di Adelelmo Ruggieri

 

Grandi viaggi, rubrica a cura di Adelelmo Ruggieri

 

i borbottii che accompagnano il rumore delle valigie trascinate, le voci dei bambini che balbettano i sogni

 

Il grande viaggio di oggi non è come gli altri di questa serie, non è reale e non c’è diario, ma c’è una scrittrice che conosce i luoghi di cui ora sta scrivendo – arriva da Tolone, è del 1967, si chiama Maylis de Kerangal –, e c’è un treno che attraversa le immensità magnetiche dell’Europa orientale fin dove finisce e dell’Oriente asiatico fin dove finisce, e sferraglia per novemila chilometri e qualche centinaio ancora. Sul treno c’è una giovane recluta di venti anni, si chiama Alëša, ha paura. È salito a Mosca con gli altri coscritti, “sono tanti, più di un centinaio, smunti e rapati, braccia venose, sguardo stagnante, torso ingabbiato da una canottiera kaki, calzoni camouflage e slip modello canguro, la catenina religiosa che dondola sul petto”. Sono spavaldi di spavento. Alëša era convinto che sarebbe riuscito a non partire, che avrebbe trovato un espediente, ma non è stato così, non ha i mezzi per farla franca, e ora è sul treno, assiepato in terza classe con gli altri, lo aspetta un futuro che da subito si concretizza per quel che sarà, due reclute che prima lo tormentano e poi lo pestano. Decide di fuggire. L’idea improvvisa attraversa il ragazzo, un lampo di coscienza tangibile come una pietra. A qualche compartimento di distanza c’è Hélène, è in prima classe, sta scappando dal suo amante (è il responsabile della diga idroelettrica di Divnogorsk, sul fiume Yenisei, il più grande dei fiumi che sfociano nell’Oceano Artico, il fiume madre). Di donne come lei, in camicia maschile e stivaletti, Alëša non ne ha mai viste, “ne capta la calma azzurrata che diffonde”. Conosce solo Fantine, Eugénie, Emma, “donne obbligatorie delle quali ha intravisto alcuni frammenti di psiche nei manuali scolastici e relegate ben lontano da quelle che lo abbagliano, Lady Gaga in primis”. E comunque manuali fatti a dovere se tengono dentro Hugo e Balzac, Flaubert o Austin. Hélène è salita a Krasnoyarsk, Russia siberiana centrale, la cui principale attrazione turistica è la Riserva naturale Stolby, con rocce granitiche alte fino a cento metri e dalle forme spettacolari. Hélène ha preso una cabina tutta per sé, è abbiente, è diretta a Vladivostok, ma non l’aspetta niente e nessuno in quell’estremo est. Alëša mette in essere il suo proposito. Cerca un nascondiglio fin dentro il treno. Incontra Hélène. Alëša la osserva – le cartilagini trasparenti del naso, il profilo flessibile – allunga una mano e le batte sulla spalla – lei sussulta, si gira verso di lui che si punta l’indice sul torace e sillaba, Alëša, e la donna, guardandolo negli occhi per la prima volta, stupita dal modo brusco del ragazzo, si mette a sua volta una mano sul petto e sillaba: Hélène. Lo nasconde nella sua cabina. Un cameretta minuta contro la sterminatezza dello spazio di una “terra che corre a sessanta chilometri all’ora”, iris selvatici e città proibite sotto nuvole di carbone, la taiga scura e dorata come un sottobosco infinito, la steppa, i grandi fiumi, novemila chilometri di illimitato, sette fusi orari. Lei è una adulta emancipata, lui un ragazzo che ha paura. Li divide tutto. La loro alterità è radicale e non c’è nemmeno la lingua ad unirli, nemmeno l’inglese! Ci sono solo i corpi e la gestualità, la materialità del loro essere lì. L’incontro tra i due fuggitivi si compie in quel gesticolare e darsi un codice.

 

All’inizio frammentario, nastro liquido tra due colline, d’improvviso appare, immenso e viola rosaceo, il lago Bajkal, con i passeggeri che si precipitano fuori dagli scompartimenti, Bajkal! Bajkal!, e Alëša è ancora lì, non è riuscito a scappare ancora, le rive digradanti, le isbe di legno, una distesa vellutata e liscia, uno specchio del cielo, solo una barca solitaria pressoché immobile nella sera che scende. C’è chi sviene per l’emozione, chi declama una poesia, altri ballano, tutti che parlano, nessuno che ascolta, le lodi superlative, le punte liriche, le gare di iperboli: abisso e santuario, profondità e purezza, tabernacolo e diamante, l’occhio blu della Terra, la bellezza del mondo. Passato il Bajkal di nuovo lo sferragliare ciclico, le assi che si arroventano, gli stridii metallici, il tormento nel cuore di essere acciuffato. Quando finalmente giungono sul Pacifico, Hélène ed Alëša sono diventati fratelli nella fuga, così li chiamerà de Karangal in una intervista recente. L’oceano appare all’alba dell’ultimo giorno, è la fine della pista, mancano quaranta chilometri a Vladivostok. Hélène non è sicura di nulla, ma c’è un chiarore all’orizzonte, è velato da una nebbia leggera. È l’oceano. Niente di indaco, niente a che vedere con il ciano dei mari del sud, niente turchese e nemmeno blu, Niente: solo zinco. Posa una mano sulla spalla di Alëša, lo chiama, Alëša, il Pacifico, svegliati. Lui non ha mai visto il mare. Sono stremati. Qualcosa in loro ha ceduto liberando una temporalità sconosciuta, elastica e fluttuante. Hèlène rimette insieme le sue cose, Alëša indugia. E ora sono a Vladivostok, la fuga è compiuta. Evitano di guardarsi in faccia, scendono dal treno. Vacillano, non sanno che fare, come se fuori dal treno, fuori dalla fuga, non esistesse più gesto e nemmeno canto, e tutto dovesse arrestarsi. Nella foto che si fanno di quell’ultimo paragrafo si somigliano, hanno gli stessi volti, ma non c’è e non ci sarà modo di vederlo. Di Hèlène e Alëša conosciamo soltanto quanto scrive de Kerangal nel loro romanzo, Fuga a est [Feltrinelli, 2023, lo ha tradotto Maria Baiocchi].

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