di Gilda Policastro
Esuli, rubrica a cura di Gilda Policastro
Ho conosciuto Silvia Bortoli litigando con lei su un blog letterario, ai tempi in cui le battaglie di opinione si combattevano in quei contesti. Non rispondo a una che si chiama come un tonno, le avevo opposto col mio fare sgarzolo da trentenne arrogante (il suo nick era “alcor”). Ci siamo poi ritrovate sui social, che usiamo entrambe ma in modo diverso. Bortoli, traduttrice di grandi classici in lingua tedesca (da Mann a Bachmann) è anche scrittrice, ma di nicchia, dice lei. I suoi libri sono usciti per Manni e d’if edizioni, ma nessuno lo sa o se lo ricorda, “perché ora siamo tutti su Facebook”. Su Facebook Bortoli ha un salotto letterario di pochi e sceltissimi contatti, una Oriane de Guermantes a petto delle tante Verdurin che radunano folle di adoratori, colta e poco intrigante, sempre arguta e algida, non si mescola in nessuna bega, se ne sta col cane, che è diventato un suo personaggio. Altri personaggi del suo romanzo pulviscolare, come ormai sono i migliori romanzi, ovvero le vite che scegliamo di raccontare nei social, sono stati E. o il Principe, Faber (il nipote novenne), Adorata Mammina (la figlia). Spesso conversiamo su Messenger, ma a un certo punto abbiamo pensato di farlo in modo più articolato, in un confronto tra esuli, durante e dopo la pandemia, quando io ero alla disperata ricerca di un lavoro stabile e lei alle prese con problemi familiari. Il tema era lo stato delle cose nel campo letterario: ed è, né cangia stile, quindi lo proponiamo ai lettori de Le parole e le cose, perché dal blog veniamo e al blog vogliamo tornare, anche ora che è molto diverso, anzi, soprattutto per questo.
GP. La mia prima domanda, Silvia, è una citazione da Alice. Da dove vieni, e dove vai?
SB. Sono nata a Venezia, anzi, al Lido di Venezia, che è un marchio di inautenticità per un veneziano, e che ho sempre vissuto come un luogo posticcio, senza storia, anche se l’isola si è caricata nel tempo di connotazioni letterarie. Vengo da una famiglia di immigrati interni, friulana. Quella materna, la parte carnica, cacciata dall’Austria allo scoppio della Prima guerra mondiale e approdata a Venezia dopo essere passata per Roma; quella paterna emigrata dal Friuli della bassa, per ragioni economiche. E questo, oltre a un intreccio di dolenzie per la perdita dell’Austria come patria idealizzata per mia nonna e del Friuli come terra materna per mio padre, ha posto a me un problema linguistico non da poco: non parlo dialetto non solo perché quand’ero bambina sul dialetto pesava una connotazione sociale negativa, ma perché mia madre non lo sapeva e mio padre lo usava per comunicare con l’esterno, un veneziano bastardo, infiltrato da cadenze friulane, poco accurato, poco amato, una lingua d’uso indispensabile per parlare con i fornitori e poco più. Questa mancanza di una lingua del territorio, aggiunta al fatto che ho vissuto in un albergo e non in un appartamento fino ai dieci anni circa, ha fatto di me una piccola sradicata, piuttosto felice, peraltro, che ha trovato una solida base nella lingua italiana. Di quanto grande fosse la perdita del non avere una lingua madre minore mi sono resa conto solo molto più tardi, e penso che abbia segnato negativamente anche la mia conoscenza del mondo, perché influenzata dalla famiglia il dialetto l’ho disprezzato per molti anni, prima di rendermi conto del suo potere e dell’apertura che poteva portarmi e questa apertura l’ho poi cercata in un precoce cosmopolitismo che ancora mi segna e per il quale una volta Zanzotto mi ha anche parecchio sgridata. Ma che mi dici della tua Basilicata?
GP. Beh, non è abituale che l’intervistatore faccia l’intervistato, ma non mi voglio sottrarre: non ho con la Basilicata un rapporto di poetica né autopromozionale, come ad esempio Arminio con l’Irpinia. Il quale Arminio mi ha sempre detto che un giorno mi sarei ritrovata più nostalgica e più disposta a riconoscere le mie radici. Non è ancora arrivato quel giorno: non rimpiango l’età della mia vita (fino ai 18 anni) in cui vivevo nella Lucania dei boschi, anche se non ho grandi motivi di rancore o di rifiuto. Non ero felice, credo fossero le ambizioni, il carattere. Ero brava a scuola, non passavo le versioni, mi piacevano di più i compagni delle compagne di classe, frivole, emancipate, riempivo quadernoni di progetti di romanzi, avevo un’idea fissa che conservai per anni, di scrivere un libro intitolato La logica fuzzy. Questo perché a casa mia erano tutti scienziati: mio padre ingegnere, mia zia fisica, i miei fratelli andavano allo scientifico. Dicevi del dialetto: nemmeno a casa mia si parlava, anche perché i miei genitori, pur essendo dello stesso paese, venivano da due rioni diversi in cui sorprendentemente sia lessico che fonetica erano dissimili: si prendevano in giro a vicenda, ma a casa si parlava italiano. Mio padre pose un chiaro interdetto su diminutivi e vezzeggiativi sin dall’infanzia, niente mammina papino fratellino, il mio nome poi c’era poco da accorciarlo (le mie amiche: Simo, Dani, Vale). Era direi rigido, ma non severissimo: potevo uscire e tornare a casa anche più tardi delle mie compagne, tanto c’erano i fratelli a farmi da scudo. Mia madre era più tormentata dal mio cosiddetto brutto carattere: non ero docile, non ero furba, combattevo battaglie inutili su cose di cui personalmente manco m’importava, le canne che non fumavo, il sesso che non praticavo. Il mio super-Io viene sicuramente da lì, dalla sua insoddisfazione. Ma qui mi devo fermare, perché voglio sapere qualcosa di più sulla vita d’albergo cui accennavi: materia da romanzo, no?
