di Pietro Pascarelli

 

Ho letto e riletto ultimamente due brevi opere straordinarie, La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth e La leggenda di San Giuliano l’Ospitaliere, di Gustave Flaubert, che commento insieme, confrontandole per alcuni aspetti, perché credo che sia un buon modo per trarre il maggior vantaggio dalla loro lettura. Nel tentativo di spiegare il perché dell’intensa fascinazione che su di me esercitano queste due narrazioni, potrei dire molte cose, ad esempio riguardanti il loro valore letterario e la tecnica narrativa, o l’incastro significativo con le storie di vita degli autori al momento della scrittura, particolarmente difficili, sapendo però del rischio di lasciare sottaciute, e non perché lo voglia, le motivazioni forse più importanti, salvo un approfondimento che tenterò, e che assume talvolta le caratteristiche di un procedimento indiziario. Esse potrebbero essere dell’ordine dell’inconscio, e in quanto tali solo inferibili, ma vi è la possibilità che possano riguardare alcune misteriose caratteristiche e finalità della scrittura, che non possono che necessariamente restare nascoste, segrete, comunque sconosciute, e sono tuttavia almeno in parte verificabili sulla scorta anche di dati oggettivi. A questo proposito, fra altre posizioni concettuali che circondano con il loro alone di luce l’oscurità intorno a questa materia, mi è rimasta impressa nella mente una frase di Paul Valéry :”La poesia è scritta da qualcuno che non è lo scrittore a qualcuno che non è il lettore”, che il poeta americano Ron Padgett mette in exergo alla traduzione italiana (Del Vecchio 2020) della sua raccolta di poesie dal titolo Non praticare il cannibalismo. Mi pare che essa possa ben applicarsi a queste due leggende, come in parte si intuisce, in parte spiegherò espressamente più avanti.

 

Le due narrazioni sono per tanti aspetti differenti, ma con qualcosa di comune, ad esempio in primo luogo il fatto che siano due storie apparentemente di colpa/peccato e di espiazione/riscatto, con esito nel perdono celeste e grandiosa ascensione al cielo, o in una vertigine improvvisa di rapimento mistico, e che esse in realtà -così a me pare-  siano due grandi storie d’amore. Il cui nucleo lacerato, contraddittorio e ambiguo, celato e manifesto, gridato e sussurrato, è il bisogno d’amore umile e umano, e il desiderio di incontrarlo, l’amore, in qualunque forma e modo. Non solo amore carnale per uomini o donne, non solo per questa o quella persona, ma amore come tensione positiva verso le creature e ogni altro elemento del mondo, amore spirituale che si rivolge verso Dio per le alte sfere, amore di sé che soccorre nei momenti più atroci, legame amoroso con una fede, una parola, un ideale. Le due narrazioni di Flaubert e Roth coi loro stili profondamente diversi invitano a considerare la medesima cosa, la possibilità che nella commedia umana l’unica ricompensa, l’unico vero dono, l’unica vita vera sia l’amore, che trascorre verso ogni temperatura di colore e luce facendosi per sfumature o contrasti carne e spirito, sole che non disdegna la tenebra, balsamo per ogni piaga, redenzione miracolosa.  Bruciando e sradicando senza complimenti l’inerzia, rifiutando di cedere e di non vedere uno scampo di fronte all’orrore del reale, l’amore ci mostra come l’altra faccia della miseria sia lo splendore, come dietro la catastrofe apparente sia la rinascita, allo stesso modo in cui inversamente l’altra faccia della grandezza è la debolezza e la crisi totale anche per una sola e piccola ferita, che lede l’integrità narcisistica del sé. Amore bisognoso di calore e scambio, libero dall’oggetto e da ogni ipotesi precostituita di bellezza e valore, pronto sublimando a cambiare meta del suo desiderio, capace di apprezzare il perdono come amore riconquistato, in completo adattamento alle contingenze dei diversi tempi e mondi culturali. L’oggetto d’amore è solo illusoriamente oggetto stabile e unico e insostituibile, nella visione psicoanalitica esso per definizione è fungibile, sostituibile all’infinito da oggetti nuovi, essendo con ciò sorgente di desiderio e di vita. La sponda sublimatoria è sempre disponibile, ma cambia il modo della soddisfazione che si riceve, a seconda che il riconoscimento sia religioso, o sociale, e che il merito prevalente sia spirituale o artistico.

