a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo
[Nel 2023 Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo hanno dato avvio un un’indagine, in forma di questionario, sulla valenza sociale della poesia contemporanea. Dopo Ivan Schiavone, Charles Bernstein,Marilina Ciaco, Nathalie Quintane e Rachel Lamoureux, Michele Zaffarano, Vincenzo Frungillo e Paul Vangelisti, ospitiamo oggi le risposte di Francesco Deotto].
1) Qual è la tecnica (intendendo con questa parola portemanteau un insieme di strategie testuali, para-testuali, extra-testuali, etc., che sia almeno parzialmente oggettivabile e condivisibile da un linguaggio critico riconosciuto o riconoscibile) che permette la conservazione e l’elaborazione della relazione tra “io” e “non-io”, dischiudendo così la possibilità di un “noi”? Tale tecnica ha a che fare con l’esplicitazione deittica del “noi”, o può farne a meno, prendendo altre strade?
Incomincerei indicando quella che descriverei come una via sbagliata, o, più precisamente come una tecnica che non solo nel medio e lungo termine è quasi sempre inefficace ma che spesso può rivelarsi pericolosa. Prima ancora sono però probabilmente necessarie due premesse: ovvero sottolineare l’importanza della lettura, e il fatto che questa non possa mai venire considerata come qualcosa di acquisito. Spesso mancano proprio alcune delle condizioni minime necessarie per poter leggere (e per poter essere letti) in modo ottimale, come un’attenzione e un tempo adeguati, o una conoscenza minima del contesto di ciò che abbiamo davanti agli occhi. E questo anche senza considerare quanto la società contemporanea, con i nuovi media e la moltiplicazione degli stimoli, stia mutando in profondità il nostro modo di leggere e di comunicare. Quello che mi sembra vada però evitato è il calcolo che può portare a semplificare ciò che si scrive, credendo così di poter venire più facilmente compresi. Sebbene in alcuni contesti un simile calcolo possa anche funzionare, in genere mi sembra porti solo a dei risultati parziali e effimeri, che diventano pericolosi nella misura in cui conducono a una visione distorta della realtà. Quello che penso occorra fare è invece non rinunciare mai alla complessità: né, in generale, a quella della realtà, né a quella della pratica dello scrivere, né a quella dell’oggetto particolare di cui si cerca di parlare. È in ciò che mi sembra risiedere la vera condizione per avere un rapporto fecondo ed effettivo con gli altri, e quindi anche per rendere concreta la possibilità di una forma di “noi” che non sia solo superficiale. Una simile prospettiva è difficile da formalizzare, poiché implica il ricorso alle tecniche più diverse, e la ricerca costante di nuove tecniche. Vi è però una poesia di Paul Celan che forse riesce a riassumere quello che penso occorra fare. Si tratta di Parla anche tu (Sprich auch du), inclusa nel 1955 in Di soglia in soglia. Andrebbe lungamente commentata, ma a partire da alcuni suoi versi mi limito a evocare tre aspetti che possono corrispondere a delle strategie da riprendere e da sviluppare. Ecco i versi, nella traduzione di Elisa Biagini: «Parla –/ ma non separare il no dal sì./ Dà al tuo detto anche il senso:/ dagli ombra./ Dagli ombra che basti,/ dagliene tanta,/ quanta tu sai ripartita intorno a te tra/ mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte»[1]. Alla luce di queste parole è innanzitutto utile sottolineare come fin dal titolo Celan, rivolgendosi direttamente a un interlocutore, si opponga al luogo comune di un poeta isolato dal mondo e autocentrato. Un secondo insegnamento, non meno importante, legato questa volta all’espressione «non separare il no dal sì», è quello di non temere le contraddizioni, ma anzi di farsene carico e di esplorarle, e di farlo senza pretendere di risolverle. Si ricordi d’altra parte come ne Il Meridiano Celan rivendichi il fatto che ci sia una «oscurità» propria della poesia e come nel difenderla la colleghi – non a caso – alla possibilità di un incontro con l’altro e quindi alla possibilità di un “noi”: «Questa, credo, è la – seppur non congenita – oscurità che è propria della Poesia, in vista di un incontro che muove da una distanza o estraneità che essa stessa, forse, ha inteso progettare»[2]. Infine, vorrei anche sottolineare il riferimento all’ombra del destinatario del poema e al suo rapporto con la mezzanotte e il mezzogiorno: molto sinteticamente questo passaggio può essere interpretato come un invito a non considerare in modo astratto ciò di cui si parla, ma a farlo mettendosi sempre in gioco in prima persona e tenendo costantemente presente il contesto storico in cui ci si trova.
