di Andrea Sartori
In cosa consiste il fraintendimento con cui dal ‘900 a oggi abbiamo compreso la modernità in Italia? Come qualificare il malinteso riguardante l’essere o non essere moderni, un malinteso riprodotto anche al di là dell’Atlantico, sebbene in altro modo, soprattutto in certi settori dell’accademia statunitense che ancora si (auto)definiscono tramite il suffisso post-?
Secondo Giuseppe Lupo, la risposta è probabilmente da cercare nella chiarificazione di ciò che Elio Vittorini intendeva nel 1961 quando, sul quarto numero del menabò, dedicato al rapporto tra letteratura e industria, scriveva che per gli autori italiani la fabbrica era in fondo un mondo estraneo, anzi, un “mondo imposseduto” (La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana, Marsilio, 2023, pp. 80, 97, 206). Vittorini infatti rilevava che quel mondo veniva sì accostato dagli scrittori italiani, ma con intento perlopiù descrittivo, da romanzo naturalista ottocentesco, alla stregua d’un documento, se non umano, ‘industriale’ (la raccolta Documenti umani di Federico De Roberto venne pubblicata per la prima volta nel 1888).
Vittorini, all’epoca, ovvero all’inizio degli anni ’60, quando il boom economico era in corso, poteva associare retrospettivamente il “mondo imposseduto” della fabbrica a un romanzo (neo)realista come Tre operai di Carlo Bernari, del 1934 (che comunque aveva allarmato Mussolini al punto da imporre la censura sul suo autore), ma anche al poemetto La ragazza Carla di Elio Pagliarini (apparso dapprima in frammenti su Nuova corrente nel 1959). Tuttavia, quel che è forse più interessante è che Vittorini non poteva non fare implicito riferimento anche a narrazioni che lui stesso (assieme a Italo Calvino) aveva ‘ammesso’ all’Einaudi nella collana dei Gettoni, tenendo così a battesimo proprio la letteratura industriale. I malintesi, infatti, sono tanto più pervasivi (e interessanti da districare) quanto più irretiscono anche noi, che ne siamo fino a un certo punto consapevoli. È il caso, ad esempio, di Tempi stretti (1957) di Ottiero Ottieri, che Vittorini aveva accolto nei Gettoni, e delle relative descrizioni dei colpi battuti milioni di volte, con fatica e monotonia, nelle officine di Sesto San Giovanni, appena fuori Milano. Forse è una simile versione del ‘realismo della percezione’, appiattito sul dato immediato, istantaneamente udibile e visibile, a far dire a Vittorini che quel tipo di romanzi e di cultura non erano il modo giusto di ‘possedere’ il mondo dell’industria, di trovarne una ragione, il senso profondo e vero. Come ha recentemente sottolineato Jim Carter, per Vittorini nel 1961 era ora di smettere di cercare, nella narrazione dell’industria, la mera consolazione per l’intellettuale deluso (“For a New Humanism: Literary and Cultural Debate in Il Menabò di letteratura”, C. Baghetti, J. Carter, L. Marmo, a cura, Italian Industrial Literature and Film, Peter Lang, 2021, pp. 61-75).