 

Dicevo della diversità e dei punti in comune delle due Leggende. Quella narrata da Roth è la storia di un uomo che la vita ha consumato fino a privarlo di ogni riconoscibile differenziazione, nella rinuncia alla propria storia, alle proprie scelte, al rapporto con se stesso nel tempo, al patto di alleanza col proprio corpo e col proprio desiderio. Naufrago metropolitano alla deriva, e con residenza sotto i ponti della Senna nella Parigi degli anni 1930, passa da una sbornia all’altra senza trarne alcun piacere, senza porsi alcuna domanda, senza mai interrompere la passività con cui si abbandona alla perdizione. Finché…Finché non appare sulla scena qualcosa che fa pensare a un intervento del soprannaturale, a un’articolazione del divino con l’umano che cambia la vita. Qualcuno ha bisogno, verosimilmente per espiare, di fare del bene, e vaga per gli angiporti alla ricerca di dannati, degli ultimi, di chi necessita d’aiuto. E così un anziano signore “ben vestito” si rivolge affabilmente ad Andreas -questo è il nome del protagonista- offrendogli una somma di denaro, quindi la possibilità di mangiare, bere, dormire in un letto e lavarsi e vestirsi, tornare a vivere, spezzare la catena del declino e della rinuncia totale. Dato l’alto senso dell’onore di Andreas, che la condizione di clochard non può se non rinforzare, egli risponde di poter accettare solo a patto di poter presto restituire, e si avvia un doppio movimento. Nel suo animo parte una trasformazione che ridarà senso alla vita e capacità di gioirne anche solo per una bella bevuta dopo un buon pasto, e nella storia ha inizio una serie ininterrotta di apparenti casualità che rendono avventurosa e difficile, sempre rinviata, l’ora in cui Andreas potrà saldare come ha promesso il suo debito, accettando l’indicazione dello sconosciuto a restituire i soldi, duecento franchi, a una santa, la piccola Teresa nella chiesa di Santa Maria di Batignolles, mettendoli nelle mani del prete dopo la Messa. Ma i motivi di questi ritardi sono incontri inaspettati e straordinari, che recuperano il passato, momenti e figure chiave, uomini e donne che ricompaiono o compaiono e riattivano la vita, con i suoi colpi a sorpresa, o la continua tentazione del piacere, che fa nuova presa e si pone con forza in una mente risvegliata. Seguiamo con simpatia e affetto questo bevitore, che riunisce in sé tutte le nostre debolezze contigue alla virtù, e ci ricordiamo anche a questo punto che è un “santo” bevitore. Cosa vorrà dire? Certi santi sono famosi per le loro vite burrascose e non esenti da errori, peccati, eccessi, posti sul registro dell’eccezionalità ed esemplarità tuttavia della virtù, che infine si afferma. Qui abbiamo una santità senza eroismo, senza profumi di incenso e celesti chiarori, tutta nuova e da scoprire in un uomo comune, che accetta così di buon grado e con tanta modestia la sua vita e con tanto abbandono la sua sconfitta, nonché le sue debolezze, e così fedelmente conserva in sé la fiamma della pur smarrita virtù, da innalzarsi a una santità – se così si può dire – lieve e modesta, fugace quanto tenace nel riproporsi e durare, che si rivela solo nel nostro attivo riconoscimento, ed è fatta di sfumature, di parole normali, di sentimenti che sentiamo risuonare anche in noi, di giorni che tutti abbiamo vissuto. E i miracoli di questo santo ci sono, ma in forma timida e modesta di effetto di speranza – che prontamente, diremmo allegramente si realizza –  che ancora si presenti un benefattore, che altro denaro venga donato a rimpiazzare quello ricevuto in prestito, o guadagnato col lavoro e sprecato, che si potrà alla fine restituire il prestito ricevuto. Trionfo della rettitudine e della riconciliazione, coniugato con innocenza disarmante con l’aspettativa di indulgenza per l’infedeltà alle promesse. Ecco allora la successione nutrita di eventi prodigiosi e di nuovi doni, ecco la possibilità fino all’ultimo di saldare il debito, nonostante il continuo cedere a ogni tentazione ed errore, anzi quasi facendo di questi una sorta di viatico per la santità. Che questi miracoli siano anche creazione della scrittura, della possibilità di risignificare continuamente i fatti della vita, di dare al protagonista una nuova