SB. L’albergo sarebbe materia da romanzo, sì, se io avessi il passo narrativo del romanziere, che non ho. Da qualche anno c’è una cartella, qui sul computer, con questo nome: L’albergo, ed è vuota, salvo un file word che si intitola Sotterranei, con poche righe scritte. Le ragioni sono tante, alcune impegnative dal punto di vista personale, ma risolvibili, per esempio, qualcuno si riconoscerà? E se si riconoscerà, si dispiacerà? Fino a che punto, essendo una materia così autobiografica, posso manipolarla, non sarebbe meglio trasferire tutto in un altro progetto narrativo, lasciando che l’albergo scompaia e tenendo solo il materiale umano non più contestualizzabile? Ma credo che la vera ragione sia quella che ho detto sopra, non ho la natura del romanziere, ho sempre praticato la forma breve e brevissima, e niente che io abbia scritto ha mai superato le novanta pagine. Per scrivere un romanzo bisogna saper superare una certa lentezza, accettare di essere ridondanti, star lì, gonfiare il momento. Certo non tutti e non dappertutto, ma rispetto alla prosa breve, dove la ridondanza può essere anche una questione di ritmo, la prosa narrativa è una cosa da fanteria, e io non sono un fante.
GP. Curioso che associ il narratore alla misura lunga: ma esistono e resistono la novella, il racconto (e ne hai scritti diversi, di libri di racconti), il romanzo breve (alcuni romanzi di Pavese sono in effetti racconti lunghi, Il compagno, La spiaggia…), ed è anzi la nostra tradizione più ricca e quella per cui i nostri autori sono noti in tutto il mondo, da Boccaccio a Pirandello. Il grande equivoco della narrativa di questi anni è stato proprio quello del Grande Romanzo. Molti autori, anche della mia generazione, lo hanno vanamente inseguito. Abbiamo un limite strutturale che è la nostra lingua, fatta più per la poesia, probabilmente, per una misura di massima condensazione e concentrazione. La lingua da romanzo adottata dai romanzieri di più larga visibilità fa subito “marchesa uscì alle cinque”. È una lingua inerte, posticcia, uscita dalla penna, come diceva Sanguineti, che non riproduce l’attrito, la complessità, l’opacità del reale multiplamente virgolettato e più spesso scimmiotta il traduttese, la lingua che si parla nei romanzi che leggiamo, che abbiamo letto in questi anni, andando da Marias a Franzen a Roth, Strout e via così. È un po’ come il cinema: a noi è venuto bene il neorealismo, il filone criminale, ma rispetto al cinema non di genere, di impronta più filosofica o esistenziale, siamo piccolissimi, c’è il minimalismo di Moretti, ma non c’è Bergman, nella nostra tradizione. Vado un po’ per le spicce, perché vorrei ritornare su un’altra cosa che dicevi, ovvero che hai paura, quando scrivi attingendo al vissuto, che qualcuno si possa risentire. È un problema che Siti, maestro di autofiction nel nuovo millennio, ha risolto dichiarandosi “pettegolo su sé stesso” o assolvendosi con la categoria dell’ “autobiografia di fatti inventati”. Insomma, sai meglio di me che potresti invocare i diritti della fantasia, o anche, alla Gadda, le trame criptosimboliche del reale: non sei tu che vai a frugare, ma i fatti e le persone (determinati fatti e determinate persone) a presentarsi a te, perché li narri. A me succede così, e amicus Plato sed magis amica veritas. Se devo chiudere con una domanda, visto che accennavo alla traduzione, mi piacerebbe sapere quando hai cominciato a tradurre e cos’è stato per te, il lavoro di traduzione, a lungo il tuo principale lavoro.
