di Filippo Tuena

 

Poniamo il caso che Daniele Del Giudice, Tiziano Scarpa e l’autore di questo articolo si trovino riuniti attorno a un tavolo di un caffè, magari uno di quei caffè viennesi, così predisposti alla conversazione e che la conversazione che i tre stanno imbastendo verta sulla scrittura, sulla scrittura di romanzi, così per rendere la conversazione più complessa e nebulosa, considerando che pochi argomenti sono così complessi e nebulosi di quanto non lo sia la natura del romanzo, soprattutto se ad argomentare la questione siano narratori, poiché, sia ben chiaro, nulla è più oscuro al narratore che la natura del suo narrare. Ne deriverà un complesso di questioni, a volte accennate, a volte sviscerate che però condurranno sempre alla contraddizione che parrebbe essere l’essenza di quell’arte che sfugge alla classificazione.

 

Daniele Del Giudice si appoggia in questa conversazione da caffè viennese sulle argomentazioni di un suo recente libro, Del narrare, pubblicato da Einaudi che, per la cura di Enzo Rammairone, raccoglie un florilegio di vari testi, tutti  più o meno dedicati alla scrittura, o ad artisti che l’hanno frequentata e che lo stesso Del Giudice ritiene in qualche modo significativi. Ma sorseggiando caffè viennese, nella sala viennese che si affaccia sul Ring, Del Giudice forse non tratterebbe di scrittori specifici, come accade nel libro, ma si lascerebbe guidare a provare a definire l’arte del narrare. E lo farebbe ripercorrendo un articolo o un saggio dei primi anni Duemila, come specifica il curatore, a cui è stato, redazionalmente, ma con ragione, dato il titolo de La zona del narrare.

A questo punto, l’autore dell’articolo, interessato all’argomento, non potrà non tornare alla memoria di una pellicola cinematografica di Andrej Tarkowski, della metà degli anni ’70, basata su un romanzo di fantascienza polacco, intitolata ‘Stalker’. Codesto stalker è un poveretto che di mestiere fa la guida a strani personaggi che vogliono percorrere una ‘zona’ al cui centro è una stanza dove dovrebbero esaudirsi i più reconditi desideri dei visitatori.

 

Non è un caso che Del Giudice inizi il suo pezzo così: “Se devo indicare che cos’è per me il romanzo, o la narrazione, preferisco una definizione spaziale. Penso il romanzo come la zona.” Più oltre specifica “zona di detriti, materia calda e brulicante.” denunciando pur senza mai nominarla l’origine stalkeriana del suo pensiero.

Tiziano Scarpa, che sinora, contrariamente alla sua abitudine, ha taciuto, osservando i compagni, ascoltandone le argomentazioni, sulla scorta del suo ultimo libro ‘La verità e la biro’, anch’esso pubblicato da Einaudi, prova a chiarire la questione ‘zona di detriti, materia calda e brulicante’ e nel farlo non può che sfogliare il volume manifestando e sottolineando una notevole identità tra la zona di Del Giudice e la propria zona. Tutto è circoscritto ma tutto è indefinito. Lo stalker che accompagna i lettori si trova a percorrere sentieri mai battuti col rischio che i bulloni che lancia (il lettore ricorderà il film, mi auguro) cadano nel vuoto o in territorio minato. Ma Scarpa percorre sentieri lontani da quelli di Del Giudice: ai libri, agli scrittori amati sovrappone fanciulle un po’ disorientate e disorientanti. Storie di passioni che però, proprio come la zona di Del Giudice appaiono perigliose, imprevedibili, a loro modo devastanti. Quel che differenzia i due volumi è la questione temporale. Il libro di Del Giudice è postumo e dichiara la sua immobilità; quello di Scarpa è assolutamente contemporaneo tanto che l’autore descrive la spiaggia greca dove lo sta scrivendo. Sembra dire al lettore, o anche all’autore di questo articolo, ‘qui siamo nel presente continuo. Tutto è modificabile; qualsiasi elemento esterno può cambiare il percorso, suscitare nuove emozioni ancorché le emozioni si riferiscano a un lontano passato, ad amorazzi adolescenti o appena più maturi. Ora, poiché chiunque ha avuto amorazzi più o meno memorabili, l’argomento dello scrivere, la sua necessità intima è condiviso e appartiene a tutti. Quel che in Del Giudice è storicizzato, in Scarpa è strettamente legato al presente: sto scrivendo su questa spiaggia greca, con una biro da cinquanta centesimi, vicende che si riferiscono a un mio lontano passato e che, scrivendone, tornano a vivere nel presente. Del Giudice aggiunge che quest’atto di percorrere la zona e dedicarsi all’atto della scrittura avviene quando si sente un’emergenza. Mi soffermerei su questo termine nella sua doppia accezione: di situazione limite e di situazione che affiora. E questo sembra sottolineare Del Giudice: la scrittura si materializza nelle situazioni estreme e quando emerge dalla memoria individuale. Il che, inaspettatamente, mette sullo stesso piano Del Giudice e Scarpa e, mi sia permessa l’intromissione, anche l’estensore di questo articolo. Su una questione non mi sembra ci sia condivisione; ed è quando Del Giudice afferma che la questione ‘stile’ non gli è mai importato niente. Riesce difficile dar credito a questa affermazione. Direi piuttosto che possedendo naturalmente uno stile non si sia mai posto il problema.

 

La conversazione nel caffè viennese che si affaccia sul Ring è poi proseguita fino a che il fantasma di Del Giudice si è alzato e inesorabilmente si è allontanato dal consesso. Sul tavolo è rimasto il suo libro, posato proprio accanto a quello di Scarpa ed è su questa circostanza – due libri apparentemente diversi o forse opposti e che invece condividono uno spazio – che è nata questa non-recensione che affronta una parte marginale di quei testi ma che ha suscitato in chi scrive una concatenazione di pensieri non irrisoria.

1 thought on “Poniamo il caso che Daniele Del Giudice e Tiziano Scarpa

  1. Nella poesia, penso, essendo questa frutto dell’ inconscio più che del. conscio, l’autore debba lasciare al lettore l’emozione è il senso di questa. Non credo alla psicanalisi come mezzo di cura: nella mia lunga vita , sono del 1940, ho visto molti casi dove la psicanalisi ha fallito clamorosamente. Dopo anni di sedute o sdraiate, il risultato è stato quello di avere ridotto il paziente con la ferita ancor sanguinante che presume di avere imparato l’arte che pretende di applicare a chi gli sta attorno. Però riconosco a Freud di averci dato la possibilità di conoscere l’esistenza di questo oscuro pozzo che c’e in noi umani. Per questo, il sondare la profondità del pozzo è certo compito dello scrittore. Ma è sempre il più adatto? Lui sonda fatti personali che l’hanno coinvolto profondamente. Uno sguardo più presbite potrebbe essere utile? Questo vale anche per la prosa, anche se in minor grado. Io parto sempre dalla convinzione che la prima cosa da fare è conoscere se stessi, cosa non facile, alle volte crudele. Questo non solo è necessario ma direi indispensabile. Questo è impossibile? Se lo è si spiega la miserabile condizione dell’”Homo sapiens sapiens” o “ Stupidus stupidus. Capisco di essermi allontanato dal tema della questione: ne chiedo scusa. Ma ho pensato che valutare là validità di un testo stia nella capacità di essere compreso veramente anche da un solo lettore. L’unicità del lettore può determinare la grandezza del testo, Quante volte scritti non capiti sono diventati culturalmente illuminanti. Vostro

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