consistenza, non più umana, e sempre più arcaica, mitica, tal da segnare per lui una specie di cambiamento radicale, in cui tutto si essenzializza per proclamare un nuovo status, e alla fine l’addio al corpo, o per lo meno alla tirannia del corpo e delle sue passioni, la transizione a un’altra vita? Tutto accade senza che venga sospesa l’operosità del male, delle continue tentazioni, che si affacciano ancora fino all’ultimo quando è la stessa santa a raggiungere Andreas in uno dei luoghi delle sue bevute, il malfamato ed esotico “Tari-Bari”. Anche qui, come nella leggenda di Flaubert di cui dirò, il finale è di altissima tensione spirituale e mistico/onirica. Il santo bevitore, mentre è nel locale, in cui consuma pasti e Pernod senza limiti, per il susseguirsi di prodigi che gli procurano denaro, si trova di fronte a quello che gli appare come il più grande fra i prodigi, la visita resagli dalla bambina/ragazza di nome Teresa, che entra in quel luogo di perdizione, mentre il suo ritrovato amico di vita e di sbornie Woitech cerca con successo di posticipare a dopo un’altro Pernod la sua visita in chiesa per restituire il denaro, e gli parla: «In quel momento si aprì la porta e, mentre avvertiva un terribile dolore al cuore e una grande debolezza al capo, Andreas vide che era entrata una ragazzina e che si sedeva proprio di fronte a lui, sul sedile imbottito. Era giovanissima, giovane come gli pareva non fosse mai stata ragazza veduta prima, ed era completamente vestita di colore blu cielo. Era blu come lo può essere solo il cielo in certi giorni, e soltanto in quelli benedetti. Andreas si avvicinò barcollando, s’inchinò alla bambina e le disse: “Che cosa fa qui?” “Aspetto i miei genitori che escono ora dalla messa; vengono a prendermi qui. …. lei disse, ed era tutta intimidita dall’uomo anziano che le si era rivolto così d’improvviso. Aveva un po’ paura di lui. Andreas le chiese: “Come si chiama?” “Teresa” rispose lei. “Ah,” esclamò. Andreas “ma questo è bellissimo! Non avrei mai pensato che una così grande, così piccola santa, una così grande e piccola creditrice mi concedesse l’onore di venirmi a cercare, dopo che io ho tardato tanto ad andare da lei”. “Non capisco le sue parole” disse la piccola signorina un po’ confusa.  “È solo la sua delicatezza, ma la so apprezzare. Da tanto tempo io le devo duecento franchi, e non mi è più riuscito di restituirglieli, signorina santa”! “Lei non mi deve affatto dei soldi, ma io ne ho un po’ nel borsellino, li prenda e vada via, che stanno per arrivare i miei genitori”. E con ciò tolse dal suo borsellino cento franchi e glieli dette». Andreas entra in uno stato di supremo turbamento in cui tutto si confonde, e mentre tenta di raggiungere il banco per un ultimo Pernod barcolla  e si accascia a terra  ma prima di morire, portato in sagrestia in mancanza di medici e farmacie, «… purtroppo non riesce più a parlare, fa solo un gesto come per toccarsi nella tasca sinistra interna della giacca, dove è il denaro che deve alla piccola creditrice, e dice: “Signorina Teresa!”, dà il suo ultimo sospiro e muore». E allora la santità di questo nostro fratello bevitore è forse nella grandiosità di una fede totale, celata da un’assorta mitezza visionaria, con cui un uomo si ritrova un giorno proteso all’attesa e al ritrovamento di qualcosa che non sa, non conosce, ma di cui intuisce e sente aleggiare la misteriosa presenza. Forse che l’apparizione della piccola Teresa contiene l’equivalente moderno di quell’ideale racchiuso nell’enigma della presenza femminile, che l’uomo del medioevo, che i “trovadori” alla fine rinvenivano nella donna che assumeva, come osserva Jacques Lacan, una mera funzione simbolica, ed  era elevata al rango dell’inaccessibile Ding freudiana, la Cosa che è oggetto impossibile del nostro desiderio? Si dà dunque un piano alternativo a quello religioso, e l’etereo alone che circonfonde Teresa potrebbe anche essere correlato, da chi avesse una visione laica, alla forza dell’idealizzazione che investe la figura femminile, mentre la santità del bevitore Andreas consisterebbe anche nel farla rifulgere su un piano di trascendenza, nel saperla sognare così intensamente da rappresentarla vividamente sulla scena del soprannaturale?

