di Federico Luisetti
[E’ uscito in questi giorni per wetlands il saggio di Federico Luisetti Essere pietra. Ecologia di un mondo minerale, con prefazione di Marco Belpoliti. Proponiamo qui un estratto dal volume]
Addio all’Olocene
Sulla strada che da Potenza conduce a Matera, a circa dieci chilometri dietro il bivio di Tricarico, si stacca una via che scende verso la vallata del Basento, e che lasciando a sinistra la Murge di Castelmezzano – nudi picchi di arenarie, inaccessibili nidi di aquile e di avvoltoi – raggiunge il villaggio di Albano. Una vita magica ancora intensa e diffusa impegna le 700 famiglie di questo villaggio.[1]
L’autore di queste frasi è l’antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino. Alla ricerca di materiale documentario sulla sopravvivenza di forme arcaiche di magia, nel maggio 1957 egli si reca con i suoi collaboratori ad Albano, in Lucania. In questa comunità rurale, i ricercatori osservano, intervistano e raccolgono documentazione audio-visiva sulle pratiche di possessione, fattura, esorcismo e fascinazione, sulle allucinazioni, i rituali e gli sdoppiamenti della personalità che caratterizzano la vita contadina. Afflitti per secoli da traumi sociali e ambientali, oppressi dall’usura, dalla carestia e dalla peste, gli abitanti di questo angolo del Mezzogiorno non si percepiscono come soggetti di azioni e decisioni interne a una realtà sociale contemporanea. La vulnerabilità della loro esistenza e il “naufragio della stessa presenza individuale” impediscono alle loro vite di confluire nell’alveo dell’esperienza dell’Europa post-illuministica. La precarietà quotidiana, l’incertezza delle prospettive, la pressione esercitata da forze naturali e sociali incontrollabili rappresentano per De Martino un vero e proprio “orizzonte della crisi”, una condizione segnata da una continua “fragilità della presenza”, dalla percezione di non essere padroni del proprio destino.
De Martino definisce “crisi della presenza” questa costellazione psico-sociale, caratteristica di contesti in cui si è agiti da entità esterne e in cui emergono modalità eccentriche di soggettività. I contadini di Albano sperimentano un continuo senso di dominazione, che si manifesta ad esempio attraverso fenomeni di possessione. Un tema ricorrente è quello delle “maciare”, fattucchiere che visitano i dormienti nel corso della notte, lasciandoli senza parole e capacità di movimento, facendo dispetti e stimolando comportamenti autolesionistici. Al risveglio, chi è vessato da queste streghe racconta di esperienze allucinatorie di passività, come nel caso riferito dal mulattiere Vincenzo La Rocca, che subisce le conseguenze di aver recato offesa durante il giorno a una maciara: “si mise sul mio stomaco e parlò per la mia bocca: la bocca parlava ed io non potevo fermarla, finché venne mia madre che la chiuse, come si fa ai morti.”
Questa condizione di fragilità della presenza era già stata rilevata da Carlo Levi durante il suo esilio in quelle regioni nel 1935, e riportata nel romanzo Cristo si è fermato a Eboli:
Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l’uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria […].[2]
Anche per Levi, la consistenza magica di questo universo contadino coincide con il collasso della coscienza individuale e l’immersione in un mondo di forze soverchianti, da cui si è posseduti. Come vedremo, la nozione di “crisi della presenza” individuale è rilevante non soltanto per comprendere la psicologia sociale di alcune comunità del sud Italia del dopoguerra, ma anche per indagare la nostra epoca, segnata da una crisi ecologica planetaria. La fragilità psicologica dei contadini lucani si rispecchia ora su miliardi di persone, generando disturbi psicologici quali la “solastalgia”, ovvero la nostalgia per un ecosistema scomparso, e l’“ansia ecologica”, la perdita anticipata di un futuro abitabile.[3]
Mentre De Martino rifletteva sulla crisi della presenza, presso l’Osservatorio di Mauna Loa alle Hawaii, il geochimico Charles David Keeling, all’inizio degli anni ‘60, effettuava le prime misurazioni della concentrazione atmosferica di CO2. Quella serie di dati – nota in seguito come “curva di Keeling” – dimostrava per la prima volta l’origine antropica del riscaldamento globale: un cambiamento del metabolismo terrestre, indotto dalle emissioni di gas a effetto serra, le cui conseguenze ricadono su ogni aspetto della vita sul pianeta.