SB. No no, in generale non associo il narratore alla misura lunga, sono con te in tutto quello che dici, mi tiro solo fuori dalla misura lunga per quanto mi riguarda, se vogliamo cambiare metafora io sono una velocista, o al massimo una che corre i quattrocento metri. Ma hai detto delle cose che mi interessano, magari ci torniamo, intanto ti rispondo subito sulla traduzione: distinguerei tra il lavoro, che è venuto senza che io lo cercassi e che mi ha portato a tradurre negli anni una quarantina di opere, e il mio primo impulso a tradurre. Quando ero giovane tutti intorno a me traducevano, eravamo germanisti, anglisti, francesisti, capitava che qualcuno ti chiedesse se eri disponibile a fare qualcosa e se avevi tempo e voglia la facevi, anche senza firmarla. Il mio primo lavoro me lo ha passato Ferruccio Masini, a metà degli anni Settanta, collaboravamo entrambi con Per la critica…, una delle riviste fondate da Gianni Scalia. Feltrinelli gli aveva chiesto di rivedere una traduzione, lui non aveva tempo e lo ha chiesto a me, era così brutta che l’ho rifatta e l’editore l’ha pubblicata con il mio nome, ma senza pagarmela come traduzione, perciò l’ho mandata al Monselice, per ragioni venali, e ho vinto il premio per l’opera prima, in giuria c’era Cases che mi ha fatta chiamare dall’Einaudi, e ho continuato. Cases non sapeva di avermi bocciata come traduttrice una decina di anni prima, quando mio zio, che era un italianista dell’Università di Padova, gli aveva passato la mia traduzione di alcuni dei Poèmes en prose di Baudelaire e Cases aveva detto che era una traduzione immatura; del resto avevo sedici anni, incassai la sentenza come faccio sempre e non ci pensai più. Quella mia precoce e sfortunata traduzione nasceva dall’impulso a tradurre che Steiner ha così ben descritto nella prefazione alla seconda edizione di Dopo Babele: “spinta iniziale – aggressione – incorporazione – reciprocità o restituzione”. La spinta iniziale che ti porta verso il testo è come un passo che fai verso una sfera ancora chiusa, la leggi per la prima volta e cerchi di entrare in una lingua altra ma armata della tua: è quello il tuo strumento, perché leggendo metti in atto un pensiero attivo, leggi il francese e lo pensi in italiano, analizzi e pesi ogni parola e verso e suono, aggredisci il testo perché te ne appropri e te ne appropri con l’intento di assimilarlo e restituirlo. Uguale? Mai, ma non totalmente diverso, traducendo si cambia insieme, cambia il testo che traduci, perché assume nuove sfumature di significato che prima erano chiuse e le assume con il cambiamento del ritmo, anche, e della posizione delle parole che gli dai, benché tu sia sempre guidata da una necessità di fedeltà che è la porta stretta attraverso la quale puoi appropriartene e che nasce dalla spinta ermeneutica, e cambia la tua lingua che si apre alle interferenze del testo che hai tradotto. Io ho cominciato a tradurre per me stessa così. Avevo letto quel testo, volevo quel testo, lo volevo nella mia lingua, lo volevo far mio, e lo ho tradotto. Nel lavoro le cose non sono così appassionate e drammatiche, ma lo schema è lo stesso. Capita che ci siano pagine che ti prendono allo stesso modo, ma la prosa narrativa non ti espone quasi mai, o non espone quasi mai me, a quella tensione cognitiva e creativa. Proprio per le ragioni che dicevo sopra a proposito della scrittura romanzesca classica, il fante ha una vita emotiva meno febbrile.
Ma vorrei tornare a quello che dicevi del romanzo. Sono d’accordo quando dici che la nostra lingua è fatta più per la poesia con la sua concisione che per la narrazione romanzesca, così almeno ci appare e così del resto ci siamo sempre detti, autopunendoci, esiliandoci dalla grande tradizione romanzesca europea, ma in nessuna pagina manniana, né in Musil, o in Bernhard, per avvicinarci ai nostri giorni, ci sono marchese che escono a una cert’ora, il grande fallimento italiano delle marchese sembra linguistico, ma nasce prima, è strutturale, e diventa evidente nella lingua perché alle spalle non abbiamo una cultura romanzesca e una tradizione romanzesca e una forma mentis romanzesca sulle quali costruire, e nel caso stravolgere, la forma romanzo, e non l’abbiamo forse perché non abbiamo avuto in passato quel pubblico borghese per il quale il romanzo ottocentesco è stato scritto negli altri paesi. Manzoni e Nievo non bastano certo a riempire lo spazio che altrove è riempito da stratificazioni romanzesche complesse. Anche i romanzi contemporanei italiani di dimensioni più estese, quelli che a prima vista sembrano davvero romanzi, sono quasi sempre privi di struttura, sono lunghissimi monologhi, deliri, sogni, devono molto all’io lirico, persino. E allora, perché correre dietro a una forma che ci ha superato mille volte, radichiamoci in noi, rivendichiamo senza autopunirci la nostra specificità, scriviamo romanzi brevi, o come forse farò io con l’albergo, cerchiamo i modelli altrove.
GP. Sì, quello che dici sull’assenza di una borghesia egemone è di sicuro il motivo dell’anomalia italiana: l’assenza, al netto di alcune eccezioni (aggiungerei Verga e De Roberto), di una grande tradizione romanzesca paragonabile a quella francese, tedesca, inglese, russa, tra Otto e Novecento. Già i romanzi di Pirandello e Tozzi, ma anche tutto sommato quelli di Svevo, muovendosi nell’area modernista sono romanzi tutt’altro che affabulatori (o ambiziosi alla maniera dei tedeschi). Poi sono arrivati nouveau roman e neoavanguardia, il romanzo autre, il personaggio che non è più il personaggio-uomo e tutto quello che sappiamo. E però il romanzo sperimentale, pur avendo in origine a disposizione sedi editoriali di prestigio, in Italia, e al contempo molto ben rappresentate sul mercato (a differenza di quanto accadeva agli stessi autori per la poesia: curioso, no?), non ha segnato un nuovo corso, soprattutto per l’ostilità dei conservatori, dell’area-Moravia, per dirla così. Loro erano i “veri” romanzieri, gli altri erano gli “illeggibili”. L’area che vedo dominare oggi è questa, nella narrativa contemporanea: l’area editorialmente vincente (sempre meno, peraltro, dati i numeri costantemente in calo) degli autori che vanno in tivù, ai premi, che hanno una cerchia di supporter autorevoli e che non fanno gran fatica a pubblicare. Attorno, c’è tutto il sottobosco più o meno emergente più o meno autorevole, l’area che un tempo si diceva di nicchia, e che si riempie di altre realtà editoriali quasi ogni anno, e di nuovi autori, e di scritture meno convenzionali (senza più arrivare all’audacia neoavanguardista, soprattutto sul piano del linguaggio). Sai che ti dico? Che io nell’ultimo anno di romanzi italiani non ne ho letti, o molto meno che in passato. Un paio, credo, a dir tanto. Sono leggermente cambiati i miei interessi, mi occupo in modo sempre più professionale (cioè con un’agenda imposta dai committenti) di poesia e ho scritto un saggio (sempre sulla poesia). Il romanzo mi annoia, mi annoiano le discussioni periodiche sul “capolavoro”, il “genio” di turno, mi annoia il consenso social attorno a certi libri obbligatori che poi nel giro di qualche mese nessuno nomina più. Se devo tenere un libro sul comodino, preferisco che sia Bernhard, o Leopardi. Non mi servono “storie”, mi servono pensieri, idee, al limite parole nuove. Ecco, in questo credo che l’aver tradotto tanto (e anche il modo in cui ne hai parlato qui lo conferma) ti abbia molto avvantaggiato. È così?