 

Si sente peraltro in Roth, nel suo testo, un qualcosa che si leva e di cui lo scrittore è solo un tramite, seguendo Valery, e non siamo noi che ora leggiamo i suoi destinatari. Si esclude allora la possibilità del discorso edificante, del richiamo morale o religioso. Si leva forse una voce che è quella della scrittura più che dello scrittore, si indica qualcosa che non ha origine in un tempo e non ha una fine o un fine, una meta da raggiungere. Il dialogo dell’autore, e di quel che o di chi attraverso lui parla, è forse nel rapporto col testo, coi significanti, e non con i contenuti, le significazioni? Lo scrittore sembra mettere a disposizione dell’umanità che sta dietro la comunità dei lettori reali e potenziali l’invenzione di un dispositivo per superare il dolore e la solitudine, per sostenere il reale, qualcosa di prodigioso ma pur sempre possibile, e legittimato nelle sfera del sacro come interprete e ausilio prezioso nelle nostre peripezie.

 

Cosa accade nella leggenda di Flaubert? Mi sembra che in essa sia dato ancora una volta di vedere qualcosa di simile, e qualcosa di diverso, ma entro una sola cornice di senso.

Il protagonista della “Leggenda di San Giuliano l’Ospitaliere” di Flaubert, considerata il suo capolavoro, un gioiello di perfezione concettuale e formale, più importante per molti di Madame Bovary, ci presenta fin da subito come protagonista la figura di una creatura, il peccatore colto nel suo alone cupo, che nelle sue diverse età fino alla piena giovinezza è segnata dalla solitudine amara e senza luce spirituale per l’eccesso di chiusura in se stesso e distruttività sanguinaria, che lo spinge a uccidere in gran copia animali, sempre nei modi più brutali o perfidi e crudeli, in continuazione e senza alcun motivo. Un peccato assai grave descritto nella Bibbia, che precede quello, terribile, dell’uccisione dei suoi genitori, per lui profetizzato dal cervo barbuto prima di morire per sua mano. Un giovane, Giuliano, che ha avuto in sorte di incarnare la più odiosa gratuita cattiveria, e che per evitare la realizzazione della profezia si fa poi esule, soldato, marito e sovrano regnante in terre lontane, ma è incalzato dal destino, cui non può sfuggire. Un giorno sua moglie accoglie nel castello due coniugi ormai vecchi che cercano Giuliano, il figlio allontanatosi un giorno da casa. Sono davvero i genitori che Giuliano ha abbandonato per non correre il rischio di ucciderli; la moglie di Giuliano li riconosce per tali, e cede loro il letto nuziale. Ma quando questi a tarda notte dopo la caccia, che aveva fatalmente ripreso dopo una lunga astinenza purificatrice, ignaro torna a casa, e si accosta al letto per dare un bacio alla consorte, incontra invece del suo volto morbido una barba. Un uomo nel suo talamo! È l’orrore.