Nei decenni successivi, i campioni di ghiaccio estratti dalle calotte glaciali dell’Antartide, della Groenlandia e dei ghiacciai continentali hanno confermato la diagnosi di Keeling, rivelando centinaia di migliaia di anni di passato climatico e consentendo di paragonare il breve arco della storia umana con il tempo profondo del pianeta. L’attuale concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera ha superato le 400 parti per milione, quasi il doppio della quantità misurata nei periodi di equilibrio climatico interglaciale dell’Olocene. Quest’epoca geologica, una nicchia di 12.000 anni che ha permesso all’homo sapiens di porsi come protagonista della storia naturale, è ora giunta al termine. La biosfera è entrata in un nuovo regime, caratterizzato da condizioni simili a quelle sperimentate dai nostri antenati ominidi nel corso del Pleistocene. Adesso come allora, le società umane sono oggetto di pressioni ambientali senza precedenti. Le categorie che hanno strutturato l’azione sociale in tempo di stabilità climatica sono messe in discussione da soggetti non-umani – altre specie viventi, entità litiche, liquide e atmosferiche – con cui condividiamo un destino terrestre comune.
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Paesaggi litici
In Sud America, i conflitti tra i movimenti indigeni e le politiche neoliberali di privatizzazione delle risorse naturali hanno posto in primo piano la questione dei soggetti naturali. Montagne, fiumi e foreste sono una materia da cui estrarre valore economico oppure soggetti con cui condividiamo l’esistenza sul pianeta? Susanne Hecht, una figura di primo piano dell’ecologia politica, ci riporta a questo contesto sociale:
A metà degli anni ’80, la Bolivia è diventata una sorta di laboratorio vivente per l’economista di Harvard Jeffrey Sachs, per testare le idee di aggiustamento strutturale e le regole commerciali neoliberali. Queste hanno raggiunto la loro piena realizzazione a metà degli anni ’90, quando la privatizzazione dei settori statali, l’accaparramento dei terreni su larga scala, la riduzione massiccia dell’occupazione statale, la deregolamentazione, il decentramento e le politiche di libero scambio sono stati attuati attraverso una forte recessione, l’aumento della disuguaglianza e la contrazione dei servizi statali.[4]
Negli anni successivi, le comunità andine hanno reagito all’imposizione dei programmi economici neoliberali attraverso una serie di iniziative di protesta. La più famosa è stata la guerra dell’acqua in Bolivia dei primi anni duemila, una lotta che ha avuto il suo epicentro nella città di Cochabamba e che ha ispirato l’ambientalismo globale del decennio successivo.[5] Gli attivisti di Cochabamba si erano opposti alla privatizzazione del sistema idrico pubblico imposto dalla Banca Mondiale in cambio di una riduzione del debito. Per loro, stabilire se l’acqua fosse il sangue della Pachamama – la divinità andina che incarna i poteri generativi della terra – oppure un servizio amministrato dal capitale finanziario, non era una questione accademica. Nella cultura delle comunità indigene del Sud America, l’acqua appartiene al corpo di Pachamama, con la quale esistono fin dai tempi più remoti legami di reciprocità. Le organizzazioni indigene di contadini, i cosiddetti ayllus, si erano mobilitate per difendere il loro diritto ancestrale alla gestione delle risorse idriche.
Questo è lo sfondo per comprendere il concetto antropologico degli esseri-terra, che, nelle pagine seguenti, verrà discusso ed esteso al mondo litico europeo e globale. La mia ipotesi è che le lotte contro le misure neoliberali abbiano diffuso la consapevolezza che anche le pietre, i fiumi, i ghiacciai e le valli sono soggetti politici con capacità di agire, allo stesso modo delle piante, degli animali, degli uomini e delle multinazionali. La svolta politica progressista degli anni 1999-2008, culminata con la nascita del movimento internazionale per i diritti della natura e la costituzionalizzazione ecuadoriana e boliviana della Pachamama, ha diffuso l’idea che gli esseri-terra sono dei soggetti politicamente rilevanti, che possiedono il diritto al riconoscimento della loro personalità giuridica.
