di Antonio Devicienti
Si considerino i versi seguenti coi quali si apre il volume La terra di ferro e altre poesie (1971-1992) di Pasquale Pinto (Marcos y Marcos, Milano 2023): «Io non cammino più / sulle tue pietre greche / Taranto dei Dori / né il tuo odore d’uva a settembre / basta a bruciare / il vento che separa» (A Taranto, ivi, p. 17) e si considerino anche le parole di Pinto stesso in una brevissima prosa leggibile anch’essa nelle prime pagine del libro : «Io non vi porto alcuna certezza, ma forse qualche probabilità che la vita, l’amore, la morte possano anche passare per queste vie.Poetare oggi è già ai limiti dell’audacia e dell’assurdo.
[…]
Scrivere versi […] è stata forse sempre una gran fesseria» (ivi, p. 19).
Si è davanti, lo si constata immediatamente, a una lucida coscienza sia della propria posizione intellettuale che storica, per cui la definizione di “poeta operaio” che sbrigativamente si potrebbe cucire addosso a Pinto va meglio definita e inquadrata perché la sua indubbia conoscenza delle scritture che l’hanno preceduto e il suo lavoro sullo stile e sulla lingua (evidente alla lettura dei testi) fanno emergere un’opera che giustamente Stefano Modeo ha studiato, apprezzato e curato per questa pubblicazione che l’Editore Marcos y Marcos con lungimiranza e generosità ha voluto dare alle stampe.
Pubblicata in edizioni come si suol dire semiclandestine e introvabili, rimasta per lo più sconosciuta e ignorata, la poesia del poeta tarantino Pasquale Pinto ha adesso un’ottima occasione per essere letta e presa in considerazione; a parte strumenti critici come il risvolto di copertina firmato da Fabio Pusterla (il quale molto opportunamente scrive di «Poesia operaia, dunque: a patto che l’espressione non si raggeli in una gabbia troppo stretta e divisiva; perché […] soltanto poetica, nel senso più ampio e più alto del termine, è poi la distillazione estetica e conoscitiva» dell’esperienza in fabbrica), l’esauriente e fine introduzione di Simone Giorgino e la nota finale di Stefano Modeo (già apparsa proprio sulle Parole e le cose come articolo a sé il 24 giugno 2020 https://www.leparoleelecose.it/?p=38661), elementi tutti che in maniera efficace rendono giustizia all’opera di Pinto, è ovvio che al centro dell’attenzione di chi legge devono essere i versi che coprono l’arco temporale tra il 1971 e il 1992.
Pinto non è un poeta “istintivo” o “selvaggio” come da un po’ di tempo si ama definire con etichette fuorvianti e prive di fondamento critico molti poeti d’origine salentina (Toma, Ruggeri, per esempio…), ma, radicato da un lato nella propria identità tarantina, ha piena coscienza del dibattito sia culturale che politico in atto in Italia tra gli anni Settanta e Novanta, è poeta con una formazione da Liceo classico e con la determinante esperienza di dipendente dell’Italsider di Taranto dal 1964 al 1990.
Tanto basti per leggere testi che nulla hanno d’improvvisato o di naif, ma che, anzi, già in quella sorta di congedo ce sono i versi citati all’inizio di quest’intervento, dichiarano la consapevolezza dello iato tra un passato e un presente, tra la Taranto magnogreca e la città ionica industrializzata, iato che, mi sembra, impronta di sé tutta l’opera di Pinto (intelligente anche questa scelta di Modeo di porre in limine al libro proprio un moto di congedo e di distanziamento da una realtà pur amata e forse rimpianta, circostanza che da subito suggerisce la complessità di quanto si andrà successivamente a leggere).
Non calpestare più le greche pietre della Taranto dei Dori significa infatti avere coscienza dell’impossibilità (anche per ragioni etiche) di un poetare rimanendo arcadicamente ancorati a un paesaggio e a mitologie ormai superati e sconfessati dalla nuova fase economica e storica; se è vero che il centro nevralgco del libro è il poemetto La terra di ferro del 1992 totalmente incentrato sul lavoro operaio nell’acciaieria, è altrettanto vero che gli stilemi e le immagini del poemetto vivono una sorta d’incubazione già nelle raccolte precedenti, perché si ha l’impressione, a leggerne ora l’intera opera, che Pinto abbia disegnato una complessa parabola che approda a una poesia infine interamente consacrata alla vita in fabbrica.
