di Laura Pugno

 

[Esce oggi per Marsilio Noi senza mondo, il nuovo romanzo-saggio di Laura Pugno. Ne pubblichiamo in anteprima un estratto].

 

Una variazione sul tema. Allegoria H

 

Cora apre il pugno, lo chiude, legge il suo nome tatuato sul palmo della mano. La sua parola è cora. Tra le sue braccia, Alice dorme, tutte e due viaggiano sul retro di un pick-up nero, la parola alice, che le dita di Cora potrebbero sfiorare, della mano di Ali. Cora ha ancora un vago ricordo del dolore del tatuaggio, ma era molto molto piccola, e quel male è solo memoria. Più che altro, ricorda l’espressione di gioia, gioia ed era anche orgoglio?, sul volto di suo padre.

Tutte le Parole sono mortali, devono esserlo, come tutto è mortale, e il padre di Cora e Ali era appena morto. La sua parola era hawkeye, occhio di falco, ma la sua vista negli ultimi anni, poi mesi, era diventata debolissima, e Cora e Ali erano per lui solo un’ombra e un odore, negli ultimi giorni. Era stato seppellito nella stessa fossa con il suo cane, un mezzo lupo come ormai ce n’erano tantissimi nelle campagne, che lo aveva preceduto di qualche ora nella morte. Cora avrebbe voluto cremare il corpo, sarebbe stato tutto più semplice, ma Ali aveva insistito per la terra nuda. «Così è più giusto» aveva detto con quella voce delicata e inflessibile, come tutto il suo corpo ormai quasi privo di peso. Cora si era convinta.

 

Ora il corpo del padre era nella terra a fare il corso delle cose e loro due in viaggio verso nord, verso dove le Parole si erano riunite per la prima volta, e tutto era cominciato. Un luogo in cui, anche se a un’età nella quale è impossibile ricordare, o di cui il ricordo ci resta soltanto per apparizioni e brandelli, erano già state. Un luogo senza nome, di cui dovevano farsi bastare le coordinate gps, che il padre chiamava sempre home. Casa. Qualsiasi geografia, del resto, intorno a loro, pensa Cora, ormai potrebbe confondersi. Dopo i grandi incendi, il paesaggio è stato rimboschito un po’ ovunque allo stesso modo, e tutto adesso è Nuovo Mondo.

Cora controlla il battito del cuore di Ali con due dita sul collo, lì dove si sente pulsare, e dentro di sé, invece, avverte palpitare, come una luce nera lontana, la paura. Se il loro padre è morto di una morte lentissima, negli ultimi giorni anche Alice ha vistosamente perso forze, senza che ne fosse chiara la ragione. In questo Nuovo Mondo, nuove malattie sono anch’esse all’ordine del giorno, e Cora e Ali lo sanno. Non hanno la stessa madre. Erano due Parole diverse, la madre di Cora era stata e la madre di Ali . Il buio vivo del verde, fitto e ombroso, e lo scintillio dell’acqua dolce, apparente forza e apparente delicatezza, pronte a rovesciarsi nell’immediato contrario. La giovanissima Lake aveva abbandonato le Parole subito dopo la nascita di Ali, e non aveva mai più dato notizie di sé. Alla bambina era stato raccontato che era morta, e pur sapendo da anni che così, con tutta probabilità, non era stato e non era, pure Ali aveva fatto della notizia di quella morte una parte di sé, non sperimentando mai, con tutta naturalezza, il desiderio di sapere chi fosse la ragazza che era diventata sua madre, da che luogo provenisse, dove potesse essere ora, se fosse ancora viva da qualche parte. Un’altra Lake aveva subito preso il posto , e avrebbe adottato Ali se Forest non l’avesse impedito, prendendo entrambe le bambine con sé.