È importante distinguere questa comprensione politica del soggetto da quella dominante nella filosofia occidentale, che è radicata invece nella sfera cognitiva. La migliore definizione per l’approccio decoloniale agli esseri-terra è quella di “ontologia politica”, una visione materiale e relazionale della soggettività.[6] Gli esseri-terra sono soggetti materiali, che agiscono e sono agiti. Sono centri di attività, valori e relazioni. A partire da Cartesio e Kant, il soggetto filosofico occidentale è invece il sostrato del pensiero e della conoscenza: chi pensa è soggetto in rapporto a un oggetto conosciuto, una res cogitans opposta a una res extensa. La dimensione sociale e quella politica non sono costitutive ma derivate da un nucleo gnoseologico. In seguito alla guerra dell’acqua e alla costituzionalizzazione della Pachamama, le ontologie indigene si sono rapidamente propagate al di fuori del Sud America e hanno trovato sostenitori in ampie fasce del mondo occidentale. Le comunità andine che si oppongono alle privatizzazioni degli ecosistemi condividono ora con gli attivisti che occupano aeroporti e bacini idrici in Europa una visione analoga della soggettività politica della natura.[7]
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Terra incognita
Le pietre non sono uno sfondo passivo della vita animale. L’intimità con la materia e la fabbricazione di strumenti litici – schegge, punte di selce, lance, asce – hanno segnato l’evoluzione del genere homo. L’archeologo e studioso di scienze cognitive Lambros Malafouris sostiene che un’“archeologia della mente” dovrebbe prendere avvio dallo studio degli strumenti utilizzati dai primi esseri umani nell’età della pietra: “afferrare una pietra e farne uno strumento è un gesto familiare, eppure rimane terra incognita in quanto, nonostante una lunga genealogia di sforzi analitici, ciò che questo afferrare implica per gli esseri umani rimane elusivo e rifiuta di essere ridotto e letto nella forma di una narrazione evolutiva lineare”.[8] La difficoltà a comprendere il rapporto tra mano e pietra dipende per Malafouris dall’esistenza di una “linea artificiale tra persone e cose”. Ripensare la nozione di soggetto a partire dalle scene primordiali, dall’incontro dell’uomo preistorico con il mondo litico, permette di superare la separazione arbitraria tra le persone e l’ambiente.
L’archeologia cognitiva di Malafouris si basa sul concetto di affordance di James Gibson, un neologismo che descrive la disponibilità dell’ambiente – eventi, luoghi, esseri naturali – a venire utilizzato da parte dell’animale.[9] I primi strumenti in pietra non sono un ricettacolo passivo di forme imposte dalla mente: con le loro proprietà materiali – malleabilità, durezza, durata, plasticità – hanno strutturato la percezione e il pensiero umano. La pietra ha facilitato e incanalato una lunga catena di retroazioni – segni materiali, proiezioni, abilità corporee – tra la materia e la mente, da cui sono sorte le capacità psicofisiologiche dell’animale umano. Lo spazio d’interazione tra “la materia prima e le proprietà sensomotorie della mano dell’uomo” è dunque una vera e propria “zona intermedia in cui crolla il confine tra soggettivo e oggettivo, mentale e fisico”. Le relazioni più arcaiche tra pietre e uomini hanno prodotto un’ecologia della vita in cui gli esseri umani si definiscono attraverso il loro rapporto con il mondo non-umano.
L’antropologia cognitiva di Malafouris è incentrata sulle relazioni primordiali tra uomo e materia litica e offre spunti affascinanti per liberare l’ecologia politica dalla dipendenza del paradigma biologico della vita. Tuttavia, dobbiamo essere cauti a non generalizzare l’idea di affordance. Che ruolo hanno gli esseri-terra nell’archeologia della mente? Esiste una sola mente umana oppure la pluralità di modi di essere al mondo invocata dai movimenti decoloniali mette in discussione anche l’universalità delle strutture cognitive? Per Gibson, la realtà non è popolata da soggettività naturali, dal momento che esiste un campo unificato di affordance, un terreno socio-ecologico comune: “c’è un solo mondo, per quanto vario, e tutti gli animali ci vivono, anche se noi umani lo abbiamo alterato per adattarlo a noi stessi … siamo stati creati dal mondo in cui viviamo”. In questo mondo, gli esseri umani alterano l’ambiente per soddisfare i propri bisogni antropologici: “Per migliaia di anni […] l’uomo ha modificato il contesto naturale della terra. La conformazione delle superfici è stata cambiata, tagliando, disboscando, livellando, pavimentando e costruendo. […] Perché l’uomo ha modificato le forme e le sostanze del suo ambiente? Per cambiare ciò che gli viene offerto. Ha reso più disponibile ciò che lo beneficia e meno preminente ciò che lo danneggia. Nel facilitare la vita a se stesso, ha reso ovviamente la vita più difficile alla maggior parte degli altri animali. Nel corso dei millenni, ha migliorato il modo di procurarsi il cibo, riscaldarsi, vedere di notte, spostarsi e allevare la sua prole”.