Si legga, a mo’ d’esempio, Mi toccherai a pagina 25:
Mi toccherai
lievemente sulle mani
come l’ultimo gabbiano
ferito da sguardi di vetro
camminando sul chiarore dell’alba
un giorno qualunque
con il nome da portare alla fine
Come un uccello
che a sera
chiude il suo petto
sui fili del telefono
L’impiego del verso libero e la pronuncia chiara e definita caratterizzano la scrittura di Pinto, ma si noti l’immagine dell’uccello che «chiude il suo petto / sui fili del telefono» la quale potrebbe essere considerata un’embrionale manifestazione della tematica particolarmente centrale nell’opera tarda del poeta tarantino, dal momento che l’uccello viene messo in relazione (come sarebbe da tradizione lirica anche di marca scolastica o, comunque, ben poco avvertita del presente) non con un altro elemento naturale (un ramo, per esempio), ma con un artefatto della tecnologia quali sono i fili del telefono: in qualche modo lo sguardo di Pinto, così sensibile al paesaggio naturale del Tarantino, già ne scorge i segni del presente che sta intervenendo a mutare in maniera radicale quello stesso paesaggio.
Tema ricorrente è la morte (quella propria, più volte immaginata, e quella che rende costantemente presenti alla memoria quotidiana persone cui si è stati legati per vincoli familiari o amicali), Leitmotiv spiegabile anche con la provenienza culturale e psicologica da una terra come il Meridione d’Italia fortemente caratterizzata da tradizioni relative al pianto funebre rituale e altrettanto fortemente ferita per secoli dall’elevata mortalità, specialmente nelle fasce di popolazione più misera – e si vedrà come i versi ispirati alla fabbrica siano a loro volta dolorosamente e ripetutamente segnati dalle morti di molti compagni di lavoro e come i riti del lutto dovranno confrontarsi con la mutata condizione esistenziale, dal momento che il lavoro in fabbrica cambia radicalmente anche il rapporto dell’individuo e della comunità con l’esistenza e con i codici tramandati che quell’esistenza (ivi compresa la morte) regolavano o, almeno, rendevano accettabile.
Scrive Pinto: «Come morirò? / Su una sedia? / O di fronte ad uno specchio? / Gli specchi ripetono sempre / le morti degli uomini / Alle 2 servirete la cioccolata / I morti vivono di usanze» (Come morirò?, La terra di ferro, cit., p. 26). Si osservi come “la cioccolata dei morti” sembri immediatamente rimandare a un verso di Vittorio Bodini («o che scalda sul gas la cioccolata dei morti» in Morta in Puglia, da La luna dei Borboni e altre poesie, Mondadori, Milano 1962) e che l’affermazione secondo cui i morti vivrebbero di usanze, nel paradosso dei morti che “vivono” (ma è chiaro: essi vivono nella memoria dei sopravvissuti) di “usanze”, ben dichiara la consapevolezza del peso e dell’importanza del rapporto tra vivi e defunti in quanto regolato da antichissime tradizioni (non a caso dalle radici anche magnogreche); bodiniana potrebbe essere anche l’immagine seguente: «C’è una nudità di rami / che cerca il suo sangue in un tramonto» (C’è una nudità di rami, La terra di ferro, cit., p. 30), immagine che ricorda gli altri versi bodiniani «Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud / un tramonto da bestia macellata. / L’aria è piena di sangue» (da Foglie di tabacco, in La luna dei Borboni, cit.). Opportunamente Simone Giorgino segnala le suggestioni da Quasimodo e da Gatto presenti nella scrittura di Pinto, non escludendo Pavese, mentre Modeo ricorda l’attenzione per Pinto da parte di Giacinto Spagnoletti, Libero De Libero, Michele Pierri e Giorgio Caproni; tutto questo vuol dire che negli anni in cui Pasquale Pinto scriveva (e per scrivere ovviamente anche studiava gran parte dei suoi contemporanei) pur nella perifericità culturale della regione salentina (dalla quale non bisogna disgiungere né il Materano né il Barese) egli affinava l’espressività della propria poesia dedicandovisi, come già dimostrano i versi a Taranto e la brevissima nota Io non vi porto alcuna certezza, né a cuor leggero, né senza una probematizzazione e del ruolo e della natura della poesia che non è mai approdo pacificante o idilliaco (anzi!) – da parte mia non escluderei letture pasoliniane, fortiniane, volponiane, anche se per averne definitiva certezza occorrerebbe naturalmente poter avere accesso al patrimonio librario privato del poeta (se esso ancora esiste) o a note di lettura autografe (se, anch’esse, esistono). Da lettore della Terra di ferro posso immaginare il clima politico e culturale durante il quale è maturata la scrittura di Pinto e anche per questo mi sono convinto di quanta consapevolezza il poeta avesse del dibattito in atto e di quanto in lui la poesia fosse irresistibile polo attrattivo, ma anche, data la realtà in cui egli era immerso, di quanto al contempo essa gli apparisse problematica, pericolosamente escapiste.