 

Anche Forest era morta giovane e di una malattia che era rimasta senza nome, quando sia Cora – di un anno più grande – che Ali erano appena adolescenti, lasciandole entrambe con H, come tutti chiamavano il loro padre. Da lì derivava, forse, il senso di cura feroce che Cora aveva sempre provato nei confronti di chi neanche dentro di sé chiamava più sua sorella, dato l’impegno che Ali aveva messo, da adulta, nel cancellare ogni segno di appartenenza a un qualsiasi genere. La magrezza estrema era stato uno di questi strumenti. I capelli biondi rasati a zero, che negli ultimi giorni non aveva più avuto la forza di tagliare, un altro. Ora le crescevano a ciocche minuscole sul cranio e la nuca, dove Cora aveva sempre la sensazione di vedere, come un arto fantasma, la massa fluttuante di capelli color grano che era stata il segno visibile di Ali nell’infanzia, diversamente da lei, Cora, dal suo corpo dove sembrava si fossero condensate tutte le oscurità, dall’ossidiana al corvo, dal nerofumo alla pece. Anche Cora si era rasata i capelli, quando Ali aveva scelto di farlo: una maniera di dirle siamo insieme in questo, sono con te se non sono come te.

 

L’idea del viaggio era stata di Ali, forse le era stata sussurrata all’orecchio da H morente, ma lei l’aveva fatta sua e aveva convinto Cora, incerta sul fatto che si dovesse tentare, che avesse senso cercare di eseguire i desideri di un corpo già morto quando il corpo vivo di Ali sembrava ogni giorno di più – sebbene non avesse il coraggio di dirlo, e certo non ad Ali – così vicino alla morte. Il viaggio doveva servire a ritrovare la scatola nera, l’oggetto-luogo di tutte le Parole, una sorta di corpo mistico che conteneva le tracce di tutti e tutte loro, prima irradiate nel mondo e poi ricongiunte. E solo così, tornando dov’era quel talismano, avrebbero potuto trovarsi – in quale modo?, si chiedeva Cora in silenzio – di nuovo insieme, con Forest e con Lake, con H e con tutti gli altri che si erano smarriti e dispersi o erano morti o erano perduti perché Ali e Cora erano gli ultimi numeri di quel conteggio e presto Cora sarebbe stata sola, numero uno o zero; questo né Cora né Ali lo dicevano, certo, ma ogni giorno lei lo sospettava, sempre più. Non esisteva una mappa del luogo dove era stata nascosta la scatola nera, la sua ubicazione come sempre nelle leggende, nelle fiabe, pensa adesso Cora, era stata sussurrata, ogni volta a voce, da una prima Parola a un’ultima. Il loro padre lo aveva sussurrato ad Ali, quel segreto, dunque era lei l’Ultima. Questo metteva Cora fuori dal novero delle Parole, e ora sarebbe stata Ali a guidarla.

 

Col calore sempre più debole di Ali tra le braccia, Cora scioglie la presa, sgranchisce le braccia indolenzite, poi bussa piano, due colpi, sul vetro dietro di sé. Nell’abitacolo del pick-up, Úna guida da ore, instancabile, come se l’attenzione al mondo esterno non le costasse nessuno sforzo. Il vetro si abbassa, Úna si volta verso di lei e le sorride. Non ci sono tracce di stanchezza su quel viso, o quel corpo. Il sole sta per tramontare e dovranno trovare un posto per la notte, dice parole di questo genere Cora, e quasi si vergogna nel mostrare quelle necessità che d’improvviso le sembrano una debolezza, ma Úna continua a sorridere come chi ha già pensato a tutto da molto tempo, forse non ha pensato ad altro per tutta la strada. Cora arrossisce senza che l’altra se ne accorga e prega di avere abbastanza soldi per pagarla.

Anche se non hanno mai parlato di un compenso, per Cora questo è sottinteso; Úna non è una Parola, non è una di loro. Si è presentata alla loro porta con una consegna che H le aveva commissionato subito prima di morire, d’accordo con Ali, e che conteneva tutto l’occorrente per quel viaggio, mimetiche e razioni militari, benzina estratta dai rifiuti, tende e picchetti, bussole, e finanche armi, perché ormai non c’è nessuna sicurezza sulla strada. I servizi contrattati comprendevano il pick-up e forse anche la presenza della stessa Úna, ma come tutto quello che riguardava Ali e il padre, la loro misteriosa relazione di indifferenza e completa comprensione, la questione è rimasta avvolta nel segreto. «Tu non preoccuparti» ha sussurrato Ali con la voce arrochita, subito prima di perdere conoscenza e non recuperarla se non a tratti, lungo il viaggio. Ma Úna, fortunatamente, sembra davvero sapere quello che fa, appare a suo agio in quel paesaggio – in cui a tratti incendi vastissimi continuano a bruciare in distanza – molto più di quanto lei, Cora, lo sia mai stata nel mondo. Ora non le resta che affidarsi, e portare a termine quell’improbabile missione, anche perché non saprebbe che altro fare, se non vegliare Ali che forse sta morendo, o f è solo un corpo che sente dolore, ma potrebbe ancora, spera Cora, scovare la via della guarigione, tornare in sé, non abbandonarla. Lì dove sono non ci sono cliniche né medici, e neppure ospedali. Non hanno una fede che renda possibile pregare.