Leggendo il libro di Lupo viene il dubbio che, se riuscissimo a sbarazzarci del (perdurante) equivoco del ‘naturalismo’ di fabbrica, capiremmo che la compensativa e nostalgica immagine d’una Italia crociana e pasoliniana, abbarbicata ai propri borghi, è in fondo la stessa che vediamo riflessa – simmetrica e capovolta – nello specchio americano (Vengo dai ruderi, dalle Chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / dimenticati sugli Appennini o le Prealpi, così Pasolini in Poesia in forma di rosa, del 1964). Quello specchio di solito ci parla di realtà che crediamo ancora di là da venire. Tuttavia, come possiamo non cogliere, nel fascino assoluto e totalizzante che la narrativa di Elena Ferrante esercita oltreoceano, lo stesso incanto di natura affettiva, ‘dilavato’ nell’Atlantico, che i ruderi, le chiese, le pale d’altare e i borghi esercitavano su Pasolini sessant’anni fa? Oggi, a essere davvero pasoliniana, e quindi nostalgica della purezza, è l’audience americana, solo che per afferrare questa ‘verità’ e collocarla nel suo tempo bisogna prima mettere in luce il malinteso sotteso alla percezione di che cosa sia davvero moderno, includendo di necessità in tale chiarificazione i due termini – il pre- e il post-moderno – che si comprendono solo a contrasto con il primo. Se Bruno Latour, nel 1991, sosteneva che non siamo mai stati moderni perché esserlo davvero comporta la capacità di riconoscere il carattere inevitabilmente ibrido della natura e dell’artificio – senza nostalgie da un lato, né fughe in avanti dall’altro (Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, 2018) – Vittorini potrebbe similmente avere invitato, allorché la modernizzazione in Italia ‘esplodeva’, a ‘entrare’ sul serio in un mondo che doveva saldare e integrare in un’unica geografia, anche interiore, il paesino appenninico e l’hinterland milanese.
Lupo non lo dice esplicitamente, ma tra le pagine di La modernità malintesa si fa strada l’idea che oggi il binomio moderno/post-moderno non abbia più senso, in uno scenario che è globalizzato dal punto di vista economico e transnazionale dal punto di vista culturale, senza essere però semplicemente in-differenziato. Infatti, ora che la Cina affronta a modo proprio la modernizzazione capitalistica, le consuete dicotomie tra Vecchio e Nuovo Mondo, Nord e Sud, eliotiana wasted land del progresso e paradiso perduto e incontaminato, appaiono tanto desuete quanto l’idea che, in una qualche parte del globo – post-coloniale e post-moderna – i problemi della modernità e delle differenze che vi co-abitano siano stati superati.
All’ingenuità della pretesa di Pasolini di salvare l’autenticità dalle presunte macerie del progresso fa da specchio, in altre parole, l’altrettanto ingenuo slancio con cui negli Usa s’abbraccia l’ ‘impresa’ e si corre verso la frontiera, nella direzione di quella vibrazione di felicità, la cui promessa è inscritta nella dichiarazione dei diritti istituzionali redatta in primo luogo per la Virginia da George Mason, e poi da Thomas Jefferson nella dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776. Quanto pericolosa e potenzialmente catastrofica sia questa ingenuità ‘bifronte’, è testimoniato, da un lato, dagli esiti oscurantisti del pasolinismo reazionario e, dall’altro lato, dall’appetito colonizzatore dell’‘impero’, quando in esso scricchiolano le garanzie democratiche.
Un ventiquattrenne Adriano Olivetti, appena laureato al Politecnico di Torino, mostrava di capire, a Providence, in Rhode Island, dove si trovava su direttiva del padre Camillo, la natura problematica e parziale della percezione che negli Usa si aveva della modernità. L’11 ottobre del 1925, nella città industriale del New England, Providence, appunto, Olivetti scriveva infatti che gli americani “hanno delle splendide qualità industriali e commerciali, ma scarso medio spirito riflessivo, culturale” (La modernità malintesa, p. 248). Lo “spirito riflessivo” o, come lo stesso Olivetti scriverà il mese dopo, la “qualità di pensiero” (ibidem), sono ciò che anche per Vittorini avrebbe finalmente consentito di prendere possesso del mondo reale, moderno, senza separare in ambiti schizofrenicamente scissi la produzione e la solidarietà, il taylorismo di fabbrica e le conquiste civili.
Tuttavia così non è stato, né per l’Italia, né per gli Usa, se l’una e gli altri hanno dislocato nei rispettivi ‘altrove’ il proprio ‘sogno’ di felicità: la prima proiettando ogni volta oltreoceano la speranza in un fresh start, i secondi delocalizzando in Italia il desiderio, per così dire, d’un amore mai vissuto. Solo nella tradizione è il mio amore, scriveva infatti Pasolini in Poesia in forma di rosa, e la “tradizione” di Pasolini era fatta di ruderi e chiese che negli Usa non ci sono, se non trasfigurati, forse, negli Italian Studies o, in maniera più significativa, nella cura e nello studio dei manoscritti lì conservati.