 

Che gli annebbia la mente e lo spinge alla vendetta. Con un solo colpo di spada credendo di vendicarsi sul corpo degli amanti, recide la testa di entrambi i genitori distesi su un letto e in una stanza che la luce del giorno, dopo il pallore dell’alba, tingerà terribilmente di rosso per il sangue versato. Dopo l’uccisione dei genitori, con cui si compie la profezia del cervo morente per sua mano, nella versione narrata da Flaubert Giuliano si mette da solo in povertà al servizio dell’umanità esponendosi a fatiche, sofferenze e rischi inumani per espiare. Un racconto aspro, tagliente, a tratti insostenibile. Il suo calvario penitenziale si sviluppa attraverso immagini terribili sulla via dell’espiazione, e sorge entro una  tensione etica che nega ogni possibile naturalizzazione e legittimazione delle pulsioni, inquadrandole invece nella sfera della valutazione etico-giuridica e della responsabilità individuale. Ma il male e la morte sono vinti dall’amore e dal perdono. Il contrasto fra la figura passata del peccatore e quella nuova del penitente si scioglie nell’apoteosi finale che culmina nel perdono celeste e nell’ascensione al Cielo con Gesù accanto a lui prima irriconoscibile nella tremenda figura del lebbroso coperto di piaghe orribili e scosso da brividi di freddo che reclamava cibo e calore nella prossimità e nel contatto di corpi nudi. «C’è come ghiaccio nelle mie ossa! Vieni accanto a me!- …Spogliati, perché io abbia il calore del tuo corpo!…Ah! sto per morire! …Avvicinati, riscaldami! Non con le mani! no! con tutto il tuo corpo -. Giuliano vi si stese sopra completamente, bocca contro bocca, petto su petto». Esperienze dis-umane, quelle che Giuliano abbraccia. Ma non siamo qui di fronte a una sfida etica come quella di Antigone, che si erge contro una legge umana emanata in spregio di una divina e giunge per questo ad agire contro il proprio bene, e ad aprire un orizzonte eversivo che istituisce la possibilità di un pensiero libero. Qui, mi sembra, siamo di fronte a una coscienza medioevale che esige il massimo della penitenza da un peccatore il quale più che sé rappresenta l’intera comunità dei credenti, e che pure presenta in filigrana, alla radice della sua violenza, una patologia grave di eccessi distruttivi e sadomasochismo. Un soggetto che sembra senza individualità e senza volto, appiattito sulla colpa e sulla necessaria durissima espiazione, poi trasumanato nel perdono divino, in una luce accecante e in un tripudio degli elementi naturali che  all’acme dell’ascensione ridona e accosta i corpi e i volti, li trasforma, eccede la forma umana e il mantenimento della sua riconoscibilità. «Allora il lebbroso lo strinse e i suoi occhi a un tratto presero un chiarore di stelle, i suoi capelli si allungarono come i raggi del sole, il soffio delle sue narici aveva la dolcezza delle rose; una nuvola d’incenso si levò dal focolare, i flutti cantavano. Frattanto, un’abbondanza di delizie, una gioia sovrumana scendeva come un’inondazione sull’animo in estasi; e colui le cui braccia lo stringevano sempre cresceva, cresceva, … Il tetto volò via, il firmamento si spiegava; e Giuliano salì verso gli spazi celesti, faccia a faccia con Nostro Signore Gesù, che lo portava in cielo».