2) Qual è la tua posizione nei confronti di un “noi” come “pronome politico” in relazione alla tua e/o ad altre scritture?
In linea con quanto appena detto, anche in questo caso penso non possa esserci una risposta semplice, anche perché, proprio quando è messa in avanti la dimensione politica del pronome “noi”, un suo uso ingenuo può comportare dei pericoli considerevoli. Ricordo in particolare il rischio di suo uso rigido, ovvero quando si cede alla tentazione di identificarsi sic et simpliciter con un determinato gruppo. Ciò può portare al rischio della chiusura in tale gruppo e a forme di immobilismo, ma anche a quelli della perdita dell’individualità, della deriva identitaria e della guerra contro ciò che – quasi sempre solo per ragioni contingenti – sembra diverso da noi. Occorre quindi grande prudenza e restare sempre molto vigili. Al tempo stesso però, la ricerca di un “noi” è in quanto tale qualcosa di fondamentale, poiché senza di esso non è neanche possibile qualcosa come un “io” (che d’altra parte è attraversato da una molteplicità di elementi e di identità), né una qualsiasi identità sostanziale. Per cercare di non rinunciare a un “noi” senza cadere nei rischi appena evocati, mi sembra allora sia soprattutto importante una disposizione all’ascolto che cerchi di essere la più aperta e la più ampia possibile, di modo da poter riconoscere quello che abbiamo in comune non solo con ciò che ci sembra subito simile, ma anche con ciò che può sembrarci estraneo, e anche con ciò che inizialmente possiamo disprezzare o che può provocarci disgusto. Nel dire questo, mi sembrano però necessarie almeno quattro precisazioni. Innanzitutto, nel cercare dei punti in comune con gli altri, e con l’“altro”, occorre evidentemente grande attenzione a non trascurare le differenze, a non appiattirle, e a non dimenticarsi della fragilità e della contingenza di ogni forma di comunità. In linea con questa prima precisazione, va poi limitata, per quanto possibile, la tentazione di prendere la parola al posto di altri. Spesso succede di farlo con buone intenzioni, e in alcuni casi è anche la cosa giusta da fare, ma vi è sempre il rischio di appropriarsi dell’altro. Un altro aspetto importante per limitare ogni ingenuità tipica di un uso politico del pronome “noi” è poi il cercare di comprendere le condizioni materiali del contesto in cui lo si usa, e quelle di chi lo usa, a partire da noi stessi. Ciò è essenziale anche per non finire per considerare come naturali o necessari degli elementi che in realtà sono solo il prodotto di circostanze contingenti. Infine, un ultimo aspetto che vorrei evocare è l’esigenza, nel pensare a un possibile “noi”, di non limitarsi a pensare ai nostri contemporanei, o solo all’insieme dei “viventi”. Ci sono anche le generazioni future e quelle passate che vanno tenute presenti. Per chiarire questo aspetto, e per misurare quanto sia tutt’altro che marginale, vorrei richiamare Dell’interlocutore, un breve saggio scritto da Mandel’štam nel 1913, nel quale si sostiene che i poeti si distinguono dai “letterati” per un diverso rapporto con i propri interlocutori. In breve, secondo Mandel’štam, il letterato, per il quale è essenziale una dimensione didattica e deve per questo eccellere e stare più “in alto” della società, si rivolgerebbe fondamentalmente a degli interlocutori concreti, a dei rappresentanti vivi della sua epoca. Nel caso del poeta (che come Villon può essere qualcuno di «assai inferiore al livello medio, morale e intellettuale», del suo tempo) egli sarebbe invece «legato solo all’interlocutore che gli fornisce la provvidenza»[3], come nel caso di un navigatore che getta nell’oceano una bottiglia con un messaggio, che può attendere secoli prima di trovare il proprio destinatario. Nelle parole di Mandel’štam è nella misura in cui la poesia si rivolge a ciò che non conosce che essa ha una particolare forza conoscitiva: «aria della poesia è l’inatteso», «rivolgendoci al conosciuto, possiamo solo dire ciò che si conosce». Ebbene, in riferimento alla questione del “noi”, mi sembra che in questa prospettiva la poesia riveli una sorprendente dimensione politica (in senso largo), poiché, al di là di quelli che sono i suoi contenuti, si rivela come una pratica che rende possibile un nuovo rapporto, meno scontato e più aperto, con gli altri, e quindi anche una forma, meno scontata e più aperta, di “noi”.