SB. I romanzi contemporanei annoiano anche me. Li prendo per restare nel mio tempo – ormai solo in parte mio – o leggo i famosi “estratti”, tanto per capire di cosa si tratta. Ma quelli di impronta tradizionale non arrivano mai non dico allo splendore del modello ottocentesco, ma nemmeno alla godibilità di Le Carré, che io amo molto, come lettura da divano, perché mi interessa la doppiezza e non c’è niente di più doppio e anche triplo della spia, e poi Le Carré è un eccellente artigiano, capace di costruire ambienti e personaggi e conflitti etici e di dominare la struttura narrativa classica perché a differenza di noi ci è nato, nel romanzone ottocentesco. Quelli più sperimentali, invece, che corrono volontariamente più rischi, sia linguistici che strutturali, e non inseguono il pubblico, in realtà si muovono in acque note, perché le abbiamo già viste tutte le sperimentazioni, giusto?, e quelle contemporanee non mi fanno pensare in modo nuovo, che era l’obiettivo di quelle novecentesche, hanno perso quella forza innovativa e dirompente, si tratta, in fondo, se non di repliche, di variazioni sul tema. Si finisce per aspettare che arrivi una voce che si imponga, finalmente, com’è stata la voce di Bernhard ma sono rare, e lo sono sempre state. Io in qualche modo capisco Trevisan, i suoi primi libri, che non sono mai riuscita a leggere perché mi infastidiva il giro di blues bernhardiano, ma lo capisco, è la ragione per cui non ho mai voluto tradurre Kafka, correvo anch’io quel rischio, di essere segnata dalla voce di un altro e metterci anni per trovare la mia. Perciò i critici che seguono pazientemente, e pazientemente recensiscono, la romanzeria contemporanea, in fondo li ammiro, mi sembra una forma di dedizione al genere che non condivido ma rispetto. Quanto alla domanda che mi hai fatto, mah, non lo so se la traduzione mi ha avvantaggiato, se pensi che ho tradotto anche moltissimo Böll, che è un narratore molto amato, ma non è certo un maestro di scrittura, mi pare di no. Direi anzi che è stato il contrario, nel lavoro di traduzione mi ha avvantaggiato il fatto di aver sempre molto scritto. C’è una lettera di Pavese ad Antonio Giolitti, del ‘47, al tempo in cui dovevano essere assegnate le traduzioni di Proust, pubblicata in Officina Einaudi, che dice: «Con tutto che Elena traduca con scrupolo e pulizia, mi pare le manchi di aver passato anni e anni nei tormenti letterari ed espressivi – sola condizione per affrontare un Proust con speranza di successo. Qui si tratta veramente di ‘mestiere’, di tour de main e di quell’indefinibile senso delle parole che si acquista soltanto attraverso i molti e molti insuccessi ed esperimenti e contatti retorici di una vita ‘letteraria’.»
Perciò direi che la traduzione è stata un’attività importante, ma collaterale, un rivolo che non ha mai interferito con la scrittura e che al contrario ne ha tratto beneficio, ed è cambiata quando la scrittura cambiava, più libera diventava la scrittura, dai vincoli delle influenze e della tradizione (poco italiana, questo sì), più duttile e libero era l’approccio alla traduzione. E più libera ovviamente la testa. Inoltre, tradurre ha fatto di me una migliore lettrice, più accorta, più critica, perché il modo in cui leggi quando traduci, pesando e indagando ogni singola parola e ogni frase, nella lettura, anche quella critica, non arrivi mai a farlo con questa acribia, o lo fai su un verso e una pagina e non magari sul verso o la pagina successivi, sei necessariamente selettiva, cosa che la traduzione non ti permette mai, ogni parola e ogni riga ti chiedono la stessa attenzione, anche se non ti mettono sempre di fronte alle stesse difficoltà, ovviamente. È un mestiere faticosissimo, anche per questo ho smesso, alla fine ti brucia la testa.
GP. Torniamo all’idea della sperimentazione e del linguaggio, o dei linguaggi. Un’idea che è un’ossessione degli anni Sessanta, non solo neoavanguardista: ne parla Montale in Poesia inclusiva, ne parla Pasolini in tutti i suoi scritti sulla lingua, in un’ottica tutta diversa da quella di Sanguineti, così per Calvino e la sua “antilingua”. Quando mi ritrovo a parlare di com’è scritto un romanzo con scrittori che non vengono dal mio stesso tipo di formazione o di letture, constato che definiamo “scrivere bene” qualcosa di profondamente diverso. La lingua che seduce non solo i lettori comuni ma anche molti degli addetti ai lavori io la trovo scandalosamente arretrata. Leggo da un libro recente che ho sul tavolo, per lavoro: “Con uno strattone si spostò la pesante sciarpa dal mento” (con tanto di inversione dell’ordo naturalis). E, più avanti: “Non piangere, intimò”. O, ancora: “con sincero sconcerto” e via così. Un lettore sprovveduto può trovarla una lingua corretta, e soprattutto morbida, senza intoppi. A cosa serve, questa lingua? Non è inerte? Non è il romanzese che conosciamo come una lingua dell’ottundimento, dello sforzo relativo, dell’evasione? Perché non vogliamo essere scossi, frustati, come diceva Balestrini, dalle parole, perché carezze e non scossoni? Se andiamo al cinema sono quelle le opzioni che mediamente preferiamo: azione, suspence, thrilling. Se leggiamo, tutt’altro. Ti ricordi la conferenza di Mann sulla Montagna incantata, quando dice: il mio libro, senza presunzione, va letto almeno due volte. Io continuo e continuerò sempre a chiedermi perché uno debba durar fatica a leggere qualcosa di puramente diversivo, se si può dir così. Ma non è meglio farsi una passeggiata, due chiacchiere con qualcuno, a quel punto?