 

Si potrebbe dire qui, come anche rispetto alla conclusione della Leggenda del santo bevitore, che è solo dopo la morte, o con una transizione radicale, una morte simbolica di ciò che era – che può aversi anche solo, a mio parere, sul terreno della poesia e della fantasia, come accade ad esempio nella leggenda – che possiamo davvero conoscere, in una prospettiva nuova, il senso della vita di qualcuno. Vediamo così, ricomposte rispettivamente in una significazione unitaria, le figure dei protagonisti delle due Leggende, e la loro funzione in una visione mitica o cristiana, secondo la prospettiva che Dante chiama dell'”interpretazione figurale e che è perfettamente descritta da Erich Auerbach: «…un fatto che accada sulla terra, indipendentemente dalla forza che gli deriva dalla sua concreta realtà hic et nunc, significa non soltanto se medesimo, bensì anche un altro fatto che esso preannuncia o, confermandolo, ripete; e la connessione fra gli avvenimenti non viene considerata preminentemente come evoluzione temporale o causale, ma come unità dentro il piano divino, di cui tutti gli avvenimenti sono membra e immagini riflesse; la loro immediata connessione terrena è d’importanza minore, e talvolta la conoscenza di essa è, per l’interpretazione, del tutto superflua».

 

Nella narrazione di questa morte reale o mitica visione religiosa e laica si incrociano.  La cristiana interpretazione figurale vede le cose terrene come “figure” che anticipano momenti del disegno divino. Su un altro piano, laico e letterario,  i fatti reali che si trasfigurano nella scrittura mitica-poetica vi portano nuova forza e significazione, come ci ha insegnato il cinema di Pasolini, infondono un plus di verosimiglianza e realtà nel perpetuo racconto del mito o nella riscrittura della leggenda, donano loro una quota in più di forma e consistenza realizzando nella loro nuova vita la valenza simbolica di cui dispongono. Il santo bevitore nella sua specialissima aura si raffigura sempre più compiutamente a mano a mano che la narrazione procede e nuovi particolari arricchiscono la sua vicenda e la innalzano nelle splendide nebbie della leggenda, nel vortice senza fine delle metamorfosi che investe ogni frammento dell’universo, o nella più grande gloria celeste. Giuliano diviene santo lungo le tappe del suo calvario, che segnano il progressivo abbandono del corpo e di una condizione di peccatore, che va di pari passo con la scomparsa del lebbroso e la comparsa radiosa di Gesù.

 

Qualcosa che richiede spiegazione/interpretazione si aggiunge se infine, in una specie di rivisitazione filologica, prendiamo in esame le lapidarie righe conclusive dell’una e dell’altra leggenda.

Nel racconto su Giuliano: «Et voilà l’histoire de saint Julien l’Hospitalier, telle à peu près qu’on la trouve, sur un vitrail d’église, dans mon pays. (Ed ecco la storia di san Giuliano l’Ospitaliere, quale press’a poco la si trova, su una vetrata di chiesa, al mio paese)».