3) Come si può concepire, se si può, una sorta di “immagine dialettica” nella poesia e nella scrittura di ricerca contemporanee?
Da un lato, nella misura in cui il mondo è pieno di contraddizioni (e in questa fase storica probabilmente ce ne sono ancora più che in altre epoche), direi che il manifestarsi di molteplici forme di immagini dialettiche è inevitabile, sia nella forma di immagini in senso stretto, sia in forma testuale. Anche senza cercarle è in effetti di fatto inevitabile che appaiano immagini capaci di rivelare come la realtà non ha la forma ordinata che molti vorrebbero far credere che abbia; immagini in altri termini capaci di rivelare come vi siano problemi e ingiustizie anche dove ufficialmente tutto “va bene”, ma anche immagini capaci di mostrare come l’attuale stato di cose non sia necessario, e possa cambiare, per quanto in modi imprevedibili e molto complicati. Ciò detto, è però anche vero chi scrive è chiamato a favorire l’emergere di tali immagini, e a mediarlo con una certa consapevolezza. Per riuscirci due diversi approcci possono essere utili e credo dovrebbero entrambi accompagnare la ricerca poetica e linguistica. Il primo corrisponde all’esigenza di riconoscere e di contrastare il carattere ideologico della maggior parte dei discorsi presenti nello spazio pubblico. Per farlo è allora essenziale prendere coscienza delle loro condizioni materiali, e più in generale di quelle di ogni forma di discorso, compresi i propri. Se questo primo approccio si interessa ai fenomeni di lunga durata, che condizionano le nostre vite senza che ce ne rendiamo sempre conto, il secondo approccio è invece legato ai più piccoli dettagli della vita quotidiana. Lungi dall’essere insignificanti, è a partire da essi che talvolta è possibile vedere da una nuova prospettiva la realtà: ad esempio, riconoscendo la bellezza, la necessità e anche l’utilità di cose che normalmente vengono disprezzate, oppure accorgendosi di come altre cose, in teoria più grandi e più importanti, non funzionino. All’interno di questo approccio tutto può aprire a delle scoperte: dalle pagine di un giornale a una conversazione rubata al supermercato, da un trattato scientifico a un volantino pubblicitario, dall’incontro con qualsiasi persona, indipendentemente dalla sua formazione e dalle sue esperienze, a un qualsiasi luogo, indipendentemente dalla sua centralità o marginalità. Evidentemente però in ognuno di questi casi, non è per nulla detto che l’incontro riesca: dipende sempre dal contesto, dal momento, e dal modo in cui viene vissuto e poi rielaborato.
4) Dato il confronto, che appare ineludibile, con le singole comunità poetiche e i loro contorni che, per quanto labili, si sovrappongono spesso ai contorni delle comunità linguistiche, nazionali o culturali, esiste la possibilità di un confronto transnazionale – propiziato dalla traduzione, ma anche da altre forme di scambio, o anche conflitto, come le digital humanities, l’intelligenza artificiale o anche le nuove forme di scrittura a distanza – che susciti nuove opportunità per il “noi”? A quali esperienze specifiche ricondurresti questo confronto, e con quali prospettive?