In tal senso si può comprendere il dialogo diretto intrapreso con Giorgio Caproni e con Giacinto Spagnoletti; scrive nella strofa conclusiva del componimento indirizzato al primo: «Quaggiù mi ascoltano / le vene degli amici / il dovere degli orologi nelle piazze / e questa notte in cui mi accingo / a ridare ogni parola ai miei morti» (Lettera al poeta Giorgio Caproni, p. 32) – Pinto scorge in questa sorta di dovere etico la giustificazione della propria poesia, sente su di sé una storia millenaria cui dare voce e rendere giustizia (torna ancora l’immagine e il tema dei “miei morti” – altrove si legge: «Ma forse ho solo parole / per dare ad ogni morto il suo nome» – p. 58), la notte è tempo-luogo (se si vuole in linea con la tradizione lirica occidentale) della meditazione, della memoria e della scrittura, mentre richiamerei l’attenzione sull’emergere dell’immagine delle ”vene” che nel prosieguo della produzione pintiana diventerà sempre più insistita assieme al tema connesso del sangue, significando entrambi sia l’empito vitale che la perdita della vita, sia i legami interpersonali (familiari e amicali e di colleganza sul lavoro) che il rapporto col mondo.
A Giacinto Spagnoletti (anche lui Tarantino) Pinto indirizza versi capaci di comprendere la nostalgia di chi è lontano dalla propria terra d’origine; è come se il poeta, pur non lontano fisicamente da Taranto, attraverso la scrittura facesse esperienza di una distanza che è, in realtà, quanto va accadendo proprio a seguito dell’industrializzazione della città e del suo territorio costretti a rinnegare, senza transizioni e men che meno armonizzazione, il proprio passato (processo che porterà a enormi traumi ancora oggi evidenti e irrisolti): «Saranno forse queste stelle ferite / […] / che stasera mi portano madri / parlare a mezza bocca / di un figlio che si perde queste lune // […] // Certo ricorderai / con che piacere la luna / galleggiava nei bicchieri degli amici // Ricorderai anche un bimbo / portare nei calzini / l’erba a passeggio nel Sud» (a Giacinto Spagnoletti, La terra di ferro, cit., p. 90). La luna (le lune al plurale, altro elemento spesso reiterato nei testi di Pinto), l’erba, le lampare dei pescatori sullo Jonio, le cave di tufo, i gabbiani (ci sono molti gabbiani nel libro) e il Sud sono ulteriori spie linguistiche (e immaginali) di un discorso in poesia che conosce una lunga fase di transizione; se il tema del lavoro e delle lotte sindacali è ben presente in un autore come Rocco Scotellaro che a sua volta potrebbe essere stato un punto di riferimento per Pinto, ebbene tale tema è ancora legato, nel poeta lucano, alla realtà dell’economia pressoché esclusivamente agraria del Sud e, in Pinto, esso dovrà attendere di subire quella che appare come una svolta radicale anche a livello tematico: l’impressione è che Pinto abbia dovuto aspettare gli ultimi anni di attività lavorativa per far irrompere in maniera totale il lavoro operaio dentro la propria scrittura; l’incubazione della poesia dell’ultima stagione (mi sia consentita quest’espressione) fa nascere versi come i seguenti: «I miei cavalli / hanno zoccoli antichi / le loro fughe / avvertite solo / all’alba» (Sono l’ultimo brumista, La terra di ferro, cit., p. 38) e pare di avvertire l’eco del quasimodiano «sulle pietre batte il piede dei cavalli» da Ora che sale il giorno, ma brumista è termine lombardo che, ancora una volta, potrebbe alludere a una condizione di esilio (interiore) dalla terra natia; se Pinto scrive «Ho parole non mie» (La terra di ferro, cit., p. 55) è perché lo abita la consapevolezza di doversi conquistare una lingua; infatti «C’è una luna su una terrazza / ferita da programmi televisivi» (ivi, p. 67) e in una poesia ricca di lune accese nelle notti meridionali anche questo è indice della consapevolezza del mutamento in atto.
