a cura di Laura Pugno



Tavola dei nomi e delle materie è un nuovo ciclo di interviste a scrittori e scrittrici, su un loro libro.

A ognuno di loro assegnerò una materia reale o immaginaria – sappiamo che è la stessa cosa –, visibile o invisibile, astratta o concreta, che il loro libro mi evoca, e chiederò di commentare questa scelta.
A ogni scrittore o scrittrice, poi, chiederò di scegliere un nome, alias di parlare di qualcuno, qualcosa, reale o immaginario – anche qui –: luogo o persona, soggetto umano animale vegetale minerale o all’incrocio di tutti questi mondi, del presente o del passato, o addirittura del futuro, che fa parte della materia del libro o che è stato determinante nell’innescare o nel far compiere il processo creativo che ha portato al libro stesso.

Laura Pugno


Ecco la tua materia

 

Benedetta Fallucchi, in L’oro è giallo (Hacca edizioni), la tua materia è l’esausto del corpo. Come hai lavorato tra necessità/essenza e scarto/scoria per decidere cosa doveva fare parte, e cosa no, di questo libro?

 

L’oro è giallo tematizza lo scarto, il rifiuto, ciò che viene espulso dal nostro corpo nonché metaforicamente ripudiato dalla società. L’operazione di selezione del materiale adatto a confluire nel testo ha assunto per me una duplice valenza: di contenuto e meta-testuale. Quanto al primo aspetto, ho lavorato imponendomi di mantenere sempre fissa l’idea della funzione fisiologica dell’urinare, come una torcia da seguire senza farsi irretire dal buio dalla notte. Questa idea doveva essere al centro del libro, non qualcosa di accessorio, come a volte capita nelle letture (per dire, Joyce nell’Ulisse scrive una divertente pagina su Leopold Bloom che espleta i suoi bisogni dedicandosi alla lettura del giornale, così come Roth dedica parecchi passaggi all’incontinenza del suo alter ego ormai invecchiato, Nathan Zuckerman). Volevo che la luce della narrazione fosse sempre accesa su quei momenti che di solito non hanno sufficiente dignità per entrare dalla porta principale della scrittura. Anche a rischio di incorrere nel ridicolo, mi ero posta come sfida quella di soffermarmi sugli istanti intimissimi in cui ciascuno di noi è alle prese con quello che tu hai chiamato “l’esausto del corpo” – peraltro si tratta di gesti talmente tanto frequenti che, a poterli quantificare, occuperebbero molto del nostro tempo da vivi, così come per il sonno. L’impellenza che preme, la fretta di abbassarsi i pantaloni, l’imbarazzo provato nei bagni pubblici. Volevo provare ad ascoltare il “corpo succulento”, secondo la definizione di Barbara Duden. Mentre scrivevo, mi andavo ripetendo, pomposamente e ironicamente al contempo, che volevo riabilitare un organo negletto: la vescica. Altre porzioni anatomiche si sono guadagnate la ribalta letteraria: il cuore, ovviamente; il cervello; persino gli organi sessuali; per non parlare delle descrizioni di viso, mani, piedi, gambe, glutei, cioè di tutto ciò che il corpo espone più o meno liberamente allo sguardo. Mi interessava allora oltrepassare questa soglia, attraversarla, dedicarmi al “quinto quarto” in letteratura, le frattaglie, i tagli non pregiati. Ho cercato di puntellare la mia scrittura attraverso le riflessioni, non visibili nel racconto ma presenti sottotraccia, di coloro che si sono occupati di argomenti apparentemente triviali come gli umori del corpo o il bagno pubblico in quanto luogo culturalmente e politicamente denso di significati; sono inevitabilmente incappata nell’antinomia puro/impuro, e mi sono fatta accompagnare da alcune considerazioni dell’antropologa Mary Douglas e del sociologo Norbert Elias. Nel suo Purezza e pericolo Mary Douglas propone una disamina delle nostre nozioni di sporco e pulito (ovviamente applicandola a molti ambiti, non solo a quello delle deiezioni). Lo sporco è categorizzato in modo differente a seconda delle varie culture ed è sempre considerato un’offesa verso l’ordine, una minaccia per le opposizioni consolidate (maschile/femminile, umano/animale, privato/pubblico). Eppure, proprio per questa sua natura ambigua, l’impuro torna come elemento vivificatore e sovversivo (pensiamo al sangue nei riti sacrificali). Mi aveva colpito molto ciò che sostiene Mary Douglas quando asserisce che ogni cultura è come un giardino in cui ci sono delle erbacce: se si tolgono tutte le erbacce il suolo impoverisce; il giardiniere deve mantenere la fecondità restituendo ciò che ha tolto. Questo è ciò che alcuni rituali religiosi fanno: restituiscono ciò che è stato tolto trasformando le erbacce in concime. Quanto all’aspetto meta-testuale, le rappresentazioni artistiche della minzione contenute nel testo erano sia il correlato oggettivo dei rituali religiosi di cui parla la Douglas – quindi una maniera per parlare di quella fertile ambiguità – sia, soprattutto, uno scarto rispetto al testo, scarto stavolta inteso come uno spostamento laterale della narrazione, utile – spero – a non farla soffocare nell’ambiente maleolente e asfittico del bagno.