A proposito dell’intelligenza artificiale devo ammettere che è un mondo che ancora conosco in maniera troppo parziale. O, più precisamente, è qualcosa che mi incuriosisce molto e che mi riprometto di approfondire presto, ma che al momento non conosco abbastanza bene per poterne parlare in modo pertinente. Quella della traduzione è invece una esperienza che ho avuto modo di praticare in diverse occasioni negli ultimi anni, e non posso che confermarne la fecondità e la centralità, su diversi livelli. Innanzitutto, l’esercizio di tradurre in prima persona un testo, anche solo per sé o come esperimento, può davvero essere la via ideale per leggere e avvicinare un testo. Più in generale, la traduzione mi sembra poi una pratica che andrebbe il più possibile incoraggiata, anche sfruttando le potenzialità dell’intelligenza artificiale, e questo sia per facilitare il confronto tra esperienze diverse, che quello tra diversi modi di descriverle e rielaborarle. Infine, la traduzione mi sembra anche molto utile per riflettere in generale sulla scrittura e sulle diverse modalità con cui la scrittura ci permette di essere in rapporto con gli altri. In questa prospettiva vorrei allora approfittare di questa occasione per ricordare Haroldo de Campos (1929-2003), un grandissimo poeta e traduttore brasiliano (Umberto Eco ad esempio lo considerava come in assoluto «il più grande traduttore moderno di Dante»), che ha anche molto riflettuto sulla traduzione, ma che è ancora poco conosciuto in Italia. In relazione alla questione del “noi” vi sono almeno tre ragioni per cui mi sembra che le sue riflessioni meriterebbero di essere approfondite. Innanzitutto, nei suoi testi viene difesa con grande forza l’idea che la traduzione possa (e debba) essere una pratica critica. Ad esempio, in un saggio del 1963 la descrive come «un’esperienza interna del mondo e della tecnica di ciò che viene tradotto», un’esperienza attraverso la quale «si smonta e rimonta la macchina della creazione»[4]. Al tempo stesso, vi è però in de Campos anche – altrettanto forte – la rivendicazione della natura creativa del processo di traduzione, al punto da affermare, opponendosi alla tradizione che la subordina al contenuto da tradurre, che la traduzione dovrebbe essere orientata dal motto contestatario «non serviam», ammettendo anche di inseguire «il miraggio della conversione dell’originale nella traduzione della sua traduzione»[5]. Infine, de Campos – che, non senza ironia, ha anche associato la traduzione a una forma di trasfusione di sangue e il traduttore a una forma di vampiro – ha anche difeso una forma collettiva di traduzione: suggerendo di creare delle equipe composte sia da linguisti che da poeti. Ebbene, tenere insieme queste esigenze è tutt’altro che semplice, eppure probabilmente è proprio quello che occorre fare. In conclusione, si dovrebbe forse anche osservare come la presenza di un maggior riconoscimento sociale e economico sarebbe di aiuto ai traduttori, specie in Italia, ma ciò apre a tutta un’altra serie di osservazioni.
5) Come si articolano le questioni sollevate (politiche, sociali, tecnologiche, antropologiche) nella tua pratica quotidiana di scrittura poetica e critica? Trovi che alcune di queste problematiche sono più vicine alla tua sensibilità, alla tua poetica?
Nel mio primo libro, Nella prefazione d’una battaglia, uscito nel 2018, la questione del “noi” era esplicitamente presente, al punto che nella quarta di copertina rivendicavo l’obiettivo di «indagare diverse questioni, al tempo stesso filosofiche, linguistiche e politiche, implicite nell’uso del pronome “noi” e della prima persona plurale». Al di là del tono probabilmente troppo enfatico e un po’ ingenuo di questa formulazione, in quel libro, che voleva anche essere un omaggio a Il Conte di Kevenhüller di Caproni, la mia ricerca attorno al “noi” si caratterizzava per la scelta di costruire tutto il testo attorno alla prima persona plurale, senza mai utilizzare né la prima singolare né la seconda singolare o plurale. Ho ugualmente cercato di fare in modo che ci fosse una costante incertezza sul chi o sul che cosa corrisponde al “noi” a cui si riferisce la voce narrante del libro. E per farlo sono anche ricorso alla finzione di non figurare come l’autore del volume, ma come il suo curatore, che avrebbe trovato i testi senza sapere chi li aveva scritti: forse la stessa «fantomatica “Bestia”» protagonista del libro