Gli uomini nei testi di Pinto hanno «le cicatrici silenziose / slabbrate dai dialetti» (ivi, p. 69), talvolta passano lunghe melancoliche ore rassegnate in ospedale ed è lì che infermiere pietose e umanissime illuminano versi sospesi tra malinconia e dolcezza; a tal proposito ecco un’altra spia linguistico-immaginale, una sorta di anticipazione anche in termini lessicali della poesia pintiana a venire: «O bianche donne silenziose / dalle mani d’operaie / sì d’operaie / avete raccolto tutti i miei morti / sul vostro lenzuolo più bianco / e avete pianto in silenzio nel bagno / accanto ai termosifoni già spenti / […] / Contadini / la mia razza misura ancora / tutti i vostri solchi / Il vostro sudore è raccolto / sotto il mio costato» (La terra di ferro, cit., pp. 73 e 74) – l’autore esplicita il dato antropologico fondante della svolta industriale del Tarantino, vale a dire il fatto che i contadini, alla cui “razza” egli stesso appartiene, diventeranno operai e persino le infermiere cui rimane l’atavico compito di ricomporre i morti e di piangerli (ancora il pianto rituale, dunque) hanno mani da operaie (si noti la ripetizione, quasi a voler rassicurare il lettore che non ha capito male o a voler confermare un concetto che potrebbe apparire strambo o azzardato); i «termosifoni già spenti» sono un altro indice dei tempi “nuovi”, sostituiscono il focolare delle case contadine, ma, a ben pensarci, anche il pianto solitario nel bagno denuncia il passaggio inesorabile dal pianto comunitario a quello dell’individuo solo e isolato. Queste morti avvengono, poi, in ospedale («C’è un’infermiera per tutti» ibidem, p. 73) e il bianco di divise e lenzuola sembra aver sostituito il nero del lutto tradizionale «oggi che i vivi si nutrono di carne / impacchettata di nylon» (ibidem, p. 74) e dopo che il poeta ha «visto in un market / crisantemi con rugiade artificiali / e garofani di plastica / turbarsi per l’odore di una mano» (La terra di ferro, cit., p. 64).
Non mancano testi di tema amoroso nei quali la donna amata (Marilena) è il “tu” col quale imbastire un dialogo che coinvolge tutta la realtà circostante, è un amore in tensione continua, anch’esso appassionato e non pacificato e che potrebbe essere l’esplicitazione dell’amore nutrito per la propria terra dura e difficile, eppure amata con trasporto totale.
Fino a qui (da pagina 17 a pagina 90) la prima parte del volume, costituita dai testi compresi nelle raccolte In fondo ad ogni specchio (1976), Il capo sull’agave (1979), Siamo uomini (1977), La scatola di endovene (1978), Frammenti senza titolo (1978).
Da pagina 95 a pagina 116 si legge il poemetto eponimo del volume cui seguono tre testi rimasti allo stato di frammenti.