SB. Ti seguo e sono d’accordo quando mi dici che il romanzo “ben fatto” e la lirica “di scuola” veicolano un senso della realtà ormai superato o così periferico da essere una mera ripetizione di stilemi vecchi e ininfluenti. Ma negli anni Sessanta in cui la neoavanguardia poneva il problema, arte e politica non si incontrarono, e questo incontro mancato contribuì al divorzio tra opinione pubblica, cioè il lettore medio, e letteratura avanzata. Il lettore medio è per sua natura arretrato, ha sempre cercato la storia significativa, non la trama, intendiamoci, non voglio dire che sia sempre un pessimo lettore, ma una storia devi dargliela, per farci quelle cose che da spettatore fa con le serie, e direi che sono tre: evasione, identificazione, reazione – reazione alla provocazione del pensiero, all’introspezione, alla riflessione, allo scandalo. Le serie hanno il vantaggio di poter sostituire alla lingua inerte che fa procedere l’ingranaggio verso la fine, il corpo dell’attore. Se ci fai caso, nelle serie e nel cinema il vero linguaggio, oltre ai movimenti di macchina, è quello dei corpi. Dove lo scrittore si sente costretto a dire “Con uno strattone si spostò la pesante sciarpa dal mento”, la serie ti mostra l’attore che se la sposta, e se ha una faccia e un corpo non inerti, non pensi che sia un gesto inutile, è un gesto che crea il personaggio. Ricordo una regia di La vita è sogno di Ronconi, nel 2000, mi pare, al teatro Strehler, con Franco Branciaroli nel ruolo di Basilio, a un certo punto, mi pare di ricordare dopo un momento di conflitto tra padre e figlio, Basilio/Branciaroli si strappa di dosso il mantello o Sigismondo gli strappa di dosso il mantello e Branciaroli resta nudo sul palcoscenico, ed è una nudità improvvisa e choccante, il corpo di Branciaroli non è un corpo bello e nemmeno giovane, ma in quel momento è Il Corpo dell’attore, è linguaggio teatrale. Credo che quello sia stato il primo momento, nonostante tutti i film e anche tutto il teatro soprattutto d’avanguardia, dal Living Theatre a Barba, che ho visto negli anni, in cui mi sono resa conto di che cosa volesse dire il corpo, e di quanto anche a teatro la retorica passi attraverso la voce e il corpo dell’attore. Lo sapevo senza saperlo, e Branciaroli me lo ha sbattuto in faccia.
GP. So che non condividi la mia passione per Sanguineti, però una cosa che mi ha insegnato è che non ha senso abbassare le proprie competenze per raggiungere le cosiddette masse, e avrebbe molto più senso, invece, adoperarsi perché, nelle masse, il maggior numero di persone acquisiscano gli strumenti atti ad apprezzare un’arte più complessa di quella corrente. Cioè non è democratico affatto pensare che esistano delle persone elette, e che a quelle siano destinate i Mann e i Musil, e gli ottentotti cui destiniamo invece le fetenzie. Come scrivere oggi è effettivamente “il” problema: la narrativa egemone è quella della pesante sciarpa scostata dal mento. Che non è solo un problema di irricevibilità sul piano stilistico, ma un problema di coscienza, per me: chi si sta ingannando, per chi si sta fingendo, di fronte a chi ci si sta atteggiando a narratore mimetico, o a narratore onnisciente, o a narratore sperimentale (perché ovviamente esiste una maniera anche in questo senso, non ce lo nascondiamo). Michele Mari ha detto una cosa interessante, in proposito: il primo problema, per un autore, è scegliersi i modelli, avere i modelli giusti è già decisivo. Io dico sempre ai miei allievi di essere ambiziosi, e di pensare al loro poeta preferito che legge i versi che hanno appena scritto. Se ne provano vergogna, via, buttare. Ma certo, la poesia ha davvero un obbligo in più, rispetto alla lingua, a petto del romanzo che può salvarsi per altre vie, con la storia coinvolgente, un’architettura sapiente, una serie di espedienti che in uno spazio meno contenuto può dispiegare. Una cosa interessante dei nostri anni è che i poeti della mia generazione o di quella un attimo prima, che hanno a lungo disdegnato il romanzo, come forma eccessivamente mainstream, si stiano tutti invece convertendo. Non so se questo dipenda dalla passata autoreclusione nella nicchia (si diceva “la sindrome della Camera verde”, da un locale romano praticamente biposto), poi tramutatasi in stanchezza e desiderio di maggior visibilità, che pure non troverei affatto censurabile: perché si deve pensare che lo scrittore in Italia oggi, delle generazioni ultime o penultime, sia Paolo Giordano e non Bortolotti?
