendo Althusser, vorrei proporre l’anatomia di alcuni concetti – surdeterminazione, struttura a dominante, modo di produzione (limitatamente alla loro formulazione in Per Marx e Leggere il Capitale) – per offrirli a tutti quei saperi “non filosofici” che si interrogano sulla natura e gli effetti della crisi climatica, e sulle soluzioni per risolverla o per adattarvisi. Sono convinto che il suo scavo nella teoria e pratica politica del marxismo (Marx, Engels, Lenin e Mao) alla ricerca della filosofia marxista sia una porta attraverso cui la filosofia stessa torna a sporgersi, torna a comunicare[8]: può la filosofia essere un’interlocutrice dei modelli matematici dei sistemi complessi che hanno permesso a Giorgio Parisi di vincere il Nobel? Dice Althusser che una rottura epistemologica, una rivoluzione nel pensiero, non è un processo di immanenza ideologica (da un’idea che da sé ne produce un’altra), ma l’incontro tra il pensiero e l’<<emergenza reale>>, nell’incontro con un fuori che produce il nuovo: come il Marx filosofo che incontra la classe operaia e si avvia a produrre un’idea mai vista, Il Capitale (come libro e modo di pensare). Allo stesso tempo, la filosofia marxista nella “versione Althusser” può essere la porta di accesso per reintegrare le domande e gli oggetti di cui si occupa il marxismo entro le problematiche ecologiste. La cosa è già in essere e gli esempi sono molteplici[9]. Eppure, è forte la reticenza di studios* e attivist* che praticano e pensano nuovi modi del rapporto tra umano e non umano nei confronti di categorie marxiste. Chi riflette intorno al come, cosa e quanto produciamo è sospettoso verso i termini in cui si pone il problema del <<modo di produzione>>, giusto per fare un esempio. Da tutto ciò mi son chiesto: che sarebbe successo se Althusser avesse incontrato la lepre in fuga dal bosco in fiamme per la calura delle ultime estati, le più fredde da qui ai prossimi anni? Di qui, proverò a mostrare che alcuni concetti althusseriani permettono, almeno, di fornire una rappresentazione della crisi climatica, e della pratica politica (trasformativa) corrispondente.

 

Quanto detto finora non è un mero espediente retorico, e nemmeno la sola anticipazione dei temi che vorrei trattare. Mi è stato utile per porre un primo spunto di riflessione riguardante l’epistemologia della giustizia climatica: quali sono i saperi adeguati a produrre teoria all’altezza di una crisi, quella climatica, fatta di tante crisi, sensi e relazioni molteplici, dimensioni umane e non umane? Come si organizza, qual è la tecnica di una produzione teorica che, data la congiuntura, impone alle scienze umane il confronto con ingegneri, lavoratori/trici/Ə, biologƏ, contadinƏ, fisicƏ, saperi bisogni e credenze popolari, meteorologƏ, sociologƏ dell’ambiente? Non ci vuole chissà che ricerca per sapere che nei dipartimenti di filosofia/sociologia/scienze politiche non ci si pone il problema di discutere e teorizzare insieme a chi si occupa di comportamento animale, o di meteo (e viceversa, sia chiaro). A tal proposito, prendiamo per un attimo Spinoza. Nell’Etica troviamo un’idea molto curiosa di “eccesso”. Non è tanto la bulimia o ingordigia del desiderio, ma quel desiderio che si fissa su un unico oggetto. L’opposto dell’eccesso non è la moderazione, ma la varietà. L’eccesso è fissazione nel medesimo, univocità; la virtù, al contrario, è capacità di variazione: <<ciò che dispone il corpo umano sì che possa essere affetto in più modi, o che lo rende atto a modificare in più modi i corpi esterni, è utile all’uomo>>[10]. Non è una questione di metodo: dentro la crisi climatica, dentro la policrisi, si impone l’urgenza di realizzare, in terra, Dio come cosa pensante: <<un essere […] che può pensare infinite cose in infiniti modi, è necessariamente infinito nella sua potenza di pensare>>[11]. Come renderlo possibile? Il tema è complesso e ad oggi mi limito a porre alcune parole di una soluzione tutta ancora da comporre: unendo ragione e immaginazione[12], confrontando idee e saperi pratici uniti a laboratori per la cura del corpo, trasformare la composizione dei gruppi di ricerca universitari, redigere le regole che strutturano gruppi di autoformazione dove è superata l’incomunicabilità tra scienza umane, della natura, saperi tecnico-scientifici e senso comune. Problema di composizione e selezione, ma soprattutto di traduzione e comunicazione, sia tra i saperi coinvolti, sia verso l’esterno.

 

Crisi climatica come contraddizione surdeterminata

 

Il primo concetto che vorrei presentarvi è quello di contraddizione surdeterminata, perché credo fornisca un’ottima rappresentazione della realtà e operatività della crisi climatica. Insomma, un concetto utile a rappresentarci la sua consistenza e funzionamento. Che cos’è una contraddizione surdeterminata? Per definirla, Althusser si appoggia sulla riflessione di Lenin a proposito delle condizioni che hanno reso possibile la rivoluzione in Russia nel 1917: la surdeterminazione è dedotta da una concreta esperienza di pratica politica. Ciò è autorizzato da un principio epistemologico altrettanto leniniano: una situazione di crisi gioca un ruolo rilevatore rispetto alla struttura e alla dinamica di una formazione sociale[13]; dunque, permette di conoscere la natura di ciò che la costituisce (delle sue relazioni costitutive, le contraddizioni, appunto).

 

Attraverso un’ampia selezione di contraddizioni, conflitti e circostanze eccezionali che Althusser recupera direttamente dai rendiconti dell’agitatore della Rivoluzione d’Ottobre – sarà doveroso ritornare sulle scelte e loro connotazione fatte da Althusser per illuminare fino in fondo il significato della surdeterminazione – la prima cosa che ci viene detta è che la Russia del tempo presentava questo <<tratto specifico: l’accumulazione e l’esasperazione di tutte le contraddizioni storiche allora possibili in un singolo Stato>>[14]. Per intenderci: la compresenza del conflitto tra operai e padroni e di conflitti interni alle classi dominanti (borghesi contro lo zar, tra grandi proprietari feudali legati allo zarismo e piccola borghesia con tendenze anarchicheggianti, ecc.); la contraddizione tra lo sfruttamento capitalista nelle città e quello sviluppatosi nelle regioni minerarie e petrolifere più periferiche; la guerra mondiale, e tante altre. Ma non solo. Queste contraddizioni distribuite nello spazio perimetrano un momento storico segnato da una profonda non corrispondenza sul piano temporale, che specifica ulteriormente queste contraddizioni e gli elementi in esse coinvolte. Ad esempio, la contraddizione tra la città e la campagna è, nello stesso momento, la contraddizione tra metodi della produzione capitalistica concentrati nello spazio urbano e forme di lavoro e di proprietà di stampo medievale propri delle zone rurali. O ancora: la Russia pronta alla rivoluzione è un paese <<ad un tempo in ritardo di almeno un secolo sul mondo dell’imperialismo, e alla sua punta più avanzata >> dato che vi agisce il partito comunista dal carattere più avanzato d’Europa: ritardo sul piano del modo di produzione (rapporti e processi di lavoro in parte riferibili al passato medievale), anticipo sul piano delle condizioni soggettive. Insomma, una pluralità di tempi che si aggiunge ad una pluralità di luoghi di applicazione delle diverse contraddizioni. È così posta un primo aspetto della contraddizione surdeterminata: essere accompagnata da una molteplicità di contraddizioni distribuite nello spazio, a loro volta specificate dalla contemporaneità di una molteplicità di tempi. Il concetto marxista di contraddizione esclude l’unicità e l’isolamento della contraddizione.

 

Tuttavia, il concetto marxista di contraddizione, secondo Althusser, non si riduce all’addizione. Muovendosi tra l’ulteriore approfondimento del lavoro di autocoscienza leniniano, la critica al concetto hegeliano di totalità, i testi sulla contraddizione di Mao e diverse lettere scritte da Engels sul rapporto tra struttura economica e sovrastruttura, gli preme sottolineare che negare l’unicità della contraddizione non significa dire che l’accumulazione è una semplice sommatoria: la molteplicità delle contraddizioni è specificata dalla loro eterogeneità. Ogni contraddizione e ogni circostanza sono <<condizioni di esistenza>> delle altre, <<hanno una propria consistenza ed efficacia>>[15], il che significa dire, allo stesso tempo, che queste sono differenti. Infatti, se l’insieme delle contraddizioni proprie di ogni formazione sociale presa nel suo momento attuale non fossero altro che il semplice fenomeno di una contraddizione fondamentale, un mero modo di apparire di un fondamento, queste non sarebbero altro che l’identico di questo fondamento da cui poter astrarre a piacimento, un pulviscolo evanescente, e non le condizioni senza le quali il resto può tenersi. Per intendersi, il contrario dello svolgimento di un’equazione, in cui l’obiettivo è giustificare fino all’identità. Radicando l’eterogeneità delle contraddizioni nell’efficacia propria di ognuna di esse sulle altre, ci avviciniamo a fissare il primo estremo fondamentale di una complessità sociale che opera per surdeterminazione: l’autonomia relativa di ogni contraddizione e la loro efficacia specifica – il secondo, come vedremo più avanti, è la <<determinazione in ultima istanza>> dell’economico. Secondo questo modello:

 

la contraddizione è inseparabile dalla struttura del corpo sociale tutto intero entro cui si esercita, inseparabile dalle sue condizioni formali di esistenza, e dalle istanze stesse che essa governa; […] è cioè bensì determinante ma anche determinata in unico e medesimo movimento, e determinata dai diversi livelli e dalle diverse istanze della formazione sociale che essa anima: potremmo definirla surdeterminata nel suo stesso principio[16].

 

Qui Althusser sta parlando della contraddizione economica, quella in cui si confrontano i rapporti sociali di produzione (il rapporto di detenzione dei mezzi di produzione e di appropriazione del prodotto) e le forze produttive (l’articolazione tra forza lavoro, mezzi di lavoro e oggetto di lavoro – cioè il processo lavorativo). Ma come specifica Althusser nel corso della sua discussione, la surdeterminazione è universale[17]: ogni contraddizione è surdeterminata, dunque specifica e diversa dalle altre per come è determinata e determinante allo stesso tempo. Da qui, Althusser ci conduce ad una conclusione molto importante. Il modo marxista di pensare la contraddizione e la totalità sociale non si gioca nell’alternativa tra contraddizione semplice e contraddizioni plurali, dato che quella semplice, <<la “bella” contraddizione del Capitale e del Lavoro>> –  dice Althusser con ironia – è un’idea astratta che poco ha a che fare con la concretezza di un modo di produzione; anzi, questa alternativa va sostituita con quella tra fasi di inibizione storica e fasi di rottura rivoluzionaria, che sono modi di esistenza della surdeterminazione stessa.

 

Se ci chiediamo che cosa sia la crisi climatica, il concetto di surdeterminazione permette di costruirne una rappresentazione, sia dal punto di vista del suo statuto ontologico (piano della causalità, della determinazione), sia da quello del suo ritmo temporale. Aspetti che approfondiremo negli intermezzi che seguono.

 

 

Intermezzo 1: eterogeneità dei sensi

 

Pensata come contraddizione surdeterminata, il conflitto tra umano e non umano[18] non è l’azione di un’Umanità indifferenziata e astorica, eterna rispetto ai suoi bisogni e modi di procedere, ma il gioco tra strutture non umane, rapporti sociali e di produzione, costituzioni politiche e conflitti, modi di pensare e sentire storicamente determinati; allo stesso tempo, il modo in cui il mondo naturale è corrotto, trasformato in ragione di questi rapporti sociali, agisce, è attivo su questi stessi rapporti, sia quelli economici che quelli politici, per non parlare delle menti, sentimenti e ideologie; in terzo luogo, questa crisi specifica si accompagna ad una molteplicità di crisi e contraddizione. Socialmente e politicamente determinata, efficace e determinante a sua volta, non isolata.

 

Da qui, bisognerebbe porsi il problema della qualità di questa efficacia: cattura, sussunzione, reinternalizzazione del vincolo ambientale? Oppure iniziativa della natura, capacità di trasformare rapporti sociali e la produzione? Oppure brutale travolgimento, apocalisse? Traiettorie di ricerca a mio dire interessanti se condividiamo l’idea che la dialettica, come unità dei contrari e di opposizioni, vada ripensata da cima a fondo con l’entrata in gioco delle potenze ambientali. Piu che entrare in tali questioni per risolverle, vediamo come Althusser può aiutarci a problematizzarle approfondendo ulteriormente l’aspetto della eterogeneità-efficacia introdotto appena sopra. Contemporaneamente, avremo l’occasione di chiarire ulteriormente la capacità di sporgenza del concetto di surdeterminazione in quanto strumento capace di integrare la problematica socio-ambientale.

 

Come abbiamo visto, l’accumulazione di contraddizioni prevede che <<alcune sono radicalmente eterogenee, […] non hanno tutte la stessa origine, né lo stesso senso, né lo stesso livello e luogo di applicazione>>. Se il termine origine richiama la differenza sul piano dei tempi, mentre il livello e il luogo richiamano rispettivamente la distribuzione delle pratiche (economica, politica, ideologica, teorica) e la localizzazione concreta delle contraddizioni, vale a dire la differenza sul piano dello spazio, cosa intende Althusser per differenza sul piano del senso? Occorre qui richiamare un passo di un altro importantissimo intervento di Althusser, intitolato L’oggetto del Capitale. Leggiamo:

 

per ottenere i diversi modi di produzione, bisogna invece combinare questi diversi elementi [forza lavoro, lavoratori immediati, Padroni non lavoratori immediati, oggetto di produzione, strumenti di produzione], ma servendosi di modi di combinazione, di “Verbindungen” specifiche, che hanno senso solo all’interno della natura propria del risultato della combinatoria (la produzione reale) – e che sono: la proprietà, il possesso, la disposizione, il godimento, la comunità ecc. L’applicazione dei rapporti specifici alle diverse distribuzioni degli elementi presenti produce un numero limitato di formazioni[19].

 

Ci troviamo nel luogo in cui Althusser costruisce il concetto di <<modo di produzione>> a partire dalla tesi filosofica della precedenza delle relazioni, e dell’interazione tra più relazioni, sugli elementi in esse coinvolti[20]. QQQQueste relazioni costitutive non sono neutre, ma ben specificate: non semplici combinazioni, ma modi di combinazione, che si specificano in ragione della natura del loro risultato, dei loro effetti. Generalizzando, il senso di una contraddizione è una relazione tipica unita alla sua efficacia (risultato) sugli elementi e sul tutto, perciò: un certo rapporto di determinazione offerto dal modo in cui sono combinati e costituiti degli elementi a opera di relazioni. Se, dunque, le contraddizioni sono eterogenee sotto l’aspetto del senso, nel gioco della surdeterminazione sono implicate relazioni capaci di effetti sugli elementi e sul tutto che seguono logiche e dinamiche non sovrapponibili. Anzi, come dice Althusser, una formazione sociale comprende contraddizioni <<paradossalmente estranee, o addirittura opposte>>. La questione è senz’altro autoevidente: le contraddizioni che operano intorno al processo di lavoro non sono la stessa cosa di una lotta tra forze politiche, ad esempio. Ma è anche sottolineata dal modo in cui Althusser lavora sulle condizioni di una rivoluzione proposte da Lenin, dunque dalle condizioni scelte[21] e da come sono connotate: nell’economico c’è la contraddizione tra metodi capitalistici e sopravvivenze di lungo corso dell’epoca feudale; l’istanza della politica invece è fatta di <<circostanze eccezionali>>, subitanee, di <<scoperte>> istituzionali come i soviet: logica dello sviluppo e della processualità da un lato, logica dell’invenzione e della costruzione dall’altro; logica dello sfruttamento da un lato, logica dell’inimicizia politica e dell’invenzione di nuove istituzioni del conflitto, dall’altro. La capacità di sporgenza è tutta in questa eterogeneità: siamo in presenza di uno strumento concettuale, la surdeterminazione, che apre all’irruzione di contraddizioni dai sensi inediti, come ad esempio il “continente ambiente” con i suoi eventi estremi, processi di rigenerazione, di frattura e ricomposizione tra umano e non umano, con le sue temporalità geologiche. Relazioni e dinamiche di cui non comprendiamo ancora la capacità di affettare il mondo e di essere affettate dalla società. La questione non è meramente teorica – si aprono ponti tra la riflessione di Althusser e le letture dell’autonomia della natura[22], ad esempio, o tra il marxismo e le scienze della natura? Essa è soprattutto politica, perché i modi di combinazione ed efficacia di un ambiente (corrotto) interrogano la maniera in cui si proietta una lotta nel futuro: come si lotta una volta superato l’aumento di un grado e mezzo di temperatura media? Oppure, siamo sicuri che la lotta nella crisi climatica debba soppiantare totalmente quella alla crisi climatica[23], dato che non conosciamo la capacità di rigenerazione o di ritorno ai principi del non-umano? E anche su questo livello che si pone il problema di come cambiamo le istituzioni[24] e di come dovrebbero essere i processi di trasformazione dell’esistente.

 

Intermezzo 2: crisi evenemenziale

 

Adesso spostiamoci dall’essere al tempo. 2008, crisi economico finanziaria e conseguente crisi dei debiti sovrani; 2015/2016 crisi del patriarcato e maree transfemministe globali; 2020, pandemia da Covid-19; 2022, radicalizzazione dello scontro bellico tra Russia e Ucraina, che subito si è fatta “regime di guerra”[25] i cui risvolti globali sono tutt’ora in corso[26]; il moto perpetuo delle migrazioni di massa. Tra le tante, il 2019 è stato l’anno dell’esplosione del movimento climatico globale, che ha innescato un processo altrettanto globale di maturazione della consapevolezza dei rischi climatici e ambientali del nostro modo di vivere. Inoltre, la crisi climatica come contraddizione tra società umana ed equilibri non umani si manifesta come sfondo su cui si proiettano, innescano, inseriscono e giustappongono crisi sociali ed economiche, dell’immunizzazione biologica e belliche ad un ritmo probabilmente inedito, sicuramente spiazzante. Non a caso negli ultimi anni, sia in ambito accademico che militante (ma anche nella politica alta e nei consessi internazionali – dall’OMS all’ONU, fino al WEF di Davos), stiamo assistendo alla proliferazione di molte categorie che cercano di concettualizzare la correlazione tra le molte crisi – economica, sanitaria climatica, militare, nei rapporti tra i generi, ecc. – manifestatesi negli ultimi anni, e che hanno visto nella pandemia da Covid un indicativo momento di addensamento. Indice di questo sforzo intellettuale e discorsivo è la diffusione di concetti come “policrisi”, “sindemia”, “regime di guerra”, “crisi climatica”: concetti che definisce la società capitalistica non tanto come sistema in crisi, ma come sistema di molte crisi,. Partiamo da noi, e da un punto di osservazione occidentale: come abbiamo esperito il cadenzare del tempo negli ultimi 15 anni, e a maggior ragione dal 2019? Il rischio ambientale diventa il centro, la dominante, poi sostituita dall’interruzione pandemica (crisi ambientale a tutti gli effetti, ma con un di più di centralità dell’umano, sia in termini di istituzioni e soluzioni sanitarie che di libertà di movimento); poi la guerra in Europa, il prevalere della geopolitica e degli effetti sul caro vita. E chissà quale sarà il prossimo slittamento. Un tempo in cui la processualità (corso medio-lungo) mostra una necessità in cui direzioni, protagonisti e nuovi prevalenti si impongono e/o sostituiscono senza centro e fini pienamente prevedibili, entro una continua rinegoziazione del nostro orizzonte di attesa, vale a dire di ciò che ci aspetteremmo: schizofrenia della tendenza?

 

Torniamo ad Althusser. Come abbiamo anticipato, secondo Althusser la storia si differenzia tra momenti di inibizione storica e di rottura rivoluzionaria, tra il momento in cui i rapporti sociali si conservano/riproducono e momenti in cui vengono smembrati e ricomposti in forme nuove, entrambi modi di esistenza della surdeterminazione sul piano della diacronia, del procedere del tempo. Piu nello specifico, Althusser concepisce il blocco storico come fase non antagonistica, vale a dire come il momento in cui la <<surdeterminazione della contraddizione esiste nella forma dominante dello spostamento>>[27], cioè la fase in cui assistiamo ad un mero spostamento di maggiore efficacia di una certa contraddizione sulle altre, mero cambiamento quantitativo nella forza di determinazione di una crisi sulle altre. Un modo curioso di intendere una crisi complessiva, perché qui crisi non è “decadenza” o pura stasi, ma la repentina ascesa e sostituzione tra vecchi e nuovi prevalenti. O meglio – ma qui si va un po’ oltre Althusser interpretandolo, visto che la categoria non è ulteriormente approfondita, almeno in Per Marx – l’ascesa e sostituzione di un vecchio prevalente con un nuovo dominante: il gioco tra molte e diverse contraddizioni, che insistono le une sulle altre, può rendere permanente l’esistente, che si conserva proprio perché ciò che accade è semplicemente l’ascesa della maggiore efficacia di una contraddizione. L’immagine, a nostro avviso, è suggestiva perché risuona con il nostro tempo; tuttavia, non è pienamente efficace perché lo spostamento ricade su un centro, mentre l’esperienza che facciamo del nostro tempo ha più a che fare con la continua revoca dello spostamento. È utile, a questo punto, una breve virata su Machiavelli, e il suo concetto di Fortuna.

 

La Fortuna in Machiavelli è tante cose. In generale, è il mutamento del tempo come avvicendamento di accadimenti senza regole certe che circoscrivono un “soggetto” (un uomo, un principe, uno stato, un corpo collettivo) tenendolo nell’incertezza; oppure, un insieme di circostanze plurali date in un certo momento, che Machiavelli chiama <<qualità dei tempi>>, che Althusser traduce con <<congiuntura>>[28]; oppure, circostanze e accadimenti segnati dalla negatività, la Fortuna come incedere di un negativo che travolge e stravolge il punto di vista che con essa si incontra, sia nella forma di eserciti che arrivano dall’esterno, sia nella forma di eventi naturali, come inondazioni o malattie improvvise che ammalano a morte il Principe Nuovo; ma anche l’Occasione, ovvero quella porzione di tempo propizia, anche se pericolosa, brutale, per intervenire sul corso degli accadimenti per adeguarvisi o trasformarne il corso. La Fortuna, però, è anche una certa percezione del tempo, una maniera, storicamente determinata ed efficace, di rappresentarci il tempo. Si guardi l’incipit di uno dei capitoli più famosi del Principe, il XXV, che ha per oggetto il ruolo della Fortuna nelle vicende umane. Citazione lunga, ma merita:

 

e’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate, da la fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino rimedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare ch’e’ non fussi da insudare molto nelle cose ma lasciarsi governare dalla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora da ogni umana coniettura (traduzione in italiano moderno in nota) [in nota, traduzione in italiano moderno][29].

 

Cosa ci sta dicendo Machiavelli in questo passo? I grandi cambiamenti a cui si sta riferendo sono i continui e repentini cambi di fronte nei rapporti di forza militari che ridefiniscono di continuo la potenza e impotenza di città, stati macroregionali, signorie, repubbliche e quant’altro, per effetto degli scontri interni alla penisola o delle spedizioni delle potenze spagnola e francese. Uno sconquassamento continuo, previsto, ma imprevedibile rispetto al tempo e al luogo dell’innesco, e agli esiti: ecco il tempo in cui c’è continua sostituzione dell’entità dominante. Una situazione che per Machiavelli è indice di debolezza degli stati che non hanno armi proprie (eserciti non mercenari), e causa che produce un senso comune secondo cui all’incostanza del tempo, ai continui cambiamenti, alla Fortuna, non si può imporre una direzione, cadendo così nella rassegnazione a non poter che subire le sferzate del tempo. Infine, una situazione di corruzione, cioè di crisi come inibizione storica, come impossibilità di cambiare il piano di gioco con autentiche innovazioni (istituzionali, sociali) per effetto di una ripetizione interminabile di ostilità, o di eventi che superano l’immaginazione, che crea un <<simulacro del mutamento>>[30].

 

Da Althusser a Machiavelli, e ritorno. Cosa abbiamo ottenuto? Incrociando i due autori, una via di accesso per pensare il tempo della crisi climatica come fase di inibizione storica entro una temporalità null’affatto statica, quanto una temporalità in cui opera, paradossalmente, un di più di cose che accadono: una crisi nel segno dell’evenemenziale, una crisi in cui accade di tutto, e tutto può offuscarsi o svanire sotto l’efficacia di nuove circostanze. Una crisi che non è “decadenza” o pura stasi, ma la repentina ascesa e sostituzione: il paradosso di un blocco storico per eccesso di movimento, che sia il presentarsi di una guerra, di un evento climatico estremo, o di un virus che si diffonde per tutto il globo. In secondo luogo, spostandoci su Machiavelli questa idea di crisi è arricchita da altri fattori: 1) che il senso di fatalità, che nei nostri tempi assume l’aspetto dell’Apocalisse climatica o del Terza Guerra Mondiale atomica non è tanto l’immagine/paura del mondo che finisce, ma più propriamente il modo di esistere, sul piano della rappresentazione del futuro, della continua revoca e spostamento di efficacia delle contraddizioni che costituiscono il nostro mondo, dell’essere sovrastati dalla policrisi; 2) che la storia delle società umane è fatta di periodi che si distinguono l’uno dall’altro per il ritmo proprio di quel tempo, tale per cui possono darsi dei periodi storici segnati da un di più di evenemenzialità aleatoria, ovvero di accadimenti che hanno una loro puntualità, evanescenza allo stesso tempo incisiva, e che appaiono e scompaiono entro un di più di imprevedibilità, come la penisola italica a cavallo dei secoli in cui agisce e pensa Machiavelli. Insomma, un modo di intendere la crisi come crisi evenemenziale, e in cui il tasso di evenemenzialità è qualcosa di storicamente determinato.

 

Scorgiamo bene le lacune e una certa dose di afasia del ragionamento appena proposto. Mi limito a mettere le mani avanti esplicitando la percezione che lo guida. Dato che siamo al cospetto di una crisi senza precedenti come quella climatica, bisogna ripensare da cima a fondo il modo in cui intendiamo i “processi” – tempi lunghi, tempi di preparazione, tempi scanditi da una legge di fondo, ecc. – e l’“evento” – temporalità puntuale, accadimento che trasforma radicalmente, oppure affioramento al tutto casuale che semplicemente accade, ecc. – e la loro dialettica[31]. A tal proposito, è altamente suggestivo il concetto elaborato da Balibar di <<evento trascendentale>>[32]. Per quest’ultimo, la storia della filosofia del Novecento può essere canonizzata come <<svolta evenemenziale>>: a differenza del secolo (hegeliano) precedente in cui è il processo – corsi lunghi, tendenze necessarie, coerenza di fondo – la condizione di possibilità e spiegazione ultima degli eventi – momenti puntuali, interruzioni della legge sottostante, contingenza non deducibile da una causalità o da una finalità -, nel pensiero del XX secolo prende forza un approccio che inverte questi termini (Heidegger, Deleuze, Derrida, Badiou, e lo stesso Althusser, ecc.). E di cui siamo figli: <<l’idea di trascendentale è diventata indissociabile dalla sua migrazione dal primato del processo al primato dell’evento, quindi dalla promozione delle categorie della rottura, della contingenza non deducibile da una causalità o da una finalità, o eccedente rispetto alle proprie “condizioni”, dell’irreversibilità, come correlato dell’imprevedibilità, della fatticità come nucleo di realtà irriducibile alla rappresentazione e alla regolarità di una legge o di un racconto>>[33]. L’ipotesi che qui propongo è la radicalizzazione di questa lettura: l’evento trascendentale non è solo un approccio di pensiero, o un criterio di periodizzazione della storia delle idee, ma una svolta storicamente determinata nella grammatica dell’essere attuale; inoltre, tale precedenza dell’accadimento puntuale, o della rottura, o del momento fugace, non pertiene più esclusivamente alla dimensione intersoggettiva – dei rapporti in ultima istanza tra volontà umane – ma si caratterizza per un forte protagonismo della dimensione non umana. Per intenderci, da una prospettiva marxista che si voglia attuale la rottura o l’interruzione non può essere ridotta agli uomini/donne che trasformano il mondo (rivoluzione), o al disfunzionamento del sistema in cui producono e si riproducono (crisi economica), ma deve integrare il ruolo di soggettività non-umane, vale a dire di un’agency incisiva, sia produttiva che distruttiva, non pienamente sovrapponibili all’umano e alle logiche di un sistema sociale pensato con caratteristiche esclusivamente antropiche. Un esempio “sciocco” per capirsi: la sparizione dei coralli per il superamento del +2 gradi trasformerebbe fortemente, se non addirittura radicalmente (in peggio), la vita sul pianeta.

 

Pratica politica althusseriana e pratica politica della giustizia climatica

 

A questo punto, possiamo passare a definire il modello di pratica politica che corrisponde ad una formazione sociale a contraddizione surdeterminata. Non prima di aver chiarito molto brevemente l’altro aspetto della surdeterminazione: l’efficacia reciproca di istanze e contraddizioni si accompagna alla preminenza dell’economico, che è <<determinante in ultima istanza>>. Ciò non significa, come abbiamo visto, che tutto sia espressione lineare dell’economico e che nell’economico si decida tutto, ma che la combinazione di certi rapporti di produzione e il processo di lavoro, nella determinazione con le altre istanze, disloca un maggiore o minore grado di efficacia – <<dominanza>>, appunto – tra le contraddizioni e circostanze, tale per cui può darsi benissimo che l’economico finisca per occupare, in una certa situazione, la posizione di contraddizione secondaria e subordinata rispetto al tutto, rimanendo pur sempre efficace, entro un certo grado, insieme alle altre. È in questo senso che è determinante in ultima istanza, ed è in questo senso che la totalità sociale, in Althusser, è una <<struttura articolata a dominante>>: <<né al primo, né all’ultimo istante, suona mai l’ora solitaria della “ultima istanza”>>[34]. Da qui, nell’articolo Sulla dialettica materialista Althusser deriva una distinzione fondamentale per la pratica politica tra le fasi di

 

non-antagonismo, antagonismo ed esplosione. Caratterizzerei il primo come momento in cui la surdeterminazione della contraddizione esiste nella forma dominante dello spostamento […]; il secondo come il momento in cui la surdeterminazione esiste nella forma dominante della condensazione; e l’ultimo, l’esplosione rivoluzionaria, come il momento della condensazione globale instabile che provoca lo smembramento e la riaggregazione del tutto[35].

 

Intrecciando questo schema con la descrizione offerta da Lenin, come già abbiamo visto la fase di <<non-antagonismo>> (surdeterminazione = forma dominate dello spostamento) è il momento in cui si verifica un mero cambiamento quantitativo, ovvero una contraddizione/circostanza finisce per sostituirne un’altra nella posizione di dominanza – fase in cui la Prima guerra mondiale la fa da padrona; la seconda fase <<antagonismo>> (surdeterminazione = forma dominante della condensazione) è il momento in cui le contraddizioni si accumulano ed esasperano, ovvero la situazione in cui queste si sommano senza legarsi e si aggiungo nuove circostanze, su tutte la scoperta del soviet e l’irruzione del partito comunista più avanzato; ma è anche una fase di ulteriore spostamento, perché la dimensione del conflitto di classe comincia a prendere il sopravvento (con le parole di Althusser, è la fase dei <<conflitti di classe acuti>>). Il terzo momento, <<esplosione rivoluzionaria>>, è quello in cui la condensazione diventa fusione delle contraddizioni che smembra la struttura e la ricompone: <<esse si fondano in una unità di rottura>> il cui essere sta nel <<raggruppare l’immensa maggioranza delle classi popolari nell’assalto al regime>>[36], una vera e propria operazione di riunione delle diverse condizioni soggettive corrispondente alle diverse contraddizioni distribuite nel momento attuale. Da ciò possiamo trarre due conclusioni attinenti alla pratica politica.

 

1. La pratica rivoluzionaria data entro una struttura surdeterminata è un’operazione di congiunzione di contraddizioni e circostanze fino ad allora distribuite: un’attività che opera una convergenza di forze, che siano conflitti, soggetti, forme di organizzazione politica, inizialmente distribuiti tra molteplici contraddizioni, e non una pratica che intensifica una contraddizione singola. Questa congiunzione, però, in Althusser è propriamente una <<articolazione>>: non una messa in rete assolutamente orizzontale in cui la differenza è, al più, nel contenuto di quanto è articolato, ma una distribuzione che si prende intorno a un centro. Questo è valido per la struttura complessiva, per le strutture regionali e quelle particolari (come nel processo di lavoro in cui la posizione di dominanza è occupata dai mezzi di produzione), quindi anche per la pratica politica. Come già accennato, la riunione di soggetti e contraddizioni ha come punto di gravitazione il partito bolscevico <<che fu una catena senza anelli deboli>> e, quindi, <<il mezzo per l’assalto decisivo contro quell’anello debole [la Russia] della catena imperialista>>[37], che fu qualcosa in più dei soggetti e forme di organizzazione delle lotte economiche, come i soviet originari. Quali sporgenze della “pratica politica althusseriana”? La pratica politica surdeterminata pone una differenza tra la distribuzione delle condizioni oggettive (congiuntura) e la congiunzione delle condizioni soggettive (soggetto/i), permettendoci di illuminare – da lontano e, lo ammetto, con leggera forzatura – la differenza propria dei movimenti politici attuali: se la formazione sociale capitalistica è da sempre un sistema di molte crisi/contraddizioni, la differenza dei conflitti di oggi sta proprio nell’enorme sforzo di leggere il proprio ambito di lotta come efficace se e solo se capace di tenere dentro altri ambiti di crisi e conflitto, di pensare la rottura come un’irruzione nella storia in cui una contraddizione non basta a sé stessa. Tuttavia, la corrispondenza tra Althusser e noi non è una coincidenza piena, perché per le lotte attuali l’articolazione rimane un problema. Dico “problema” senza ingiunzioni al dover-essere, o inutile nostalgia; ovvero: non sto dicendo che ci vorrebbe un Partito fantomatico, o un’avanguardia rivoluzionaria che faccia le veci di un messia del XXI secolo – insomma, che “dovremmo fare come hanno fatto in Russia” – o il ritorno del Movimento. L’abbiamo detto, il tempo della crisi evenemenziale è segnato dalla fugacità e dalla revoca, dunque dall’esposizione alla revoca di contraddizioni, soggetti, organizzazioni e di spazi privilegiati per farsi carico di prendere per mano la maggioranza di chi è senza potere a partire da una questione specifica[38]. Dico “problema” per dire che rimane una questione, non nel senso di problema inevaso, ma nel senso di dibattito[39] che c’è stato, e, soprattutto, nel senso di questione che si impone. È imposta dal fatto che siamo esposti a contraddizioni la cui intensità ontologica è capacità di mettere in discussione la vita stessa sul pianeta terra, che oggi riconosciamo nella possibilità di un conflitto atomico e del collasso climatico-ambientale, ma anche in quella nuova banalità del male dei potenti che familiarizzano con i mezzi per migrare nello spazio – che non è soltanto immaginario di science fiction, o delirio di onnipotenza, o nuove frontiere dell’estrattivismo, ma adattamento alla crisi (e paura?) dei ricchi. In questo scenario, possiamo ragionare ancora nei termini di non gerarchizzare le lotte? Credo si debba cominciare a ragionare in termini di <<prevalenti>>, che non sono problemi, lotte e soggetti o ambiti di lotta (istituzioni/mediazione, o piazze) decisivi in ultima istanza, ma un centro, un vettore, che permette di articolare e, allo stesso tempo, potenziare le tante domande e bisogni sociali di libertà e uguaglianza riconoscendo che la differenza tra le urgenze è, congiunturalmente, anche verticale. Facendo comunque attenzione alla frizione tra prevalente e desiderio, cioè chiedendosi, come è solito fare Andrea Ghelfi: “dove cola il desiderio?”. I due aspetti non riscontrano necessariamente in maniera felice. Ragionare in termini di prevalente è provare ad orientare la decisione collettiva verso ciò che ha un di più di importanza, anche a discapito del protagonismo dei propri bisogni – come gli operai metalmeccanici che si spostano su un immaginario e prassi ecologista, o i movimenti che si spostano sul contrasto alla guerra[40] – ma a volte c’è il rischio di perdersi ciò che ci muove per ciò che è decisivo. Potrei fare diversi esempi… Mi limito alla pandemia. Mentre in Italia ci scornavamo sui vaccini, e sulla questione decisiva, prevalente, delle tecniche mediche e/o sociali migliori per garantire la salute collettiva, perdendo tempo, energie e amicizie nella lotta tra responsabilisti e no-vax, nel maggio del 2020 la società statunitense, dopo l’omicidio (di Stato) di George Floyd da parte di un poliziotto, viene letteralmente bloccata da lotte antirazziste che scartano dal prevalente della salute al desiderio della pelle accendendo le viscere e, allo stesso tempo, politicizzando le condizioni di oppressione generate e amplificate a partire da quel prevalente[41].

 

2. In secondo luogo, otteniamo un certo modo di combinazione tra processi istituenti e costituenti, cioè un certo modo di combinazione tra il processo di costituzione di una formazione sociale del tutto nuova attraverso il conflitto con il potere costituito, e quelle forme volte a conservare e organizzare quella spinta di innovazione affinché duri, affinché ci sia riaggregazione successiva allo smembramento[42]. Nel processo di congiunzione che porta alla rottura (processo costituente), un ruolo decisivo è giocato da organizzazioni impersonali che sono innovative e, allo stesso tempo, atte a contendere il potere entro una struttura politica consolidata; capaci, in secondo luogo, di contrastare il potere costituito e, allo stesso tempo, promettere capacità di governo e obbligazione politica (processo istituente). Allo stesso tempo, la <<Russia rivoluzionaria è in ritardo di almeno un secolo sul mondo dell’imperialismo, e alla sua punta più avanzata>>. Vale a dire, la novità politica che guida il processo costituente (la sua punta più avanzata) non è accompagnato da un altrettanto processo di innovazione della sfera della produzione (rimane nel ritardo): la riorganizzazione del processo di lavoro – che qui intendo come “istituzione” dato che serve da condizione di esistenza dei rapporti politici e di proprietà vigenti e/o a venire – è successivo alla “presa del potere” e alla decisione di uscire dalla guerra. Infatti, da un punto di vista storico l’immaginazione e realizzazione del Gosplan – il piano di elettrificazione – si dà nel tempo successivo alla vittoria bolscevica. Si tratta, dunque, di un modello di dialettica tra il costituente – produzione del nuovo, potenza contro potere – e istituente – istituzioni del conflitto entro una costituzione data, promessa di governo – in cui questi processi si trovano avviluppati nello spazio, ma in cui le “istituzioni” politiche ed economiche volte a organizzare, potenziare e far durare le spinte innovative, volte ad esserne la condizione di esistenza, si trovano distribuite nel tempo: sono invenzioni asincrone. Uno schema propriamente althusseriano, dato che per Althusser la trasformazione si gioca innanzitutto nel mondo variegato dell’istanza politica[43].

 

Si tratta di uno schema pienamente sovrapponibile alla congiuntura attuale, a quella in cui il gioco della struttura si caratterizza per lo spostamento di dominanza a favore del conflitto tra società e ambiente, tra umano e non umano? I concetti di Althusser sussurrano una risposta negativa. Se entra in gioco la crisi climatica, il processo costituente deve implicare fin da subito il modo di produzione, dato che il modo di produzione, secondo Althusser, <<è, nello stesso tempo e al contempo, l’unità del rapporto uomo-natura e dei rapporti sociali nei quali si effettua la produzione. Il concetto di modo di produzione contiene il concetto dell’unità di questa duplicità>>[44]. Che cos’è, infatti, un modo di produzione? Dal punto di vista della relazione <<processo di lavoro>>, esso non consiste nel lavoro come capacità assolutamente umana, onnilaterale e creativa, ma la relazione in cui la dominanza spetta alle condizioni oggettive del dispendio di forza-lavoro, vale a dire i mezzi di produzione e l’oggetto di lavoro. Non è, insomma, la maniera in cui l’uomo crea sulla natura, ma la maniera in cui la forza lavoro, anch’essa in parte forza naturale, è determinata dalle condizioni oggettive e naturali: <<il materialismo di Marx presuppone, al contrario, una concezione materialistica della produzione, cioè, tra le altre condizioni, la messa in evidenza delle condizioni materiali irriducibili del processo lavorativo>>[45]. Posizione che suggerisce, nel pensare la pratica trasformativa entro la crisi climatica, l’assoluta sincronia dell’invenzioni istituente politica ed economica di un processo costituente che si vuole ecologista. Attraverso il concetto di modo di produzione, vediamo come il lavoro di Althusser sui concetti di Marx si sporga su alcuni concetti che abbiamo imparato a conoscere nell’ultimo tempo: la convergenza[46], e i movimenti più che sociali/più che umani[47]. Conflitto e progetto, democrazia e produzione: <<isole di comunismo>>, come disse Althusser in scritti più tardi rispetto a quelli analizzati finora, che contravvengono nella e alla congiuntura presente prefigurando e producendo la società dell’avvenire; e che alle mie latitudini abbiamo imparato a chiamare “fabbrica socialmente integrata e sostenibile”: nuovi mezzi di produzione come mezzi di transizione verso nuovi rapporti di produzione, che con l’ “economicismo” hanno poco a che vedere perché sono strumenti di immaginazione, produzione e azione politici.

 

Sull’importanza di unire democrazia e produzione dentro il tempo della crisi climatica ha già speso parole lucidissime Etienne Balibar in una recente intervista di commento alle lotte francesi contro la riforma delle pensioni. Intervista preziosa per le risposte e, ci tengo a dirlo, per la pertinenza delle domande[48]. Il filosofo francese ci dice che la lotta al e dentro il cambiamento climatico è una questione di modo di produzione: non può che essere <<una trasformazione della società industriale>>. Ciò significa una cosa fondamentale, che cambiare il modo di produzione significa cambiare il come, quanto e cosa in termini di produzione di scala, cioè una produzione che, dopo l’affermazione del modo di produzione capitalistico, non può più tornare ad essere indipendente, locale, comunitaria, ma deve anche abbracciare, per essere desiderabile su una base di massa, esigenze di popolazione, infrastrutture pesanti, spazi urbani in cui la rinaturalizzazione e l’autosostentamento agricolo è reso quasi impossibile dall’architettura urbana che ereditiamo dalla forma di vita capitalistica; e che deve organizzarsi per filiere di approvvigionamento ecologiche e solidali, perché non ci sono più microcosmi in cui tutti i territori hanno le stesse risorse per soddisfare i propri bisogni, e in cui l’autonomia energetica non è la continua ridefinizione dei rapporti di approvvigionamento di combustibili fossili tra lo scoppio di una guerra e l’altra. Un tempo si diceva pianificazione, oggi, invece, nominiamola pianificazione democratica. Così la chiama Balibar per dire che oggi non possiamo ragionare in termini di “piano di elettrificazione” dall’alto come per il Gosplan sovietico, ma di una pianificazione che per trasformare il modo in cui viviamo deve <<implicare l’iniziativa di tutta la popolazione dal basso>>. Riflessione suggestiva non perché richiama un’astratta orizzontalità, ma perché pone alcuni nodi decisivi per una transizione autenticamente ecologista. Il primo. Il cambiamento del nostro stile di vita, di come consumiamo, lavoriamo, ci divertiamo, mangiamo, comunichiamo via internet, ecc. – non sto qui a sottolineare l’ovvio che lo stile di vita più impattante è quello delle classi più ricche[49] – non è una cosa da poco, ma allo stesso tempo è chiaro che una società giusta e sostenibile ci obbligherà a rinunciare ad alcuni dei nostri costumi e a molte merci e valori d’uso a cui ci hanno abituati, e a lottare e discutere per un cambiamento materiale e di ciò che desideriamo (ad esempio, rinunciare alla mobilità privata a motore, o questionare l’impatto ambientale della connettività, e così via.). E proprio per questo è necessario che il coinvolgimento sia largo, dalla moltitudine per la moltitudine, per scongiurare un rifiuto di ritorno della transizione, e perché il consumo, come ci dice Marx nell’Introduzione del ‘57, è una determinante della produzione[50]. Il secondo. Il potere capitalistico dimostra un’assoluta difficoltà, o meglio, assoluta incapacità nel governo della crisi climatica, e lo vediamo non solo dal fallimento delle politiche di mercatizzazione della crisi climatica[51] dato il fatto che le emissioni climalteranti hanno continuato a crescere, ma anche dall’inadeguatezza che la classe politica dimostra quando si verificano eventi estremi, come ad esempio l’alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna l’estate scorsa, o la Toscana in tempi recenti: assenza dello Stato nei soccorsi e nella ripulitura, politiche della compensazione economica per beni e salari che è inadatta non solo perché i soldi messi per la riparazione sono stati pochi, ma perché è assurdo pensare che sia sufficiente restituire l’equivalente monetario dei danni che comportano eventi a tal punto estremi da inondare intere città. Questa è la sterilità immaginativa del potere a proposito delle soluzioni: ma pensiamo che basterebbero i soldi, anche fossero miliardi e miliardi, quando piogge eccezionali sfondano le dighe ammazzando e disperdendo almeno 20.000 persone, come successo in Libia? Questa è la Resilienza, questa è l’(in)efficacia delle politiche di adattamento alla crisi: miopia, mancanza di vere e proprie soluzioni, incompetenza direbbero loro. Il terzo. Qual è la fonte di una pianificazione per una transizione democratica? Non può esserlo, vista la vastità del problema, un’avanguardia politica e tecnica che ci offre un piano bello e pronto, ma occorrerà riferirsi a tutte quelle intelligenze e inventori/trici che stanno nei gangli e interstizi del processo di produzione e riproduzione delle nostre condizioni materiali di esistenza, cioè tra i metalmeccanici a cui l’unica prospettiva che viene offerta è il timore della transizione per il solito ricatto tra salute e lavoro; ma anche quelle comunità e fattorie autogestite in cui, anche se nel piccolo, si inventa una nuova agricoltura, un diverso modo di mangiare che può far da stella polare per ripensare la nostra alimentazione e la produzione stessa del cibo; o in quell’ammasso di edifici pubblici e urbani, o i capannoni svuotati dalla deindustrializzazione, che ormai sono lì ma di cui dobbiamo riappropriarci per tappezzarli di pannelli solari e costruire comunità energetiche solidali e pubbliche e comuni; o nelle università, in cui la ricerca deve inventare tecnologie che aggirino il circuito delle materie prime legate all’estrattivismo feroce[52]. La fonte, insomma, è la forza-lavoro. Ed è qui che sta il limite più grande della strumentazione althusseriana vista fino ad ora: nel sottolineare, giustamente, l’aspetto decisivo delle condizioni materiali di un processo di lavoro, finisce per pensare la forza-lavoro entro la struttura economica come più passiva che attiva. Nella crisi climatica, per non parlare dei testi di Marx, una prospettiva anche operaista (in senso largo) è necessaria, e non un’etichetta da agitare per fare battaglie tra parrocchie.

 

Torna qui la frizione. Cola del desiderio sulla pianificazione? L’urgenza di pianificare ci smuove le viscere e ci mette in movimento? Sicuramente non allo stesso modo, e con la stessa durata, della capacità di interpellazione che hanno le questioni e movimenti transfemministe[53] ed LGBTQIA+ sulla soggettività contemporanea, e da cui bisogna continuare ad imparare per dar gambe, massa, affetti ai progetti di transizione dal basso; e sicuramente occorre che sappia integrarsi con quel rifiuto verso l’estensione a tutta la durata delle vita dell’estrazione di plusvalore assoluto manifestatosi nelle proteste francesi contro la riforma delle pensioni, e far sfogare politicamente lo sciopero disorganizzato delle grandi dimissioni[54]. Tuttavia, questa frizione tra piano e desiderio non è un limite, ma un compito: produrre un desiderio di pianificazione democratica, per pianificare il desiderio futuro. Con ogni strumento necessario, sia pubblico che comune.

 

NB

La prima bozza dell’intervento è stata presentata durante il Retreat Eco-Spinoza tenutosi al Podere Testalepre lo scorso settembre. Ringrazio il Ghelfi e Martina per aver garantito le condizioni di riproduzione di quel momento, e Andrea, Domenico, Alberto e tutt* i partecipanti di quella due giorni in cui siamo stati mente collettiva. I concetti non sono mai una mente isolata, soprattutto in questo caso.

 

Note

 

[1] La biografia di Althusser è segnata dall’aver ucciso la moglie, e questo femminicidio pesa sulla sua memoria e mette in posizione scomoda anche chi scrive su di lui e con lui. Tutto ciò non deve essere negato, né obliato, né ridimensionato dal percorso psichiatrico che lo ha accompagnato nell’ultimo capitolo della sua vita.

[2] Balibar definisce il circolo di Althusser come costellazione https://youtu.be/1Yb50Drd1vk?si=B4bxoHgJQU-R6Lo4&t=6194.

[3] Balibar, Introduzione alla riedizione del 1996, in Althusser, Per Marx, Mimesis, 2008, pp. 10-12.

[4] Non che sia desiderabile, ovviamente. Rimane il fatto della marginalizzazione delle materie umanistiche classicamente intese: esse sono addirittura escluse da questa possibilità, perché non garantiscono accesso certo a un lavoro in grado di restituire il debito.

[5] Si veda l’ultima riforma dell’abilitazione all’insegnamento che aumenta da 24 a 60 i cfu in materie demo-etno-antropologiche per poter accedere ai percorsi di abilitazione, per di più con l’obbligo a iscriversi a corsi che possono raggiungere il costo di 2500 euro.

[6] Balibar, La filosofia e l’attualità: oltre l’evento?, in Rita Fulco, Andrea Moresco (a cura di), Sull’evento. Filosofia, storia, biopolitica, Quodlibet, 2022, p. 110.

[7] Riccardo Manzotti, Il pensiero creativo è malato?, leggibile qui https://www.doppiozero.com/il-pensiero-creativo-e-malato.

[8] Un lavoro certamente interessante per riavvicinare filosofia e questioni ambientali è la tesi di dottorato di Paolo Missiroli, Il posto del negativo. Un’antropologia filosofica per l’Antropocene.

[9] Per una rassegna agile e introduttiva e quindi utile, rimando a Jacopo Nicola Bergamo, Marxismo ed ecologia. Origine e sviluppo di un dibattito globale, Ombrecorte.

[10] Etica IV, prop. 38.

[11] Etica II, prop. 1, scolio.

[12] Sul rapporto tra immaginazione e ragione in Spinoza si veda Andrea Moresco, Cosa può l’immaginazione?, leggibile qui  https://www.philosophie.ch/it/2023-07-10-moresco.

[13] Althusser, Per Marx, p. 92, nota 21.

[14] Per Marx, p. 87.

[15] Ivi, p. 91.

[16] Per Marx, p. 92.

[17] Per Marx, p. 104.

[18] Per chiarezza, Althusser non parla della natura come se fosse una regione relativamente autonoma della formazione sociale, cosa che qui, invece, stiamo ipotizzando come espediente formale per traslare la concettualità althusseriana su problematiche ecologiste. Ciò non toglie che Althusser pensi la natura in termini di surdeterminazione, come in Per Marx, p. 182.

[19] Althusser, L’oggetto del Capitale, in Leggere il capitale, Mimesis, 2006, p. 248, corsivi miei.

[20] Morfino, Il concetto di causalità strutturale in Althusser.

[21] La questione è macroscopica. Ad esempio, per sviluppare il suo ragionamento Althusser non recupera e discute il ruolo attivo dei soldati per la riuscita e durata della presa del Palazzo d’Inverno.

[22] Sul concetto di “autonomia della natura”, rimando alla riflessione, in due parti, di Davide Gallo Lassere: parte 1 https://www.leparoleelecose.it/?p=40486; parte 2  https://www.leparoleelecose.it/?p=40711&.

[23]Come sostenuto da Alberto Manconi qui https://www.dinamopress.it/news/sta-emergendo-un-immaginario-ecologista-e-di-classe-intervista-ad-alberto-manconi/. Condivido l’idea che ci troviamo già nella crisi climatica, ma condivido meno che il passaggio sia netto.

[24] Molto interessante l’intervento di Thomas Lemke, Governare il melieu. Per una biopolitica più-che-umana, in Sull’evento, cit.  A partire dal concetto di ambientalità in Foucault, Lemke fa una critica filosofica delle istituzioni della resilienza, vale a dire delle politiche di mero adattamento alla crisi climatica.

[25] Raul Sanchez Cedillo, Esta guerra no termina en Ucrania, Katakrak, 2022. Qui un’intervista all’autore che sintetizza i concetti alla base del libro  https://www.dinamopress.it/news/linvasione-russa-ha-spezzato-la-spina-dorsale-della-sinistra-europea/.

[26] Mentre questo articolo era in fase di editing, è tornato sulla scena il conflitto in Palestina.

[27] Althusser, Per Marx, cit., p.189.

[28] Althusser, Machiavelli e noi, Manifestolibri.

[29] Machiavelli, Il Principe, cap. XXV, corsivo nostro: “mi è ben noto che molti hanno pensato e pensano che le cose del mondo sono governate dalla fortuna e da Dio, in modo tale che gli uomini, con tutta la loro saggezza, non possono modificarle, e anzi non possano opporvi nessun rimedio; e da ciò si potrebbe dedurre che non valga la pena di affaticarsi, ma che convenga lasciarsi governare dalla sorte. Questa opinione si è diffusa in particolare nei nostri tempi per i grandi cambiamenti che si sono visti e si vedono accadere ogni giorno, ben al di là di ogni umana immaginazione”. Traduzione presa da testo a fronte curato da Donzelli e Pedullà dell’edizione Donzelli del Principe uscita nel 2013.

[30] Così Marchesi, Riscontro. Pratica politica e congiuntura storica in Machiavelli, Quodlibet, pp. 265-277, commentando i libri delle Istorie Fiorentine in cui Machiavelli comincia a trattare il regime di guerra che si dispiega sulla penisola italica tra Quattro e Cinquecento.

[31] Consiglio vivamente di immergersi nella lettura della collettanea curata da Rita Fulco e Andrea Moresco Sull’evento. Filosofia, storia, biopolitica (Quodlibet, 2022), uscito a ridosso della congiuntura pandemica.

[32] Balibar, La filosofia e l’attualità: oltre l’evento?, cit.

[33] Ivi, p. 118.

[34] Althusser, Per Marx, cit., p. 104.

[35] Ivi, pp. 188-189.

[36] Ibidem.

[37] Althusser, Per Marx, cit., p. 89.

[38] Per intenderci, si pensi all’effetto che l’irruzione della pandemia, almeno in Europa, ha avuto sull’espansione del movimento per la giustizia climatica.

[39] Come quello in vista della mobilitazione “Convergere per insorgere” del 22 ottobre 2022, Bologna, che si può recuperare qui: https://bologna22ottobre22.indivia.net/2022/10/04/che-cose-convergenza-appello-per-tre-momenti-di-confronto/. Qui invece due voci del dibattito: una qui, l’altra qui 

[40] Come nel corteo nazionale del 2022 di Non Una di Meno in Italia.

[41] Sulle molteplici poste in gioco – razziali, sociali e politiche, ma anche temporali e spaziali – dall’insurrezione statunitense del maggio 2020, si veda ad esempio Tony Iantosca, «Who are is how we are. Black Lives Matter at the disciplinary society’s breaking point», in Radical Philosophy, volume 24/2, 2021, p. 199-223.

[42] Riprendo la distinzione da qui https://www.testalepre.farm/ecologia-e-filosofia/testalepre-retreat-2023-ecospinoza/.

[43] Interpretazione che deriviamo dal luogo in cui Althusser distingue tra lotte economiche e lotte politiche in Per Marx, p. 188.

[44] Althusser, L’Oggetto del Capitale, cit., p. 246.

[45] Ivi, p. 245.

[46] Analizzata in questo articolo di Andrea Moresco https://www.dinamopress.it/news/diteci-che-cosa-stiamo-sbagliando/, e nella postfazione di Lorenzo Feltrin ed Emanuele Leonardi al piano di reindustrializzazione degli ex operai GKN scaricabile qui https://fondazionefeltrinelli.it/schede/ebook-piano-ex-gkn/. Qui una video-presentazione del piano del collettivo Exploit_Pisa: https://www.youtube.com/watch?v=37_VwhTtMRg&t=47s.

[47] Andre Ghelfi, La condizione ecologica, Edifir, 2022.

[48] Qui l’intervista a Balibar https://www.globalproject.info/it/mondi/francia-insurrezione-democratica-e-nuova-invenzione-istituzionale-intervista-al-filosofo-etienne-balibar/24426.

[49] A tal proposito, si guardi l’intervento di Zamponi e Custodi, Creare consenso per salvare il mondo: un ambientalismo per il 99%, in Tecleme (a cura di), Guida rapida alla crisi climatica, Castelvecchi, 2022, un libretto molto utile per introdursi ai temi della giustizia climatica.

[50] “Una produzione determinata, dunque, determina un determinato consumo, una determinata distribuzione, un determinato scambio ed i rapporti determinati di questi diversi momenti tra di loro. Necessariamente, anche la produzione, nella sua forma unilaterale, è, a sua volta, determinata dagli altri momenti”. Cit. presa da qui: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1857/introec/introec2.htm.

[51] Come dimostrano i lavori di Emanuele Leonardi, in particolare L’era della giustizia climatica, Orthotes, 2023 (con Paola Imperatore).

[52] Una bella riflessione sul rapporto tra abitudini di consumo, tecnologia, forza-lavoro e crisi ecologica, rimando a Guillibert, Éxploiter les vivants. Un’écologie politique du travail, Editions Amsterdam, Parigi, 2023. Su Le parole e le cose, la traduzione in italiano dell’introduzione.

[53] Si pensi all’incontenibile marea transfemminista che lo scorso 25 novembre ha scosso l’Italia al grido “Bruciamo tutto”.

[54] Coin, Le grandi dimissioni, Einaudi, 2023.

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