I tirakuna delle Ande ci insegnano invece che le interazioni tra società e soggetti naturali non viventi – pietre, montagne, sorgenti, valli, fiumi – mettono in relazione mondi diversi tra loro. Il loro orizzonte non è un’ecologia planetaria della mente umana perché gli esseri-terra confondono la definizione stessa di umanità e di natura. Le montagne sono soggetti? Le pietre possono ascoltare? I corpi rocciosi hanno ispirato una sorprendente varietà di ritualizzazioni e simbolizzazioni proprio perché non si adattano ai progetti umani e travalicano i confini del nostro apparato sensoriale. Piuttosto che un’affordance, un invito all’utilizzo, nella maggior parte dei casi i corpi geologici sono percepiti come un heteron, il termine greco per indicare qualcosa di estraneo. Rappresentano un’alterità confermata dall’esperienza, poiché le pietre persistono mentre gli esseri umani scompaiono di generazione in generazione. Inoltre, le rocce condensano il tempo nella materia in modi che sono preclusi alle entità biologiche: i loro strati sono un archivio delle forze che decompongono e ricompongono la vita.[10] Le rocce si adattano alla vita animale fino a un certo punto, oltre il quale c’è solo il confronto creativo con la loro esistenza difforme.
Il problema posto dalla divergenza del mondo litico dalla vita biologica ha dato origine a una diversità di soluzioni, che costituiscono altrettante forme di contatto con l’heteron. Prendiamo le rocce amorfe, non figurate né scolpite: massi augurali e curativi, dolmen, menhir. Questi esseri-terra hanno accompagnato la vita quotidiana e le pratiche cerimoniali fin dal Neolitico. Inoltre, l’associazione tra le pietre e i fenomeni geologici quali il vulcanismo e i terremoti ha alimentato mitologie sotterranee attraverso le quali le rocce hanno assunto una molteplicità di significati, legati a pratiche rituali e connessioni simboliche. Nella geomanzia cinese e nei giardini karesansui (paesaggi aridi) del buddismo zen in Giappone, nei racconti australiani di creazione – il cosiddetto dreamtime – e nelle culture megalitiche europee, le rocce sono protagoniste di sistemi cosmologici e culturali. In questi teatri ontologici, le pietre agiscono come esseri dotati di energia, testimoni enigmatici, tracce di creazioni cosmiche.
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[Immagine: Una pietra. Amna Tauqeer, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons]
Note
[1] De Martino 2011, 68.
[2] Levi 2014, 68-69.
[3] Cfr. Susan Clayton 2020.
[4] Hecht 2013, xxi.
[5] Cfr., in Italia, il referendum del 2011 contro la privatizzazione dell’acqua potabile promosso dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua.
[6] “L’ontologia politica vuole rendere possibile il pensiero e la pratica politica al di là dei limiti onto-epistemici della politica moderna e di ciò che la sua pratica consente” (de la Cadena & Blaser 2018, 6). Per Marisol de la Cadena e Mario Blaser, l’ontologia politica coinvolge soggetti quali montagne e foreste, che possono essere considerate come risorse da una certa prospettiva, ma anche come soggetti da prospettive alternative.
[7] Cfr. il movimento ecologico francese delle “rivolte della terra”: https://lessoulevementsdelaterre.org/
[8] Malafouris 2013, 15.
[9] Gibson 2015, 94.
[10] “Le striature della roccia che sporgono sul mare non solo segnano il tempo con i loro colori e le loro linee, ma lo creano attraverso i loro incontri con le onde e il vento” (Neimanis & Loewen Walker 2014, 569).
Bibliografia
Clayton, Susan (2020). Climate anxiety: Psychological responses to climate change. Journal of Anxiety Disorders.
De la Cadena, Marisol and Blaser, Mario (2018). A World of Many Worlds. Durham, NC: Duke University Press.
De Martino, Ernesto (2011). Sud e magia, Milano: Feltrinelli.
Gibson, James (2015). The Ecological Approach to Visual Perception. New York: Taylor and Francis.
Hecht, Susanna B. (2013). Preface. In Hindery, Derrick, From Enron to Evo: Pipeline Politics, Global Environmentalism, and Indigenous Rights in Bolivia. Tucson: University of Arizona Press, IX-XII.
Levi, Carlo (2014). Cristo si è fermato a Eboli. Torino: Einaudi.
Malafouris, Lambros (2013). How Things Shape the Mind: A Theory of Material Engagement. Cambridge: Massachusetts Institute of Technology Press.
Neimanis, Astrida e Loewen Walker, Rachel (2014). Weathering: Climate Change and the ‘Thick Time’ of Transcorporeality. Hypatia 29.3.