Ne deriviamo, in accordo con studiosi come Emma Campbell dell’Università di Warwick, la riflessione che l’oggetto del racconto non è il suo rapporto con Dio, il Santo, la comunità cristiana, ma è invece il suo rapporto col testo, inteso sia come le varie edizioni della vulgata medioevale su di essa, sia come quel che è narrato sulle vetrate della chiesa di cui si parla, che sarebbe la Cattedrale di Rouen. Quello di Flaubert presenta diverse modifiche rispetto ai testi preesistenti, ma ai fini della presente riflessione a mio parere non conta tanto una o l’altra variazione del contenuto, ad esempio che l’espiazione di Giuliano avvenga con a fianco la consorte, o da solo, e neanche mi paiono qui rilevanti considerazioni altrimenti significative di ordine psicosociale, come quelle relative a come traspare nel linguaggio e nei modi di Giuliano la sua conversione, o sul corpo come corpo sessuale. Conta invece a mio parere il gesto della differenziazione del suo dagli altri testi, la variazione rispetto alla narrazione tradizionale delle vetrate della Cattedrale evocata nelle parole “telle à peu près qu’on la trouve”, il distaccarsi della Leggenda di Flaubert dall’aneddotica e dalla ricerca di aderenza alla verità storica, il voler invece delineare, ma con un certo grado di indeterminazione di fondo, un discorso aperto e nuovo che si rivela essenza emblematica delle nascoste funzioni e finalità dell’arte. Nascoste ma esistenti comunque per indicare il compito nostro di scoprirle pian piano. E cioè in questo caso certo per indicare ai lettori, come osserva Emma Campbell, il testo come un processo creativo più che come un oggetto di conoscenza, ma soprattutto, a mio parere, per proclamare che la vita è letteratura e che la letteratura è vita, che la lingua può interpretare l’universo, e l’universo racchiudersi in essa, che ogni cosa si trasforma e ci trasforma. Che la letteratura, insomma, prescinde dai fatti, dai contenuti, come pure prescinde da chi li narra, è di essi più grande e più grande è la sua funzione. Il suo centro cade al di fuori del perimetro della soggettività dell’autore, che è una sorta di accidente come del resto il contenuto narrativo su cui il senso segreto della scrittura si innesta; essa inoltre supera ogni definita regola della lingua, per realizzarsi. Essa lavora nel rispecchiamento della mancanza, dell’assenza, e ribadendola come struttura necessaria dell’universo tuttavia la supera, poiché aleggia senza interruzione come possibilità di manifestazione e di presenza. Anche Flaubert interroga la narrazione (non solo quella narrazione) in quanto tale, prestando il suo testo a qualcuno che parla a qualcuno che non è il lettore, come si diceva in riferimento a Valéry parlando della Leggenda di Roth. E questo sarebbe un elemento che accomuna le due narrazioni. Ma Flaubert va forse oltre, apre nuova possibilità anche in un’altra direzione. Nel testo di Flaubert  compare dal nulla, una notte, la chiamata del lebbroso, una voce, allo stesso modo in cui ad Abramo che si apprestava al sacrificio del figlio si presentò dal nulla – nel deserto per bocca dell’angelo la voce di Jahvè, la stessa che lo aveva chiamato all’eterna alleanza. Il passo ulteriore di Flaubert è verso la scoperta – un soprassalto, un’emozione –  di quel che resta inviolabile e non è detto, di ciò che è invisibile in questo nostro mondo, salvo che non voglia di colpo apparire.  C’è in gioco qualcosa, un assoluto preliminare, che governa segretamente ogni dire e ogni scrittura, ed è a quello che Flaubert forse allude: una voce che si colloca oltre il già detto o scritto e il dicibile, e scrive la voce di Dio, lasciando aperta la questione di quel che essa sia. E si arriva così a considerare che anche per la scrittura, come per il reale e il divino, esiste un oltre, un vertice da cui parte uno sguardo distaccato, un impulso efficace – ma non si sa se davvero finale e ultimo – su di sé, un potenziale generativo da cui al momento giusto essa sorge.

 

Il santo bevitore ha uno statuto analogo in quanto opera d’arte, e raggiunge anch’esso un confine estremo e il suo oltre; il suo protagonista riplasma il mondo facendolo nascere nuovo – quel mondo in cui si era smarrito,- e si rifonda ex nihilo; raggiunge infine il luogo del proprio essere, e in un certo qual modo sperimenta già lungo la strada lo stato in cui la psiche è, senza più essere questo o quello; produce per tutti insegnamento e sorpresa profonda. E Roth lo fa concludendo il racconto con una dichiarazione che con gioconda leggerezza ridona serena dignità alla sua disagiata condizione umana nell’approssimarsi della fine: «Conceda Dio a tutti noi, a noi bevitori, una morte così lieve e bella!»

In queste poche parole conclusive della Leggenda di Roth, come nelle righe finali della Leggenda di Flaubert, c’è qualcosa che non tanto turba la nostra sensibilità umana, quanto riscuote la mente chiamandola a un salto indeterminato. E questo perché inaspettatamente l’Autore, parlando in prima persona come già Flaubert nelle due righe conclusive della sua Leggenda, irrompe sulla scena narrativa spiazzando il lettore con la rottura della linea di confine fra la realtà e la fantasia, che è violata in ogni direzione, compresa quella che collega la terra al soprannaturale, la fede all’immaginazione, la città all’intimità, l’intimità all’alterità, il Me all’Io e l’Io all’essere. Si presenta una teoria nuova della narrazione e della vita, un ripensamento della funzione della letteratura, il cui terreno non è più soltanto quello della rappresentazione del divino o della commedia umana, né un’idea e un progetto di società, ma una liberazione dell’immaginazione e del pensiero.