di Caproni, oppure qualcuno che aveva tentato d’approfondire le sue posizioni e il punto di vista. È soprattutto nelle poesie che compongono il libro che ho però cercato di mettere in evidenza la possibile plurivocità e equivocità della prima persona plurale, limitando al massimo i riferimenti a un preciso contesto storico e geografico, e cercando di lasciare aperte diverse possibilità interpretative, sia riguardo alla natura della voce narrante (riguardo, ad esempio, al suo essere umana o animale, alla sua lucidità o al suo delirio, al suo appartenere a un solo o a più individui, ecc.), sia sull’interpretazione delle singole poesie. Passando al mio secondo e più recente libro, ovvero a Avventure e disavventure di una casa gialla, del 2023, il tema del “noi” è invece meno esplicito, ma non è meno presente. Diversamente da Nella prefazione d’una battaglia, questa volta si tratta di un testo legato a un preciso luogo, che ha attraversato diversi momenti chiave della storia portoghese: l’Ospedale Miguel Bombarda di Lisbona, da pochi anni dismesso, che fu il primo, e per diversi decenni l’unico, ospedale psichiatrico del Portogallo, situato in un insieme di edifici di cui il principale era già stato la sede di un collegio militare, e ancor prima di un convento. Lo ricordo perché alla storia di questo luogo sono legati due aspetti di Avventure e disavventure di una casa gialla che possono essere rilevanti a proposito della questione del “noi”. Il primo è il tentativo di esplorare il nostro rapporto con ciò che può essere chiamato l’immaginario o l’inconscio collettivo, ovvero le speranze e le paure che ci attraversano in quanto appartenenti a una comunità. In questa prospettiva ho cercato di riflettere non solo sulla storia passata, ma anche su quella futura dell’Ospedale Bombarda, immaginando diverse ipotesi sul suo futuro, comprese alcune, come quella di un “autobombardamento”, inquietanti, ma purtroppo non impossibili. Più in generale, Avventure e disavventure di una casa gialla è poi un libro che può essere descritto come un tentativo di riflessione sul rapporto tra scrittura, storia e spazialità: tre dimensioni che sono tutte essenziali per pensare il nostro rapporto con gli altri, e tre dimensioni che a loro volta non possono essere pensate senza affrontare la questione del rapporto con gli altri e con un “noi”. Quest’ultimo punto mi permette di richiamare un ultimissimo aspetto che vorrei evocare e che mi sembra caratterizzare in generale la mia pratica di scrittura (e anche quella fotografica): l’obiettivo di creare dei testi e delle immagini che siano degli spazi ospitali. Preciso subito che con questa espressione non intendo però uno spazio asettico e impersonale, come possono esserlo alcune camere d’albergo sempre uguali in ogni parte del mondo, o tutti quegli spazi espositivi costituiti da stanze bianche e spoglie. Si tratta piuttosto di cercare una forma di ospitalità (e di incontro) che corrisponda a dei testi e a delle immagini capaci – prendendo sul serio la complessità del mondo – sia di offrire una grande libertà a chi vi arriva, sia di sollecitarlo e di interrogarlo.
6) Si è cercato di tracciare un panorama delle questioni più urgenti partendo dal “noi”: condividi questo modo di descrivere l’interconnessione dei vari problemi sollevati?
Sì, e anzi: non solo l’interconnessione proposta mi sembra pienamente convincente, ma direi che nel loro insieme queste domande mi hanno aiutato a riflettere e a dare una forma più organica alla mia posizione rispetto a diversi aspetti che su cui precedentemente avevo riflettuto separatamente. Mi piace inoltre anche l’idea del questionario, che facilita il confronto tra le risposte delle diverse persone coinvolte, e di chiunque voglia anche in futuro provare a proporre delle risposte.
(settembre-ottobre 2023)
Note
[1] P. Celan, Non separare il no dal sì, a cura di E. Biagini, Ponte alle Grazie, Firenze, 2020.
[2] P. Celan, La verità della poesia, a cura di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino, 1997, p. 13.
[3] O. Mandel’štam, Sulla poesia, a cura di A. M. Ripellino, traduzione di M. Olsoufieva, Bompiani, Milano, 2003, p. 59.
[4] H. de Campos, Traduzione, transcreazione, a cura di A. Lombardi e G. D’Idria, Oèdipus, 2016, p. 45.
[5] H. de Campos, De la raison anthropofage et d’autres textes, a cura di I. Oseki-Dépré, Nous, Parigi, 2018, p. 89.
[Immagine: Foto di Clarissa Bonet].