 

 

Scegli il nome

 

Chi, o cosa, è stato determinante, per te, per dare forma alla serie di atti volontari e involontari che hanno strutturato L’oro è giallo, o per far compiere il percorso che ti ha portato a scrivere questo libro?

 

Ho scelto un libro come nume tutelare per L’oro è giallo, anzi per la precisione ne ho scelti due, concentrandomi su alcuni specifici aspetti di essi: Il Male oscuro di Giuseppe Berto e La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Due romanzi estremamente dissimili tra loro per stile e intenzioni; eppure entrambi ruotano intorno ad alcuni nuclei tematici (la morte del padre, le fissazioni del protagonista, l’intemperanza del corpo) che, specie nel caso di Berto, sono stati il volano per me per la stesura del mio libro. In particolare, leggendo il Male oscuro ero rimasta colpita dalla vividezza di certe descrizioni della voce narrante allorché si verifica un episodio di ematuria. Avevo trovato quei resoconti di esami, di rapporti con i medici, quelle descrizioni di cliniche e primari, particolarmente avvincenti, tanto più perché costantemente innervati dal dubbio relativo all’effettiva natura della malattia, sempre passibile di essere derubricata ad affezione dell’anima prima ancora che del corpo, e quindi scrutinata più con le categorie dello spirito che non con quelle della scienza.  Berto mi aveva aperto alla possibilità di raccontare questo genere di indicibile. E mi aveva anche riportato indietro nel tempo, al romanzo che tutti affrontiamo forzatamente alle superiori, ovvero La coscienza di Zeno. E lì avevo ritrovato, guardandolo ora come un oggetto nuovo, il celebre passaggio in cui Svevo parla della “macchina mostruosa”. La macchina mostruosa non è altro che l’atto del camminare, un congegno complicato che si mette in moto ogni qual volta camminiamo, e senza che noi ce ne avvediamo. Appena però appuntiamo il pensiero su quell’atto così naturale, ci dice Zeno Cosini, è come se ci mettessimo letteralmente d’intralcio a noi stessi: «(…) Tullio si era rimesso a parlare della sua malattia che era anche la sua principale distrazione. Aveva studiato l’anatomia della gamba e del piede. Mi raccontò ridendo che quando si cammina con passo rigido, il tempo in cui si svolge un passo non supera il mezzo secondo e che in quel mezzo secondo si muovevano nientemeno che 54 muscoli. Trasecolai e subito corsi con il pensiero alle mie gambe a cercarvi la macchina mostruosa. Io credo di averla trovata. Naturalmente non riscontrai 54 ordigni ma una complicazione enorme che perdette il suo ordine dacché io vi ficcai la mia attenzione. Uscii da quel caffè zoppicando e per alcuni giorni zoppicai sempre. Il camminare era divenuto per me un lavoro pesante, e anche lievemente doloroso. A quel groviglio di congegni pareva mancasse ormai l’olio e che, muovendosi, si ledessero a vicenda. Pochi giorni appresso fui colto da un male più grave di cui dirò e che diminuì il primo. Ma ancora oggi, che ne scrivo, se qualcuno mi guarda quando mi muovo, i 54 movimenti si imbarazzano e io sono in procinto di cadere». Ecco, in queste righe per me c’era il nucleo dell’operazione che volevo mettere in atto con la minzione: parlare di un atto, come il passo, di cui diamo per scontata la fisiologia, salvo che qualcosa vada storto, che compaia una malattia, o si metta di traverso un’ossessione. In queste poche righe c’è anche lo sguardo dell’altro: l’altro ci scruta, ci studia, ci controlla, sottopone il nostro corpo a un giudizio – e tutto questo mi pareva tanto più cruciale in una storia raccontata da una voce femminile. Ed era anche importante che questa voce narrante, proprio perché femminile, non eccedesse, non esagerasse, non fosse la voce del pazzo, per citare il commento di Emanuele Trevi quando sostiene che Berto, a differenza di Svevo, “fa parlare il pazzo”, ovvero mette in scena la nevrosi con un’operazione mimetica. Nel caso di L’oro è giallo, già il tema è di per sé eccessivo, e l’ostensione dolente delle viscere in bocca a una voce narrante femminile avrebbe rischiato di essere una lamentazione piagnucolosa. Meglio rimanere nel lato del controllo, senza precipitare del tutto nell’affabulazione dell’angoscia. La voce narrante perciò non può che essere quella di una donna che odia stare al centro del palcoscenico, vuole solo tornare dietro le spesse tende del teatro, e dire la sua da lì dietro.

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