Nel poemetto La terra di ferro (1992) Pinto sperimenta, sia a livello espressivo che concettuale, la ricorrente figura retorica della comparazione tra la condizione del lavoro in acciaieria e situazioni o immagini derivate dal mondo naturale ricorrendovi sistematicamente sia in quanto la ritiene irrinunciabile per la scrittura in poesia, sia perché sente il bisogno di una rappresentazione il più possibile chiara ed evidente della condizione operaia; ma, nello stesso tempo, tutto questo comprova quanto il suo tematizzare il lavoro industriale necessitasse di un linguaggio nuovo – nuove erano, per la poesia di Pinto, ma anche per l’intera poesia meridionale, le situazioni da rappresentare, mentre si osservi come fin dagli anni Cinquanta poeti, scrittori e intellettuali (tra di loro non pochi provenienti dal Mezzogiorno, ma operanti nel Settentrione) avessero dato vita a un intenso dibattito sul rapporto tra letteratura e industria e intorno alla condizione operaia – ma i vari Vittorini, Sinisgalli, Roversi, Pasolini, Fortini, Calvino, Pagliarani, Roversi, riviste come Il menabò, Quaderni piacentini, Civiltà delle macchine sono legate alla realtà del Nord molto più che al Mezzogiorno.
In qualche modo Pasquale Pinto è costretto a cercare (e trova) una strada personalissima che possa condurlo a una scrittura in versi efficace in rapporto al tema della condizione operaia.
A tal proposito può validamente soccorrere quanto scrive Italo Testa riflettendo sul rapporto tra la poesia e il proprio presente: «[…] il presente è tutt’altro che una gabbia d’acciaio, un orizzonte perfettamente determinato nella sua inoltrepassabilità. C’è, in una condizione di transizione, un alto grado di indeterminatezza, e di apertura, che richiede attività esplorative, come la poesia, in grado di abitare luoghi eventuali, di elaborare mappe di paesaggi ignoti, inventando soluzioni d’esistenza che non sappiamo ancora decifrare». (Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Interlinea, Novara 2023, p. 13); ebbene, Pinto esplora sia la possibilità che la necessità di una poesia che dica il lavoro nell’industria e, diversamente per esempio dal Sereni di Una visita in fabbrica, il suo è sguardo non di visitatore (per quanto intenzionato a capire), ma di lavoratore dotato di sguardo analitico e di coscienza civile; sempre Testa scrive infatti: «Riversandosi nel mondo, lo sguardo poetico quantifica ciò che esiste, ma in vista di ciò che non è dato: non solo in vista di un’esigenza o di un obiettivo futuro, rinviato nel tempo, ma in direzione di qualcosa che non potrebbe mai esistere, e che proprio per questo non è rinviabile» (Autorizzare la speranza, cit., p. 32) – si leggano allora in quest’ottica i versi iniziali del poemetto:
Un operaio
è caduto l’altro giorno
da un altoforno
70 metri
sempre in giù
sempre più giù
verso la terra dei vivi
salutata finalmente dal cielo.
La loppa tiepida
ha ripreso a fumare
col sangue delle narici.
Un tecnico
forse del Nord
forse del Sud
pieno di vita come il sole
gli si è chinato
con le mani di una madre
con le mani di tutte le madri
che attendono sugli usci gialli
come terra la pioggia di settembre
(La terra di ferro, cit., p. 95)
Pinto, cioè, dicendo in versi (e subito in apertura del poemetto) un incidente sul lavoro (ma l’intero testo è punteggiato da episodi simili) strappa via tutta la poesia da lui finora composta dal legame con il paesaggio non ancora modificato dalla presenza dell’acciaieria, esprime subito la tragica negatività della situazione lavorativa di cui le numerose cosiddette “morti bianche” sono la ritornante acme, la carica del lessico necessario a dire il nuovo (il “non dato” di cui scrive Testa, “altoforno”, “loppa tiepida”), la proietta verso l’esigenza futura di dire quel precipitare verso terra (il paradosso di andare incontro alla morte cadendo in giù verso la terrra dove sono i vivi) – la morte del lavoratore e il gesto pietoso del tecnico sono il non rinviabile della poesia che, in tal modo, consegna alla coscienza di chi legge il dato della condizione disumana del lavoro operaio. Si noti come persista, tuttavia, la presenza allusa delle madri in attesa e quanto forte sia il contrasto tra le espressioni cariche di positività «pieno di vita come il sole» e «come terra la pioggia di settembre» e il dato di fatto del tutto negativo della morte dell’operaio – ma Pinto ha pietà per ogni vita stroncata in fabbrica, compresa quella animale: «Un cane è morto / schiacciato da un carrello / senza un gemito / per la sua morte senza nome. / una zampa indica un punto / verso nuvole indaffarate in grigio» (La terra di ferro, cit., p. 108) – ma sono tutte morti senza nome, pratiche burocratiche espletate con indifferenza dall’ufficio personale e se qualche compagno ha un nome è solo quello di battesimo, detto con affetto e doloroso rimpianto (Walter, Pino, Mario, Salvatore…) L’asciuttezza dei versi garantisce l’assenza di sentimentalismo, lo sguardo del poeta è fermo, sempre lucido, non esprime né rabbia né rivolta, ma cerca un’oggettività inoppugnabile, vuole mostrare senza estetizzare quelle morti, rendere loro onore senza orpelli né enfasi.