 

Non si può sapere se in queste due opere, di Flaubert, con l’infelicità dei suoi anni primi e giovanili, e di Roth, profugo per l’Europa che cerca riparo dai nazisti e dalle intemperie della vita stessa nell’alcool, possano riflettersi passaggi difficili dell’esistenza, e un’elaborazione psichica e spirituale del presente e di antichi traumi e rifiuti, comunque trascesi nel distacco dalla soggettività che l’opera d’arte compie nascendo, e se non sia in gioco qualcosa di simile, come in un misterioso gioco di specchi, su inconscia base identificatoria, anche per quanto riguarda chi, come Jean-Paul Sartre, ha dedicato anni di isolamento a scrivere tre immensi volumi che sono uno straordinario omaggio a Flaubert per studiare, nel rapporto con la scrittura, la vita e in particolar modo le sofferenze infantili e giovanili dell‘idiot de la famille: un ragazzo perso nelle sue assurde fantasticherie, con difficoltà col linguaggio e incapace di stare al passo con i coetanei nella scuola, che una famiglia di orizzonti ristretti stigmatizza e non sa accettare e comprendere, diventa emblema universale della presenza, inquietante per il mondo, dell’artista come di chiunque ha da dire una sua parola, è portatore di un’insopportabile innocenza (come anche forse l’idiota di Dostoevskij), insegue un sogno e un desiderio, paga il prezzo della sua particolarità in solitudine, esclusione, svalutazione e incomprensione, e non li tradisce. «Il faut chercher à comprendre ce scandale: un idiot qui devient génie». E un peccatore che diventa santo.

 

 

Le citazioni nel testo sono tratte da:

 

Auerbach, E. (1956) Mimesis, Il realismo nella letteratura occidentale (Torino: Einaudi).

Campbell, E.,The Queer Transformations of Flaubert’s Légende de saint Julien l’Hospitalier,

L’Esprit Créateur, Vol. 50, No. 1 (2010), pp. 62–76.

Flaubert, G., (1877) La leggenda di San Giuliano l’Ospitaliere, Salerno Edizioni, Roma 1994, a cura di Bruno Itri.

Roth, Joseph, (1939) La leggenda del santo bevitore, Adelphi, Milano 1985, tr. it. di Chiara Colli Staude.

Sartre, J-P., L’Idiot de la famille. Gustave Flaubert de 1821 a 1857, I,  Gallimard, Paris 1971.

 

[Immagine: Monte da Bologna, Storie di san Giuliano (Duomo di Trento)].

1 thought on “Leggende

  1. Le parole e le cose. Le leggende e i fatti. Il mito e la realtà. Ho letto questo lungo articolo, ben scritto. Quanti dei nostri giovani saprebbero scrivere con un linguaggio tale? Anche degli scrittori di successo ne avrebbero difficoltà. Già il titolo della vostro “ sito “ ne indica la difficoltà. I due scrittori, autori delle due leggende, sono certo famosi e capaci. Ma cos’è l’arte? Genio, fantasia e fatica fatica. Ho letto molto, di tutto. Nietzsche nella sua opera: “ Così disse Zaratustra “ invoca il superuomo. Condivido la prima parte di questo filosofo, ma secondo me, in questo pianeta, che ospita l’essere “ Homo”, più che di super necessiterebbero più modesti “ Homo” ; consci dei propri limiti e rispettosi della vita e del pensiero altrui, Soprattutto la capacità di ascolto. Sempre pronti alla critica attenta e severa del proprio pensiero è opinione .Abbiamo proprio bisogno di Santi (magari come SanCirillo). Vedete chi era. L amore è gran cosa, alle volte sublime.Ma se proprio vi prende l’ira e volete prendere a calci qualche, per voi odioso individuo, levatevi gli scarponi e mettevi delle morbide pantofole. Vostro

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