SB. In realtà quando la Montagna incantata uscì ebbe un grande successo. Se ricordo bene nell’ordine delle decine di migliaia di copie, ed era il ’24. Il romanzo si inserì nell’orizzonte di attesa di un pubblico che dopo la guerra si rispecchiava in Hans Castorp. Sono quasi certa, se devo giudicare dalle letture della mia giovane zia che era della generazione successiva, quella della Seconda guerra mondiale, ma altrettanto avida di conoscenza, che il lettore medio di Mann non saltasse il confronto filosofico tra Naphta e Settembrini, anzi. Oggi sicuramente sì, ma allora il pubblico aveva un’altra qualità, i Mann, Nietzsche, Kafka erano letti come maestri di pensiero. Ed è certo che Mann, dalla pubblicazione dei Buddenbrook a quella della Montagna, avesse sentito sempre più forte il bisogno di parlare a tutti e cercasse di soddisfare i bisogni di ogni tipologia di lettore, da quelli lirico-sentimentali e quelli intellettualmente più sofisticati. La pratica di questo doppio livello è già presente nel saggio su Goethe e Tolstoj. Oggi un lavoro del genere sarebbe impossibile, bisogna scegliere, o di qua o di là. Lo trovo triste, personalmente, limitante, ma mi rendo anche conto che non ci sono più le condizioni. Il passaggio dal grandangolo al microscopio si è compiuto da decenni, e se chi vuol scrivere il romanzetto scrive quelle operine flebili in cui la sciarpa nemmeno si nota più perché non c’è niente di vivo, né la storia né i caratteri né la lingua, chi vuol scrivere il romanzone finisce per sfornare prodotti pomposi e inautentici. O tour de force da ogni punto di vista muscolari, e sicuramente ammirevoli per la capacità di tenere tutto assieme come Le benevole, che letto una volta tuttavia non si leggerà mai più, mentre su Mann torni e ritorni, come su Musil, e ai giorni nostri su Bernhard o Sebald e persino Handke, che è tanto più connotato e forse generazionale. Quella cosa che suggerisci ai tuoi allievi, che bisogna nutrire la vergogna per fare qualcosa di accettabile, la condivido, ma è in contrasto con un mondo che ti dice: vogliti bene, bevi uno spritz, non esporti a troppe fatiche, non stressarti, abbi il senso del tuo valore, non essere troppo esigente con te stessa, non soffrire che non vale la pena, cerca subito soddisfazione. È un pensiero diffuso da consultorio psicologico, o da mamma-maestra dove tutto dev’essere risolto e non causare dolore. E forse, ma devi dirmelo tu, nasce anche da qui il rifiuto della nicchia e della solitudine che le nicchie comportano rispetto al mondo, e un maggior desiderio di visibilità che nemmeno io trovo censurabile in sé. Ma forse è un po’ poco per spingere a fare il salto di genere verso il romanzo, o se non il romanzo la narratività, tanto che penso che dipenda piuttosto da un sentimento di usura degli strumenti poetici dovuto al numero davvero eccessivo di poeti da cui siamo circondati.
GP. A me capita quello che mi capitava all’università coi classicisti e i contemporaneisti. Quando sto con i narratori, soprattutto quelli più riconosciuti e blasonati, non vedo l’ora di tornare nella nicchia a parlare di googlism e di flarf. Quando mi ritrovo nella nicchia mi accorgo che ci sono degli integralismi, delle intransigenze, dei cascami ideologici davvero usurati e fuori tempo massimo. Chi agita il marxismo come vessillo differenziale, chi usa il cut-up solo perché diversamente non saprebbe scrivere (e non era il caso di Balestrini, che è stato, anzi sospettato del contrario: di fingere automatismi della macchina dove c’era quantomeno una postproduzione – a tacere dell’invenzione – autoriale), chi si arrocca nel mondo della lirica perché ne valuta opportunisticamente il potenziale di maggior visibilità. All’interno del campo poetico attuale vedo un caos fecondo, anche, e certamente non il diluvio preconizzato da Sanguineti nel quarantennale della neoavanguardia. Ma nemmeno spiccano delle voci singole, non giganteggiano. Ci sono stati gruppi (GAMMM, ad esempio) e antologie (Prosa in prosa e i Narratori degli anni Zero, più che i poeti di Ostuni, un po’ “romanocentrici”), ma l’antitesi Balestrini/De Angelis, Novissimi/Parola innamorata non si pone perché non ci sono, a mio parere, grandi nomi. Ed è un portato dell’epoca, anche: Milo De Angelis e Valerio Magrelli saranno probabilmente gli ultimi poeti detentori di una forte autorialità, quella che può prescindere dai singoli esiti e affidarsi al nome, al capitale reputazionale. Un poeta che viene dal sottobosco e che poi ha lavorato sapientemente alla costruzione del proprio successo anche in termini di visibilità mediatica è stato Franco Arminio, che però ha usato il grimaldello della “paesologia” in un’ottica assolutamente premoderna del fare comunità, per poi piegarsi alla logica della società dello spettacolo, diventare un comunicatore, rigettando l’antitesi che per fortuna resiste tra quel tipo di fruizione massiva e il riconoscimento di una qualità che sta nella differenza. Questo spazio di differenza è secondo me salvaguardato proprio dalla poesia, che nemmeno nei casi eclatanti (Milo o Magrelli) raggiunge cifre apprezzabili per il mercato. Viceversa, dove la chiave di vendita è essere il meno possibile sperimentali, cioè adeguarsi al noto e anzi, come diceva Bourdieu all’allodossia, il noto spacciato per nuovo (ogni mese un capolavoro), è proprio nella romanzeria, che è l’ambito in cui la critica ha meno ruolo, meno possibilità di incidenza, schiacciata da altre logiche che dal dominio sono passate allo sterminio: di qualunque alternativa. La poesia contemporanea si tiene strette le acquisizioni neoavanguardiste, il romanzo ne ha fatto strage ed è tornato integralmente, malsanamente moraviano. Mi chiedo sempre perché non esista più il comico, perché nessuno scriva come Corrado Costa o come Malerba. Ha da essere per forza seriosa (quanto meno è seria, cioè meno è degna di essere considerata tale), la letteratura?
SB. Non chiederlo a me che un romanzo comico l’ho scritto. Ma dei miei quattro lettori, l’unico a cui fosse davvero piaciuto (“io che quando leggo non rido mai”, mi aveva detto, “ho riso moltissimo”) era stato Mario Lavagetto. Degli altri, Alfonso Berardinelli, che allora mi capitava di vedere ogni tanto, mi aveva liquidata dicendo che avevo messo in scena l’Italia, ma evidentemente non nel modo giusto; Cacciari, mi aveva telefonato e mi aveva detto, si ride, sì, ma è il più brutto romanzo che io abbia mai letto in vita mia; di Agosti non ricordo le parole ma anche da parte sua era stato un no secco e anche un po’ scandalizzato. Scrivere cose comiche, se non sono anche geometriche, cioè astratte e irriconoscibili come comiche, è disdicevole, ma nessuno lo sosterrebbe apertamente; per scrivere cose comiche devi essere merceologicamente uno scrittore comico, e se sei merceologicamente uno scrittore comico devi anche essere uno scrittore poco scritto, con una cifra leggera, perché il tuo pubblico non deve far fatica, non puoi essere al tempo stesso comico e lavorato. Se sei uno scrittore e vuoi continuare a esserlo anche agli occhi degli altri, la strada è in salita. Io ho smesso da un pezzo di amareggiarmi, direi dall’esito inconcludente del romanzetto comico, e visto che non posso fare a meno di scrivere il mondo, lo faccio in quella forma a perdere che è la rete, perché se anche mi restassero le energie intellettuali e morali che servono per scrivere un nuovo libro, so già che né il libro da un punto di vista merceologico, né io come personaggio potrei avere una qualche appetibilità perché un editore puntasse i suoi denari su di me.
GP. Dici della rete “forma a perdere”: mi colpisce perché tu in rete sei stata molto attiva ben priva di me, ed eri un personaggio prima che io cominciassi a essere un po’ più virale (credo da una discussione su “Nazione indiana” cui presi parte con Cortellessa, mi pare sul “ritorno alla realtà”, non so più quanti anni fa, una dozzina, almeno…). E credo davvero che la rete non sia più solo un luogo, ma uno strumento di elaborazione di nuovi codici e linguaggi. Penso a Bortolotti, che è partito dalla misura dei tweet con le sue Tracce sul blog Canopo, ma anche a Pecoraro, già Tashtego, che ha rifuso i dialoghetti del Porcacci già usciti come post di Facebook nello Stradone. Io stessa per le “inattuali” (le frasi orecchiate qua e là che inserisco nei miei ultimi libri di poesia) mi servo sempre di più dei post su Facebook, che sono questa nuova forma di bavardage, di chiacchiera del contemporaneo, nella piazza virtuale che però è davvero sempre più reale (io e te siamo entrate in dialogo prima via Facebook, poi nella real life, ma proseguiamo via Facebook senza nessuna percezione della distanza, o con una percezione che non è avvertimento di una minor qualità o profondità). Mi viene da pensare che la letteratura mainstream ci sembra nascere già vecchia anche perché è poco compromessa con questi nuovi linguaggi e forme: uno come Pecoraro parte avvantaggiato, conosce la rete e le sue dinamiche, non rischia che la marchesa esca di casa alle cinque. Proprio pensando alle “inattuali”, quando chiesi a un amico poeta un consiglio su come impaginarle, mi suggerì la modalità installativa, fuori dalla pagina. Mi sono ritrovata a pensare quanto sia vecchia, in effetti, la gabbia tipografica, quanto non possa più corrispondere alle cose che scriviamo, quanto sia più interessante, infine, leggere te o (pochi) altri in rete piuttosto che l’ultimo romanzo pluripremiato. Quindi, secondo te, è questo che sta accadendo, che persone più consapevoli, più colte (e forse meno furbe, ahinoi) passino molto più tempo a scrivere e a leggere in rete che con un libro in mano, e che persone molto informate sappiano perfettamente che questo non è di per sé un male, come si continua a inculcare ai “nostri ragazzi”? Eppure io per prima quando leggo cado, talvolta, prigioniera di una sorta di malia, sento la bellezza non tanto della carta in sé (che leggo pure a schermo, ovviamente) ma proprio della narrazione, la sua forza probabilmente inesauribile, che oggi si è spostata sulle serie, a livello di fruizione, ma per chi è nato, come lettore, con Dostoevskij o Kafka, difficilmente verrà meno come esigenza. Quindi, come si fa, secondo te. Cioè, meglio, cosa accadrà, cosa ne sarà delle nostre scritture, saremo in grado di finalizzarle, e vorremo ancora, o questa tua “rinuncia” varrà progressivamente per tutti. Che poi di libri ne abbiamo già tantissimi, no? A volte seriamente mi chiedo come venga in mente a così tanta gente di riempire e sprecare altra carta.
SB. Ripulendo la lista infinita dei miei documenti sul Mac sono incappata in un vecchissimo file word in cui avevo copiato alcune righe di Mozzi che rispondendo a qualcuno, forse su NI, diceva esattamente le cose che penso anch’io: «Hai provato a domandarti perché i romanzi di Moccia hanno venduto tanto? Hai provato a domandarti perché invece, la maggior parte delle opere letterarie pubblicate in Italia venda molto poco? La qualità letteraria non c’entra nulla. C’entra la capacità di un’opera di essere adeguata al pubblico al quale si è rivolta, di avere le caratteristiche che permettono all’editore di identificare il pubblico al quale è rivolta e le caratteristiche che permettono a quel pubblico di riconoscerla. Se c’è questo, basta una qualità letteraria mediocre per farcela. Ma forse tu non ti rendi conto di quanto sia difficile avere questo, di quanta professionalità ci voglia per avere questo […] E anche, direi, un tipo specifico di genialità».
È questo il punto che divide me e te, Gilda: non il giudizio di valore sui testi, dove concordiamo sempre, ma il fatto che tu leggi come una mia particolare tolleranza, o passività il riconoscimento della specificità commerciale di un’opera dell’ingegno, della professionalità di chi la produce e del preciso e non indifferente talento, magari genialità no, ma sicuramente talento che ci vuole per produrla. Non ci volesse talento e professionalità, probabilmente io starei scrivendo proprio ora un romanzetto cinico e sentimentale con il quale risolvere i miei attuali problemi logistico-economici. E invece, anche volendo, non ne sarei capace, e nemmeno tu. E che non ci interessi farlo è secondario. Non è solo la noia tremenda che mi ha preso dopo quattro o cinque pagine quel paio di volte in cui ci ho provato, no, è che proprio non ne sono capace, io posso tradurre un cattivo libro, se devo, ho quel talento, non posso scrivere un romanzetto sentimentale, o un noir. Divento stolida. Il problema è che quei romanzetti che una volta stavano nel loro senza che noi ce ne accorgessimo, hanno sconfinato. È lo sconfinamento che ci urta. Lo sconfinamento danneggia, inquina, zittisce quel che c’è di meglio, lo spinge sempre più in là, in territori in cui i lettori sono pochi. E lo sconfinamento deriva dai cambiamenti sociali e non si può contrastare a parole, e nemmeno a fatti, visto che nessuno di noi ha il capitale o le qualità imprenditoriali necessarie per creare magari una casa editrice di soli testi letterari che non soccomba di fronte al numero piccolissimo dei lettori. Perché sono convinta che, anche se un editore si battesse con enormi mezzi economici ed energie imprenditoriali per imporre un titolo, se il titolo non ha le caratteristiche elencate da Mozzi, si affloscerebbe. Sulla questione della rete sono invece in grande sintonia con te. È interessante parlare della rete e del ruolo che ha avuto sia collettivamente che nei casi personali, come quello di Pec e mio, che siamo diversissimi e quasi contrapposti, ma soprattutto di voi più giovani. Nel mio caso, tuffarmi nel chiacchiericcio di Nazione Indiana è stato uno sciacquare i panni in Arno all’incontrario. Io volevo sporcare la lingua, renderla più rapida, personale e diretta, uscire dalla tradizione culturale dalla quale venivo, non tanto italiana, perché i miei modelli giovanili finivano con Montale, ma soprattutto cacanica, intrisa del simbolismo della svolta di secolo, di Trakl, di tutta quella generazione di poeti e artisti uscita devastata, se ne era uscita, dalla Prima guerra mondiale. E dei grandissimi prosatori della prima metà del secolo. Con quei punti di riferimento culturale, e visto l’ambiente teorico non propriamente letterario che frequentavo, il pop, che è stato così importante per le generazioni immediatamente successive, proprio non sapevo cosa fosse, a parte il rock, che era una cosa che si ballava. La rete per me è stata questo, parlare scritto in modo diverso da come avevo parlato e scritto (separatamente) fino a tutti gli anni ‘80. Tu una volta mi hai detto che stilisti come Del Giudice non possono più esistere, oggi. Quel lavoro sullo stile è finito. È vero. Lo ho capito su “Nazione Indiana”. La rete è sicuramente stata, per i più giovani, uno strumento di elaborazione di nuovi codici e nuovi linguaggi, come dici, ma per me è stata una cosa diversa, che ha medicato il passato, senza aprire un futuro, perché è vero che mi ha cambiata, ma nell’approccio, più che nella sostanza; il chiacchiericcio è stato una liberazione come togliersi scarpe e giacca, ma con il patto che nel farlo si resti lì, che si agisca lì, su fb, mentre io sono ancora una che quando scrive pensa al libro, alla carta, pur nella consapevolezza di cui ho detto di non essere una romanziera, ma una micro-narratrice che viene dalla poesia. Perché se tu sei nata come lettrice di Kafka e Dostoevskij, pensa a me, che sono nata e vissuta così per qualche decennio in più. Per una della mia generazione, e così letterata, la scrittura a perdere puzza un po’ anche di sconfitta, non molto, perché io muto con il mutare delle cose, ma un lieve tanfo di occasioni mancate, indubbiamente c’è.
In generale avrei trovato interessante un’argomentazione analitica sul perché «sono d’accordo quando dici che la nostra lingua è fatta più per la poesia con la sua concisione che per la narrazione romanzesca» (in realtà credo che Bortoli intenda che lei non si sente tagliata per la misura romanzesca): seguo l’argomentazione sulla mancanza di una tradizione all’altezza di altre nazioni, mi è meno chiaro per quale motivo la lingua italiana non sia fatta per scrivere romanzi.
Ottimo dialogo, illuminante e capace di dare spunti di riflessione su temi importanti.Gilda Policastro è una scrittrice complessa e capace di spaziare in ogni campo: poesia, narrativa, critica. Seguendola da molto tempo, mi permetto di dire che sia giunta a una piena maturità artistica e umana. Del resto la boa dei cinquant’anni generalmente fa da spartiacque nella vita di una persona e la porta a tirare i fili, come è capitato, mi pare, anche a Gilda Policastro.