Eppure, proprio nei cosiddetti Italian Studies, ovvero nella ‘culturalizzazione’ dell’Italia, s’annida un altro equivoco, anzi, lo stesso malinteso circa la modernità, che era stato messo a fuoco dal giovane Olivetti per quanto concerneva gli Usa, e poi da Vittorini per l’Italia. L’equivoco, in altri termini, d’una modernità mal percepita.
Nel 1985, allorché le Humanities nei campus americani s’apprestavano a essere ‘colonizzate’ da un approccio alla ricerca denominato Cultural Studies, Don DeLillo pubblicava proprio negli Usa un romanzo dal titolo White Noise, un romanzo che denunciava come il moderno, in determinate circostanze, fosse stato equivocato in quanto ‘disincarnato’ culturalismo, ovvero come un’intelligenza in cui Humanities e STEM (per stare all’ambito accademico) hanno finito per guardarsi in cagnesco, con grande sofferenza della prima, più che altro.
In un brano del suo libro, DeLillo ridicolizzava con preveggente ironia quel che poi si sarebbe puntualmente verificato in una parte consistente dell’accademia americana votata alle scienze umane, benché, fortunatamente, non nella sua totalità. Nel campus di College on the Hill, scriveva DeLillo, non si studia più letteratura, il focus della ricerca è infatti transitato dai literary studies a temi maggiormente pop e allegri, più moderni e nuovi, come l’analisi approfondita del significato delle etichette delle scatole di cereali. Insomma: l’advertisement e il suo white noise tanto invadente quanto ottundente sul piano percettivo. Quale satira più appropriata di quella di DeLillo, per descrivere, sessant’anni dopo il giudizio articolato d’un ventenne d’Ivrea, lo splendore del management e dell’efficienza produttiva dei College on the Hill odierni (le “splendide qualità industriali e commerciali” di cui scriveva Olivetti), a fronte, però, della loro povertà di “spirito riflessivo”, e della poca “qualità” del loro “pensiero”?
Lo studio del nesso tra letteratura e industria, soprattutto per quel che riguarda gli anni del boom economico in Italia, che Lupo svolge ne La modernità malintesa, permette di guardare con nuovi occhi al ruolo che l’economia ha avuto e ha nella produzione culturale italiana. Questo studio, d’altra parte, fornisce una prospettiva di cui l’italianistica d’oltreoceano può trarre vantaggio, se l’approccio orientato ai Cultural Studies che in essa pare predominante benché non esclusivo riuscisse a dismettere il proprio pregiudizio antiscientifico. Tale pregiudizio, infatti, come è stato afferrato da Olivetti e Vittorini, blocca la ricerca e la scrittura in una fenomenologia di superficie dei fenomeni culturali, livellandola sulla descrizione impressionistica dei vari modi in cui la realtà è percepita, e ostruendo così l’ingresso alla realtà stessa, inclusa la comprensione dell’articolata struttura del suo (della realtà) impulso economico. In tal modo, è come se, detto addio al marxismo, il libero mercato fosse divenuto un dato naturale da descrivere dal di fuori, senza conoscerne, dall’interno, il movente economico e la sua logica, nonché il peculiare ‘impasto’ d’economia e coscienza, anche al di là del lamento d’impronta lukacsiana riguardante la reificazione della coscienza stessa.
I protagonisti, perlopiù dimenticati o sottovalutati, che Lupo convoca nel suo La modernità malintesa, sono tanti, e ognuno di essi meriterebbe una rilettura, non per guardare indietro ma per guadare in avanti. La figura di Olivetti, l’imprenditore umanista, è tutta da riscoprire, liberandola dall’ipoteca del paternalismo che le è stata attribuita. Uno studio approfondito, dopo l’attenzione riservatagli ad esempio da Luciano Anceschi, meriterebbe l’ingegnere e poeta Leonardo Sinisgalli, fondatore nel 1953, su incarico di Giuseppe Luraghi, della rivista La civiltà delle macchine. Per essa scrissero, tra gli altri, Giuseppe Ungaretti, Carlo Emilio Gadda, Alberto Moravia, Enzo Paci. Di Sinisgalli è l’intuizione secondo cui la pubblicità e il copy-writing sono animati dal demone dell’analogia, ovvero da una metaforicità che è letteraria, ma anche, appunto, ‘demonica’, decaduta, e in questo senso ‘verticale’, dotata d’una sua ‘pesantezza’ economica: poetica e insieme mefistofelica.
Tuttavia, la figura forse più emblematica del nesso tra letteratura e industria in Italia, tra le molte ricordate da Lupo, è quella di Giovanni Pirelli. Quest’ultimo, da “fuoriuscito” dell’industria (La modernità malintesa, pp. 283-291), lasciò al fratello minore Leopoldo, dopo un sofferto scambio epistolare con il padre Alberto, la guida del gruppo imprenditoriale di famiglia.
Giovanni Pirelli fu autore di romanzi, tra cui L’altro elemento (1952, pubblicato nei Gettoni dell’Einaudi) e curatore delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945), per Einaudi, nel 1951, e delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea, sempre per Einaudi, nel 1954.
La predilezione per la forma epistolare anche in narrativa, unitamente a uno stile latamente kafkiano, singolarmente onirico, furono ciò che indispose soprattutto Calvino nei confronti di Pirelli come scrittore, determinandone lo scarso successo editoriale, nonché l’esclusione dal numero del menabò del 1961, in cui Vittorini fece riferimento al mondo industriale come “mondo imposseduto” dalla letteratura.
Lupo sembra però suggerire che proprio una scrittura come quella di Pirelli, quasi da realismo magico, sospesa e disorientata tra realtà e allegoria, poteva essere il modo giusto per ‘possederlo’ davvero, il mondo dell’industria. Forse Calvino, rigettando Pirelli, rigettava allora gli aspetti kafkiani della propria stessa scrittura – aspetti messi recentemente in rilievo da una studiosa americana, Saskia Elizabeth Ziolkowski (Kafka’s Italian Progeny, Toronto UP, 2020) – in nome d’una rivendicata aderenza al neorealismo, anche se forse solo di facciata?
Comunque sia, Lupo tratteggia, nel caso di Giovanni Pirelli, lo splendido ritratto d’un “intellettuale in perenne lotta con sé stesso” (La modernità malintesa, p. 283), dentro e fuori l’industria, dentro e fuori la modernità, la realtà stessa, in modo da poterla cogliere in prospettiva e non solo in superficie, con uno sguardo e una scrittura che sapessero abbracciarla sul serio.
Lupo, analizzando in particolare una lettera che Giovanni scrisse alla sorella Elena il 10 agosto 1949, ricostruisce il perdurare nel “fuoriuscito” dei postumi della guerra, d’una “intensità” (ibidem, p. 289), scrive Giovanni alla sorella, di cui egli aveva fatto esperienza proprio durante il conflitto, e che secondo lui andrebbe riversata anche nella letteratura. Lo strano realismo, da sogno, della sua scrittura, rendeva ragione della ricerca di quell’ “intensità”? Per ora non è dato saperlo, anche perché gli studi su Giovanni Pirelli non abbondano. Tuttavia Lupo ha buon gioco nel mettere in rilevo che nelle lettere di Pirelli aleggia il rischio di un “fallimento”, di un “sentimento che la letteratura conosce da almeno mezzo secolo e conduce a una diagnosi che nel Novecento assume il nome di inettitudine, male di vivere, male oscuro, depressione” (ibidem).
Si tratta di un sentimento che la modernità, specialmente d’impronta americana, ha allontanato da sé e dalla propria “qualità di pensiero”, per riprendere l’espressione di Olivetti del 1925. Esso è quindi un sentimento che una modernità consapevole non può ignorare (non può non provare a ‘possedere’), stando però attenta a non farsene travolgere, in una desolante e desolata distesa di chiese e borghi diroccati. Quest’ultimo è un rischio per ovviare al quale, d’altra parte, le “splendide qualità industriali e commerciali”, osservate da Olivetti a Providence, possono venire in soccorso, contribuendo a integrare in un’unica immagine l’Appennino e la metropoli d’oltreoceano.
“Chiarificazione di ciò che Elio Vittorini intendeva nel 1961 quando scriveva che per gli autori italiani la fabbrica era in fondo un mondo estraneo, anzi, un ‘mondo imposseduto”'(…) Vittorini infatti rilevava che quel mondo veniva sì accostato dagli scrittori italiani, ma con intento perlopiù descrittivo, da romanzo naturalista ottocentesco, alla stregua d’un documento, se non umano, ‘industriale’.”
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Per procedere a questa chiarificazione occorre risalire a monte per cercare di spiegare che in Vittorini “il presente vince sempre”.
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Vittorini: la necessità di essere contemporaneo
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Numerose sono le dichiarazioni di Vittorini da cui traspare un forte desiderio di seguire il flusso continuo del presente. Scrivendo a Vasco Pratolini, Vittorini ritorna sul tema del carattere provvisorio della verità. E lo fa in una maniera non si potrebbe più chiara: “Ho un’idea della verità come di cosa che cambia continuamente e che continuamente bisogna aggiornare (…)”.
Non si contano le occasioni in cui Vittorini ribadisce la necessità per lo scrittore di girare le spalle al passato, aderire al presente, essere in sintonia con le idee contemporanee. Una sua frase soprattutto racchiude, in una maniera che non potrebbe essere più chiara, questa sua passione per il presente. “La letteratura è già così poca cosa – dichiara in un’intervista del 1965 – A che può servirci se non sa rivelarci, attraverso le sue stesse forme, di che specie di mondo siamo contemporanei?”
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Una letteratura in ritardo rispetto alla realtà tecnologica, economica, industriale.
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Vittorini ritiene che lo scrittore possa giungere all’espressione della verità solo rappresentando tutti i livelli della realtà ed esprimendo i continui mutamenti di essa. L’avvento della civiltà industriale, per esempio, non gli sembra abbia modificato la maniera, il linguaggio attraverso cui gli scrittori rappresentano la realtà. Tale maniera, asserisce Vittorini con tono critico, ha ancora un carattere romantico e naturalistico.
Vittorini elabora e rielabora questi concetti, contrapponendo, direi ossessivamente, il vecchio e il nuovo, le idee vecchie e quelle nuove, l’ordine vecchio e l’ordine nuovo, l’arcaicità alla modernità, l’arretratezza alla nuova realtà, la realtà “naturale” che per lui è statica, alla realtà delle fabbriche e delle aziende che è invece dinamica. Il letterato è in ritardo, è il grido di allarme di Vittorini per il quale il pericolo più grande per chi scrive è di farsi distanziare dal presente.
Ne “Le due tensioni” egli denuncia lo sfalsamento e sfasamento della letteratura che, secondo lui, dalla prima metà dell’ottocento è “in ritardo” nei confronti della realtà. Questa letteratura, egli scrive, “ha bisogno di una nuova tensione razionale” attardata com’è a degli schemi “contadino-settecenteschi”. Essa è rimasta sorda alla creatività scientifica, alla “nuova fisica, la nuova biologia, la nuova psicologia”. In definitiva, non ha saputo rompere con le strutture tradizionali per creare nuove strutture.
Il rischio è che la cultura umanistica, ancorata ad “un’antica visione del mondo”, rimanga indietro rispetto alla trionfante avanzata della scienza. Vittorini esprime tale idea facendo ricorso a delle immagini da cui trapela la costante contrapposizione tra il passato inerte e il trionfante presente: “E intanto l’abisso tra le due culture si allarga – la scientifica procede col mondo nuovo protagonista e agente di esso – l’umanistica resta ferma al punto in cui non volle seguire la scientifica – e da vecchia che era diventa a ogni generazione più acidamente decrepita.” Quest’ultima “è ormai la cultura di una stirpe che vive ad esemplificazione del passato come i pellirosse delle riserve indiane, tra i fantasmi di piante scomparse, fantasmi di animali scomparsi, in funzione di un’umanità e di una società scomparse.”
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Ma in che modo si potrà far aderire la scrittura alla realtà contemporanea? Attraverso un nuovo linguaggio.
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Vittorini è convinto che lo stile e il linguaggio della letteratura tradizionale, ormai logori e inariditi, siano incapaci di penetrare la realtà più profonda delle cose. Infatti, lo stile di scrittura tradizionale immobilizza la realtà in ciò che essa ha di apparente e di scontato. Per riuscire in questo difficile compito di rappresentare la verità più profonda della realtà, occorre scoprire un nuovo linguaggio: il “linguaggio movimento”. Vittorini cercò nell’invenzione di un nuovo modulo espressivo, ossia in una rinnovata struttura del discorso, lo strumento capace di aderire alla nuova società industrializzata. Egli si illuse che fosse sufficiente un rinnovamento stilistico per poter rappresentare “il mondo delle fabbriche”, come si esprimeva. Ma il linguaggio particolare, di tipo poetico, di Vittorini si scontrava con le esigenze del romanzo con le sue strutture più ampie, la sua complessità, i suoi numerosi personaggi, la sua coerenza d’insieme.
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L’America come presente
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L’America, proprio perché terra del presente, terra dell’azione, terra di città ideali, è per Vittorini l’anti-Sicilia, isola per lui quintessenza delle plaghe arretrate.
Per Vittorini, la civiltà americana è la più alta perché è la più moderna, anzi la sola contemporanea. Per lui, le altre, quale più quale meno, sono in ritardo e appartengono quindi al passato. Non deve sorprendere che la civiltà degli indiani d’America, apparendogli particolarmente inerte, chiusa com’è in schemi ancestrali, non susciti in lui alcuna simpatia. Gli amerindi, come popolo, dovevano sembrargli meritevoli della stessa sprezzante noncuranza che riservava, in letteratura, agli autori di opere “consolatorie” (come Verga o Tomasi di Lampedusa), ai quali muoveva l’addebito di legittimare, con le loro opere, una realtà retrograda.
La ricerca di questa realtà “più vera”, se così si può dire, caratterizza il romanzo sperimentale moderno e presenta una particolare ricchezza di tentativi di soluzione nella letteratura americana, aperta a tutta una serie di sperimentazioni di stile e di linguaggio. Il fatto stesso che la lingua americana, rispetto a quella italiana, presenti una straordinaria duttilità espressiva grazie anche agli apporti dello slang – al quale però Vittorini fu molto meno sensibile di Pavese – la rende più atta a questo tentativo di esprimere l’inesprimibile.
La letteratura, per Vittorini, è “verità” se è “viva”, cioè se aderisce al presente.
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Robinson Crusoe
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La fiaba di Robinson Crusoe lo affascina: “Tagliato fuori dalla società, ridotto sopra un’isola deserta nelle stesse condizioni del primo uomo subito dopo la creazione, egli non si abbandona ad una vita interiore e contemplativa. Agisce, lotta per l’esistenza, accumula provvigioni, si circonda di arnesi utili, si accanisce a ricostruire tutte le invenzioni pratiche dell’umanità.” Ecco, in poche parole, condensata la formula del progresso civile, del dinamismo, di come animare il deserto, vincere l’inerzia e la solitudine, far trionfare la “rivoluzione” nel senso particolare di progresso che Vittorini dà a questa parola. Il pensiero di Vittorini non si è mai stancato di riandare al mitico naufrago e alla sua isola di fiaba. In essa, infatti, avviene la catarsi della tensione vittoriniana dovuta al conflitto tra la volontà di incidere fattivamente sulla realtà, di essere agente di cambiamento attraverso una letteratura “rivoluzionaria”, d’implicarsi attivamente nel mondo, e la tendenza a rifugiarsi nel sogno, nell’infanzia, nella fiaba.