di Paola Giacomoni
L’odio è diventato oggetto di discussione pubblica: nelle parole del padre di Giulia Cecchettin l’odio sottrae energia e avvelena le relazioni; non è una buona strategia per elaborare il lutto. È il sentimento dominante nell’atmosfera delle guerre in corso, in cui chi combatte vuole solo distruggere il nemico. Serpeggia l’odio per l’Occidente nelle nostre università occidentali – si dice – il che spiegherebbe forse le affollate manifestazioni pro-Palestina in molte parti del mondo. L’odio si diffonde senza più censure, è considerato un modo per distanziarsi dal male, da ciò che si avverte come totalmente estraneo, che va avversato, e se possibile eliminato.
Ci sono varie teorie dell’odio, tra cui quella, di origine psicoanalitica, che sostiene che l’odio può anche consolidare regimi fragili, se l’amore per la patria è basato sull’odio condiviso per un nemico: come opposizione all’avversario, può essere un robusto collante per una comunità senza altre risorse. Condivide con l’amore, il suo opposto, una sorta di attaccamento perverso, al negativo: è in grado di rinsaldare un regime instabile, ma anche una psiche vacillante, o minacciata, che trova una forma di identità negativa contrapponendosi a qualcosa di totalmente ostile.
Se non lo si considera solo in opposizione all’amore, appare un suo tratto specifico: l’odio è forse l’unico sentimento che può essere fomentato, che può essere alimentato o attizzato attraverso una propaganda ben orchestrata, che induce le persone a pensare che è giusto e opportuno odiare il nemico e desiderare di distruggerlo. I casi spesso citati, accanto all’Olocausto, ad esempio da Robert Sternberg, sono quelli del genocidio del Ruanda del 1994, in cui la Radio Mille colline svolse un ruolo decisivo istigando l’odio razziale degli Hutu nei confronti dei Tutsi e provocando un cruentissimo massacro di centinaia di migliaia di persone in pochi mesi. Il ragionamento che lo sostiene è dicotomico: bianco/nero, buono/cattivo, amico/nemico: questioni complesse, come quelle dell’identità di un gruppo o di una “razza”, vengono semplificate radicalmente; l’eliminazione dell’Altro ne è la conseguenza.
L’odio è un sentimento globale, scriveva Aristotele, non è la reazione a un’offesa o a una mancanza di rispetto specifici come invece la rabbia, non reagisce a un insulto o a un oltraggio che sentiamo immeritato da parte di una persona determinata in un momento specifico. Non viene suscitato da un fatto particolare, né è la reazione nei confronti del comportamento di qualcuno, ma emerge in noi come un’avversione generalizzata rispetto a qualcosa che riteniamo un male in quanto tale. Chi odia parte dal presupposto che l’Altro, il nemico, si può solo annientare perché in questione non è il suo comportamento, ciò che fa o ha fatto contro di noi, ma ciò che è, ciò che rappresenta, il male in sé, che va dunque solo distrutto. È una sorta di dissonanza, scriveva Tommaso, una discordanza rispetto al bene. In questo senso è divisivo: non c’è un buon uso dell’odio.
È per questo che nel caso della guerra israelo-palestinese una pace è pensabile solo se viene meno questo schema semplificato e rigido, questo desiderio di dissonanza, e si rinuncia a vedere il nemico come il male in sé e si inizia a ragionare sui singoli comportamenti, che invece possono diversificarsi e cambiare, consentendo un’immagine non semplificata dell’Altro. Solo riconoscendo l’Altro come qualcuno che può assumere comportamenti diversi e non solo negativi si potrà pensare a un negoziato e a una soluzione condivisa, solo se si valutano i fatti e le ragioni da una parte e dall’altra si potrà scendere a patti e riconoscere la comune umanità.
[Immagine: La Haine di Mathieu Kassovitz, 1995].
Condivo pienamente quello che ci dice Paola Giacomoni. Non ho altro da aggiungere; anche questo sarebbe il mio desiderio, Ma personalmente, la mattina quando mi guardo allo specchio per lavarmi, radermi, ecc. : mi succede di fissarmi con sguardo torvo. Perché? Perché mi vergogno di essere UOMO. Vostro