 

Se deve immaginare il luogo dove si stanno recando, risalendo il continente verso Nord, Cora ripete Forest e Lake, i nomi delle loro madri, la presente e la perduta, svanite entrambe: sogna un punto del mondo che le riunisca, scintillio dell’acqua e ombra del verde, sogna di trovarsi lì con Ali, e che lei riprenda le forze. Neanche volendo, e quanto lo vorrebbe, riesce a spingere la sua immaginazione oltre.

Poi sono già ore dopo, si sono inoltrate su una strada laterale, hanno piantato la tenda. Brucia un fuoco, acceso da Úna con un’abilità che non finisce più di meravigliare Cora. Nel corpo di Úna sembrano mescolarsi tutte le etnie della Terra, ma non è solo questo a renderla fonte di infiniti interrogativi per Cora, che non si è ancora azzardata a farle domande su chi lei sia, perché sia con loro, lì.

 

Prima, quando loro due armeggiavano con teli e picchetti – mentre Ali dormiva dentro una coperta, contro il tronco di un albero –, la coltre fosca, spessa come una nube, di capelli intrecciati che ricopre il collo, le spalle e la schiena di Úna è ricaduta di lato, lasciando intravedere, sulla nuca, un tatuaggio semicancellato dagli anni, o può darsi, anche, mai finito, una u e una a, con qualcosa che doveva esserci in mezzo. Anche Úna è una Parola, o ha tentato di diventarlo, o hanno cercato di renderla tale, a sua insaputa? Cora quasi senza volerlo ha teso le dita, a sfiorare la nuca di quella ragazza per cui le viene in mente, anche se si conoscono appena, la parola compagna; ma Úna le è apparsa inconsapevole di tutto, senza rendersene conto si è scansata, e loro due hanno continuano a montare la tenda, nella sera che può ancora essere fredda, con Ali lì accanto che trema. Scrutando a suo agio Úna, ora che Ali dorme preda della stanchezza, dopo che hanno finito di divorare ciò che resta di quanto hanno portato con sé – nei prossimi giorni dovranno trovare in qualche modo del cibo, e il pensiero la inquieta –, Cora nota che la ragazza si spesso le mani al collo, come se con il senso del tatto fosse cosciente di ciò che per il resto sembra ignorare e forse davvero ignora, come Cora scoprirà diversi giorni dopo, quando la vicinanza tra i loro corpi renderà quella domanda inevitabile, ma per allora Ali non sarà più cosciente, non per come pensiamo la coscienza ora.

 

Cos’avviene, nel centro di questa storia? Cosa ti aspetti, l’avventura, la peripezia? Ma vedi, non avviene, e se avviene, è interiore. Non perché in assoluto non possa avvenire. Ma perché qui, l’avversario, o peggio il nemico, è all’interno.

Quello che poi accadrà sarà questo. Il viaggio ogni momento più affannato, a ore in cui le strade sono deserte, e con Ali sempre più debole. Chiunque possano incontrare, in quelle circostanze, sarà probabilmente un pericolo, o almeno questo pensa Cora nella sua crescente angoscia. Úna sa usare le armi, gliel’ha detto, ma vorrebbe, se solo fosse possibile, evitare di farlo. Hanno finito il cibo, hanno provato a rubarlo, raccolgono frutta da giardini abbandonati, cercano di comprendere quali siano le erbe commestibili, le provano nell’incavo del gomito e poi aspettano ore che la pelle si arrossi o no, le masticano e sputano prima di azzardarsi a inghiottirle, hanno lo stomaco che si contrae dalla fame, barcollano. Per volere di Ali non cacciano e non rubano uova dai nidi. Un paio di volte qualcuno le insegue, ma riescono a sfuggirgli, anche se sanno anno che non potranno andare avanti per molto tempo in quel modo. Nel luogo chiamato home, dice Ali con incrollabile fede, le pupille splendenti nel corpo che ormai Úna e Cora sollevano a braccia, ci sarà cibo e calore. Cora non ha il coraggio di dire che è praticamente impossibile che sia così.