25 pullman
gialli d’estate
scuri d’inverno
per 5 giorni la settimana
ci conducono lontano dalle case
verso la terra del fumo
verso la terra nera.
Più nessuno ha l’erba negli occhi.
Nei magazzini generali
come formiche di primavera
si entra negli scaffali
a trovare anelli
dadi
bulloni.
Nessuno ha la bussola
ma tutto
appare con un numero.
(La terra di ferro, cit., pp. 96 e 97)
Pur continuando ad adottare la versificazione libera che, secondo più di un modello novecentesco, riduce talvolta il verso al singolo vocabolo, Pinto descrive un’alienazione operaia che nel Tarantino ha aspetti peculiari (ma un discorso simile andrebbe fatto per il petrolchimico Montedison di Brindisi, per le raffinerie di Priolo nel Siracusano, per l’Ilva di Bagnoli…) e che Stefano Modeo ben evidenzia nel suo scritto: questi operai sono ex contadini che non hanno reciso del tutto il proprio legame con la terra (molti di loro hanno un fazzoletto di terra che coltivano nelle ore libere e nei giorni festivi e molti sono pendolari che non risiedono affatto in città); per questo Pinto può scrivere di pullman che conducono «lontano dalle case / verso la terra del fumo / verso la terra nera» che è, infine, la “terra di ferro” per antonomasia, l’enorme area sottratta ai campi e ai prati su cui è stata edificata una delle acciaierie più grandi d’Europa (grande due volte e mezzo la città di Taranto), ma senza un legame organico con il territorio e con la gente che quel territorio abita. Per questo Pinto può scrivere che «Ci educhiamo alla nuova terra / con parole di lontano / che ci annodano l’uno agli altri / quasi rifatti ogni giorno» (La terra di ferro, cit., p. 97) e che «[…] prima che la luna ci pesi / sul capo / abbiamo 8 ore da scontare / in piedi / seduti / sotto un motore / incatenando le mani / sotto i paranchi / con la barba / appesantita / di sudore» (La terra di ferro, cit., p. 98); è la crisi della presenza di cui scrive Ernesto De Martino riferendosi anche alle condizioni lavorative del proletariato e che è determinata dal venire meno di istituti culturali adeguati al nuovo status di operaio – la poesia di Pinto sa dirlo molto bene perché reca in sé stessa la frattura tra il presente del lavoro (alienante) nell’acciaieria e un passato che in qualche modo è ancora il presente di questi operai-contadini, ma non più in grado di garantirne e salvaguardarne la presenza alla storia e alla realtà, di continuare a dar loro, cioè, un’identità certa e definita in rapporto a una comunità e a una cultura in cui riconoscersi.
Scriveva Franco Cassano nell’incipit ormai classico del suo Pensiero meridiano: «Se si vuole ricominciare a pensare il sud sono necessarie alcune operazioni preliminari. In primo luogo occorre smettere di vedere le sue patologie solo come la conseguenza di un difetto di modernità. Bisogna rovesciare l’ottica e iniziare a pensare che probabilmente nel Sud d’Italia la modernità non è estranea alle patologie di cui ancora oggi molti credono che essa sia la cura. Per iniziare a pensare il sud è in altri termini necessario prendere in considerazione anche l’ipotesi che normalmente si scarta a priori: la modernizzazione del sud è una modernizzazione imperfetta o insufficiente o non è piuttosto l’unica modernizzazione possibile, la modernizzazione reale?
Liberare la modernità dalle sue responsabilità considerandola sempre e soltanto dal lato dei rimedi conduce a commettere due errori complementari che si rafforzano a vicenda: da un lato si ricorre ad una terapia che spesso aggrava le patologie, dall’altro si sopprime in radice la possibilità di rovesciare il rapporto: non pensare il sud alla luce della modernità ma al contrario pensare la modernità alla luce del sud. Pensare il sud vuol dire allora che il sud è il soggetto del pensiero: esso non deve essere studiato, analizzato e giudicato da un pensiero esterno, ma deve riacquistare la forza per pensarsi da sé, per riconquistare con decisione la propria autonomia.
Pensiero meridiano vuol dire fondamentalmente questo: restituire al sud l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri» (Il pensiero meridiano, Laterza, Bari-Roma, edizione pubblicata nella Collana I Robinson / Letture, 2021, p. 5).
Ecco: in questa capacità di rovesciare prospettive acquisite e date per indiscutibili scorgo un sentiero possibile da percorrere per meglio comprendere il lavoro di Pasquale Pinto il quale, infatti, non respinge la modernità, ma ne vede i difetti e gli effetti, ne comprende le dinamiche, ha uno sguardo capace di comprendere, per dir così, coltivando una prospettiva meridiana data la peculiarità dell’industrializzazione del Tarantino e le sue conseguenze.
Ci trucchiamo di coke.
Dietro colline di carbone
abbiamo nascosto la nostra ombra
su un piazzale
un operaio
forse un ex contadino
rimuove una terra di ferro.
(La terra di ferro, cit., p. 100)
Un fusto è scoppiato in acciaieria
come una palla d’acciaio
su un birillo di carne.
Nessuno ha mai immaginato
un uomo con tanto sangue.
Solo gli occhi
bianchi come il giorno
dell’assunzione
hanno atteso una risposta.
(Ivi, p. 103)
C’è un operaio
classe 1922
che scarica pacchi
da 40 anni.
(Ivi, p. 104)
All’alba una seicento
trasporta un uomo senza occhi.
Nel buio della sua camera
un guanciale conserva l’ampiezza del capo.
Ogni donna attende il pomeriggio
un odore scenderà le scale
sino alle plastiche delle pattumiere.
(Ivi, p. 105)
Sud mio sud
ove t’hanno portato
i riverberi delle colate?
Che ne sarà
delle tue verdure
che il mare culla come barbe di vecchi
eternamente da viziare?
(Ivi, p. 106)
Da un fornello anelli di fumo
si liberano come palloncini
in una bianca piazza del sud.
Gli uomini si ripassano la vita
sul gonfiore delle vene.
(Ivi, p. 110)
Chiamo a raccolta i vivi
che vivono sui morti
per verificare tutte le vene
per aprire un dialogo di sguardi
perché da qualche parte si dice
le parole non servono più.
Forse la Poesia è terra di morti
tanto i vivi la chiamarono a giudizio
con la saliva amara dei loro denti d’oro.
O c’è qualcuno
che ha imparato a vivere senz’occhi
senza cuore per la sua terra
che confina coi pali nelle radici?
(Ivi, p. 114)
Anche in questo caso chiamo in soccorso le riflessioni-interrogazioni di Italo Testa: «Se essere contro la poesia fosse una condizione di possibilità per essere poeti. Essere contro la poesia per poter scrivere poesie. Per poter aspirare a scriverne di autentiche. Scrivere come se nessuna poesia data potesse mai dirsi riuscita, esaudire l’aspirazione che incarna. Dovendo scontare un’impossibilità, l’impossibilità della poesia quale sua matrice costitutiva. Un’impossibilità metafisica che non possa essere pensata sino in fondo, ma che vada immaginata sempre di nuovo, messa in parole finite, esibita nel qui e ora di un oggetto assurdo, terrestre e alieno al mondo. Se ogni poesia che sia veramente tale volesse rifare da capo il mondo, e la poesia stessa, finendo così per dichiarare la non esistenza di ciò che sino ad allora è stato chiamato con questo nome. Una protesta contro il fatto che nessuna poesia abbia potuto sino a ora soddisfare tale pretesa. […] Ogni poesia, all’altezza delle sue pretese, sarebbe così contro la poesia come essenza fissa, invariante. Lo svelamento della tradizione che la precede quale manto di ombre sonore, labili emissioni di voci. Quasi la poesia non avesse ancora avuto luogo. O si sottraesse a ogni reductio ad unum» (Autorizzare la speranza, cit., pp. 135 e 136). È in tal modo che può essere pensata la scrittura di Pasquale Pinto, sia interpretandone la tematica operaistica, sia vedendone con chiarezza la questione da lui posta e mai elusa circa la natura della poesia, la sua necessaria capacità di misurarsi con realtà cangianti e spiazzanti; nel vedere il proprio Sud che cambiava profondamente a causa di fenomeni concomitanti e dirompenti (emigrazione, avvento della cultura di massa e del consumismo, forzata e rapidissima industrializzazione almeno in alcune aree) Pinto è voluto rimanere nell’alveo della poesia, ha saputo di doverla, appunto, “immaginare sempre di nuovo” e, provenendo dalla tradizione italiana (specialmente novecentesca), percorre il “manto di onde sonore” che lo fa approdare ai testi degli ultimi anni, che gli fa scrivere un’invocazione come «Portami a sera sui lungomari / ove le agavi sopportano le ceneri del sole / e le acque hanno sussulti sotterranei / per le fascine di ghisa affogate ogni mezz’ora» (La terra di ferro, cit., p. 120) dando alla rappresentazione della realtà industriale un tratto peculiare che consiste nel suo legame, controverso e problematico, con il paesaggio marino e agrario (che è anche, non lo si dimentichi, “paesaggio” culturale e psicologico, sociale e storico caratterizzato da portati specifici), con il suo essere, rispetto all’industrializzazione del Nord d’Italia e dell’Europa centrale e settentrionale, cronologicamente posteriore e interpretabile secondo parametri necessariamente differenti.
Si potrebbe infine immaginare di leggere e rileggere il poemetto di Pinto prestando un orecchio alla voce di Alessandro Leogrande che con la sua riconosciuta lucidità scrive di Taranto e dell’Italsider (si pensi soltanto a Fumo sulla città, per esempio), si potrebbe pensare di ascoltare insieme le due voci dialogare e sovrapporsi pur restando chiaramente distinguibili e pur nella consapevolezza della leggera sfasatura temporale tra le due scritture – e non si dovrebbe dimenticare che un altro poeta, scrittore e cineasta troppo presto scomparso, Christian Tito (anche lui Tarantino e figlio di un operaio dell’Italsider morto di tumore) ha girato un film documentario dal titolo I lavoratori vanno ascoltati https://www.youtube.com/watch?v=PsFPRMBnN9Y nel quale l’acciaieria e i quartieri sorti nei suoi pressi vengono raccontati dalle voci di chi vi lavora e abita – Christian è inoltre l’autore del libro Lettere dal mondo offeso (L’arcolaio, Forlimpopoli 2014) che raccoglie la sua corrispondenza con Luigi Di Ruscio, forse il più conosciuto “poeta-operaio” italiano e se anche Pasquale Pinto può essere ascritto insieme con Nella Nobili, Fabio Franzin, Nadia Agustoni, Simone Weil, Thierry Metz (e altri ne dimentico) al genere della “letteratura operaia”, non si dimentichi, ribadisco, che ciascuno di questi autori fa della lingua il mezzo straordinario e la sonda acuminata capaci di rinnovare ogni volta il loro discorso.
[…]
Chi parlerà di voi uomini rossi
senza età senza bestemmie?
Chi parlerà dei vostri Natali
accanto alla ghisa lontano dai canneti
ove vivono gli ultimi gabbiani?
Pasquale Pinto è solo un uomo
costantemente denunciato
ai rivoli delle vostre fronti
(La terra di ferro, cit., p. 87).
[Immagine: Foto di Paolo Monti, 1964].