 

Si sbaglia, invece. Quando la mappa che Ali ha sussurrato a Cora – perché sia pronta a prendere il suo posto, diventando lei l’Ultima – coincide ormai con quello che vedono intorno, e sono arrivate, vicino a quella che sembra poco più di una capanna di rami e di pietre, intoccata dal tempo o forse sopravvissuta da ere antichissime – o forse invece, ancora, ricostruita in continuazione con legni ogni volta nuovi come si dice che accada con i templi giapponesi –, ecco, lì sgorga dal suolo, dolce e profonda, una sorgente termale. Vi adagiano dentro Ali con tutti i vestiti, non ha più senso toglierli. L’aria odora di zolfo ed è come se in quel luogo la terra fosse più terra, sa di zolfo e di qualcosa che Cora chiamerebbe sale. La porta della capanna cede subito. Dentro è buio e c’è un altro odore, oscuro di umido, il pavimento è di terra battuta e fa più freddo che fuori. Insetti neri e corallo sul terreno, disturbati nella loro immobilità di secondi-millenni, si affrettano a mettersi in salvo quando il raggio di luce della torcia di Cora li colpisce.

Puntando la torcia a terra, Cora e Úna scorgono un punto dove il suolo è stato smosso senza che nessuno si sia preoccupato di nascondere i segni, e forse proprio per lasciare una traccia, un indizio? Scavano con le mani, da fuori appena percepibile viene la voce di Ali che sembra cantare a bocca chiusa, ma con quali forze?, una ninna nanna o un requiem, per tutte loro o per sé.  La scatola nera è sepolta a poca profondità, è di cartone pressato, chiusa da un laccio, Cora e Úna la prendono, la portano fuori, alla luce, perché Ali la veda. Dal fondo caldo dell’acqua Ali tende le braccia. Cora e Úna la tirano fuori dalla pozza bollente, amniotica, l’adagiano a terra in un tratto dove l’erba, anche in quel calore di paesaggio bruciato, resiste un poco più folta. I vestiti di Ali sono a brandelli, forse è stato il calore, forse qualcosa che è scaturito dalla sua pelle?

 

Ali prende la scatola, l’apre. Dentro c’è una striscia di carta e cuoio e foglie, foglie con sopra scritte parole, forse le parole che loro sono, Parole, Ali e lei e Úna con loro, mentre sulla pelle di Ali, dalla carne di Ali, lo vedono Cora e Úna e lo vedrebbe chiunque fosse lì intorno, se solo vi fosse qualcuno, improvvisamente sgorga una scrittura di linfa, di verde e marrone e corteccia, di bruciato e rinato, di resina e cristallo, verde e pietra, verde e ombra. Ali getta la testa indietro, gli occhi, tutto il suo corpo è diventato scrittura, i brandelli di stoffa che porta le cadono di dosso o sono Cora e Úna a lacerarli per liberare il cuore. Cora afferra la stringa di foglie e parole, la rompe, la fa a pezzi e poi è l’aria che gliela strappa dalle mani con più forza di quanta si crederebbe capace una brezza. Intanto Ali perde coscienza, perde conoscenza o forse, soltanto, passa in altro, in altrove.

Cora e Úna gridano il suo nome, chiamano, «Ali, Ali, Ali», ma Ali ora è oltre l’udito e la vista; toccano allora il suo corpo con la punta delle dita, con tutto il palmo, e quello, il calore dei corpi, come il contatto del vento, è forse una lingua che Ali può capire, che può parlare con loro. Cora, Úna e Ali si stringono le une alle altre, si intrecciano, e Cora e Úna sperano insieme che quella scrittura di foresta folta, di acqua dolce di lago, stinga su di loro, che salga loro dentro non come scende il fuoco ma come sorge la terra, che le renda capaci di parlare con quelle , ma non accade, o non accade ancora. Intorno tutto stormisce, si è alzato più alto il vento e il lago lontano, improvvisamente, come se fosse un mare, è da onde.

 

Qui questa storia muta forma, perché non ne ha mai avuta una sola.

Diventa qualcos’altro.

Ricomincia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *