di Riccardo Capoferro
Un secolo fa, nei suoi ultimi mesi di vita, Joseph Conrad non immaginava forse che una delle sue prime opere, un romanzo breve basato su un suo disastroso viaggio in Congo del 1890, avrebbe goduto di una diffusione superiore a quella di tutti gli altri suoi libri messi insieme. Né si sarebbe immaginato di vedere al cinema e nei fumetti storie che ne trasponevano i temi e le linee principali in altri luoghi e tempi. Ancor meno si sarebbe immaginato le critiche feroci che a quello stesso romanzo sono state mosse e che a tutt’oggi continuano a risuonare.
Da un lato, infatti, Cuore di tenebra è considerato (a ragione) un attacco al colonialismo belga e una meditazione sui limiti dell’intero sistema coloniale. Il romanzo di Conrad satireggia i preconcetti, gli ideali e le visioni della storia a cui gli amministratori, i promotori e la manovalanza dell’impero ricorrevano per giustificarne le logiche di sfruttamento. Charlie Marlow, il narratore e protagonista di Cuore di Tenebra, non risparmia il suo sarcasmo. Considera la propaganda imperialista un mucchio di stupidaggini. Nell’impresa coloniale belga vede un saccheggio privo di senso, messo in atto da agenti commerciali avidi e spietati: a cominciare dallo stesso Kurtz, un leggendario agente di cui si decantano le virtù, ma che nella giungla si è trasformato in un signore della guerra. Marlow si sofferma, inoltre, sulle sofferenze dei congolesi, sfruttati fino alla morte, di cui in quegli anni in Europa non si sapeva quasi nulla. E benché Conrad apra Cuore di Tenebra evocando un imperialismo “buono” – il cosiddetto “imperialismo liberale” – suggerisce in più occasioni che gli inglesi e l’Europa intera non siano immuni da colpe. Del resto, la compagnia che negli anni ’90 più aveva guadagnato dalla raccolta e l’esportazione della gomma era la A.B.I.R., acronimo di Anglo-Belgian India Rubber Company.
Ma Cuore di tenebra è stato anche oggetto di critiche feroci. Nel 1977 lo scrittore nigeriano Chinua Achebe – uno dei pionieri della narrativa postcoloniale – denunciò nel saggio “An Image of Africa”, citato migliaia di volte e spesso ripubblicato insieme a Cuore di Tenebra, che il romanzo conteneva stereotipi razzisti: secondo Achebe Conrad era un “bloody racist”, un dannato razzista a cui dell’Africa non interessava nulla. La sua provocazione fu raccolta da generazioni di critici postcoloniali che continuarono a considerare Cuore di tenebra colluso con l’imperialismo, da altrettanti critici che hanno cercato di assolverlo, e da tutti quei lettori o studenti, perlopiù del mondo anglofono, che – come si vede curiosando sui social – reputano Cuore di tenebra un’opera abominevole, indegna di figurare nei programmi universitari. Tra studenti suscettibili, shitstorms e amministratori timorosi di perdere iscritti, insegnare Cuore di tenebra nelle aule statunitensi è diventato rischioso. Nei giorni di Black Lives Matter la Joseph Conrad Society of America ha pensato bene di pubblicare una dichiarazione in cui ribadiva la propria ferma condanna del colonialismo e la volontà di utilizzare l’opera di Conrad in funzione di valori anticoloniali.
È innegabile: se da un lato Cuore di tenebra muove una severa e accorata critica all’imperialismo, contiene, dall’altro, stereotipi razzisti. E gli intenti di Achebe sono comprensibili e per molti versi condivisibili. Il processo di decolonizzazione era iniziato, ma i canoni erano rimasti intatti. Più che Conrad di per sé, l’obiettivo di Achebe erano le istituzioni accademiche che lo avevano canonizzato. Achebe voleva che quelle istituzioni, rappresentate da F. R. Leavis, il critico che aveva definito la “great tradition” della narrativa britannica, diventassero consce del proprio eurocentrismo. Il modo migliore per farlo era attaccare una delle pochissime opere canoniche – lette, insegnate, commentate, citate e amate – che parlavano di Africa. E la rivoluzione non è un pranzo di gala.
Leggere Cuore di tenebra nel 2024 significa, dunque, confrontarsi con la densissima nube di interpretazioni che lo avviluppa, in contesti accademici e in molti altri spazi di espressione o discussione. E con ciò che quelle interpretazioni implicano, per chi studia e insegna letteratura o semplicemente vede nella comprensione della letteratura – più che nel suo consumo – una via per affinare la comprensione del mondo. L’impatto di Cuore di tenebra mette radicalmente in questione il nostro rapporto con la storia, complicato da una decolonizzazione mai davvero finita – anzi, soltanto iniziata – e dalle nostre responsabilità di cittadini globali, che richiedono una consapevolezza del passato coloniale. Un passato, inutile ripeterlo, di cui molte disparità e molti conflitti – come quello israelo-palestinese – sono in larga parte un prodotto.
Non c’è dubbio: l’opera di Conrad condanna un sistema ma al tempo stesso ne perpetua alcune strutture di pensiero. La critica mossa da Cuore di tenebra si innerva di valori interni alla stessa costellazione culturale imperialista e prende forma in uno dei suoi centri nevralgici: la rivista “Blackwood’s Magazine”. Ma quest’ambivalenza è a ben guardare una crepa nel gigantesco edificio del “nuovo imperialismo” di fine Ottocento. In Cuore di tenebra, infatti, Conrad usa il linguaggio dell’imperialismo per criticare l’imperialismo stesso. Faccio un esempio: la degenerazione dell’impresa coloniale in saccheggi e massacri legalizzati – animati da quelli che Conrad, come molti conservatori timoroso degli eccessi del sistema capitalista, chiamava “interessi materiali” – costituisce, per Marlow e molto probabilmente anche per Conrad, un allontanamento dagli ideali elevati e di fatto irrealizzati dell’imperialismo liberale, che funge così da pietra di paragone per denunciare l’orrore della violenza coloniale. Oppure: la visione dell’Africa come un luogo primitivo, collocato a uno stadio precedente dell’evoluzione umana, si sposa in Cuore di tenebra a una prospettiva antropologica che equipara gli europei e gli africani, entrambi spinti da incontrollabili pulsioni aggressive. Di quelle stesse pulsioni l’imperialismo è, secondo Conrad e altri suoi contemporanei, un sintomo macroscopico. Come suggerisce il finale del romanzo, il “cuore di tenebra” non è solo in Africa: è anche a Londra.
La contraddizione di Cuore di tenebra si ritrova anche in figure più schierate di Conrad. Nel 1904 ebbe inizio il primo grande movimento umanitario del Novecento, promosso da un giornalista di origine belga di nome E. D. Morel, ex impiegato di una compagnia di import-export di Anversa che commerciava con il Congo. Quando si rese conto che dall’Europa partivano perline e fucili e dal Congo arrivano avorio e gomma, Morel si insospettì. Con un intenso lavoro di documentazione e divulgazione riuscì negli anni successivi a sensibilizzare un’ampia fetta di pubblico e a far varare, in Gran Bretagna, un’inchiesta parlamentare sugli orrori che si consumavano da anni nello Stato Indipendente del Congo, la cui creazione era stata presentata come un’impresa benefica. In un’occasione, lo stesso Conrad diede il suo sostegno a Morel, anche se evitò un coinvolgimento attivo nel movimento. Nel 1904 autorizzò la pubblicazione di una lettera in cui denunciava le violenze commesse in Congo e auspicava un intervento umanitario.
Ma Morel – che usò Cuore di tenebra come fonte documentaria – non era radicalmente contrario all’imperialismo: come altri suoi contemporanei credeva in un colonialismo illuminato. Sia lui che Conrad erano, insomma, parte della cultura che criticavano, ma che osservavano dai margini (ricordiamo che Conrad, figlio di indipendentisti polacchi, era fuggito dall’oppressione zarista). E le loro opere ci ricordano che la storia è fatta di sfumature, e che negarle o trascurarle, stigmatizzando il proprio oggetto di conoscenza, significa rinunciare alla comprensione del passato, che può esserci d’aiuto per decifrare il presente.
Le controversie legate a Cuore di tenebra chiamano in causa, in altri termini, i modi in cui si interpretano le parole di un’altra epoca, sia dentro che fuori le aule universitarie. Molte delle accuse mosse a Conrad si basano su una pratica delineatasi negli ambienti umanistici e poi filtrata, in forma semplificata, nella sfera pubblica e nel lessico politico dei social media. È una storia terribilmente intricata, su cui molto si è scritto e molto è ancora da scrivere, e di cui non potrò che evidenziare gli aspetti più superficiali. L’influenza del pensiero post-strutturalista francofono, specialmente di Michel Foucault e Jacques Derrida, si è mescolata, negli USA degli anni ’80, con il clima della politica delle identità, con gli esiti più vari. I punti di vista delle minoranze (o maggioranze) oppresse sono finalmente diventati visibili, ampliando e affinando la visuale sul passato. E sono diventati più visibili le forze e i vincoli, materiali e culturali, che opprimevano quegli stessi gruppi. Simultaneamente, nelle facoltà umanistiche e in alcuni ambiti della società statunitense hanno preso piede precauzioni e prescrizioni il cui fine era – ed è – depurare il linguaggio da ogni sfumatura discriminatoria.
Al tempo stesso, si sono diffuse pratiche interpretative che hanno suscitato grosse perplessità sia all’interno che all’esterno degli studi letterari, e le cui implicazioni sono state portate alla luce da un episodio sconcertante e istruttivo, passato alla storia come “la beffa di Sokal”. A metà degli anni ’90 il fisico Alan Sokal sottopose alla rivista “Social Text” un articolo intitolato “Transgressing the Boundaries: Towards a Transformative Hermeneutics of Quantum Gravity”. Era un pastiche parodico che presentava la gravità quantistica come “a liberatory postmodern science” dal significato progressista e affine al pensiero post-strutturalista, e che riuscì a ingannare il comitato editoriale perché faceva leva su un preconcetto ideologico. L’articolo fu pubblicato nel 1996 sul n. 46/47 di “Social Text”; dopodiché, su un’altra rivista, Sokal rese nota la beffa.
Molte delle pratiche di lettura divenute correnti e in parte caricaturate da Sokal – e più di recente da tre suoi emuli – sono ben definibili con il termine “sovrainterpretazione”, usato da Umberto Eco in un dibattito incentrato proprio sui problemi legati all’ascesa del post-strutturalismo. Consistono infatti nell’estrapolazione di uno o più dettagli testuali potenzialmente negativi e spesso marginali, in cui si vede l’espressione di un’ideologia monolitica e insieme tentacolare che pervade ogni angolo dell’esperienza, conscia e inconscia. Il presupposto di questo tipo di lettura, messo in discussione ma ancora diffuso, è che l’interpretazione dei testi debba esser parte di una costante, instancabile critica al potere, e che il linguaggio ci possieda. Che determini nostro malgrado – e a prescindere da quel che facciamo, da chi ci circonda e da dove ci troviamo – il senso e il valore sociale di quel che diciamo.
Poiché si basa spesso sulla ricerca di significati latenti, questa declinazione politica dell’interpretazione (letteraria e non solo) è ben definibile anche attraverso un concetto proposto nel 1997 dalla teorica Eve Kosofsky Sedgwick, quello di “lettura paranoica”, formulato per suscitare una riflessione sugli indirizzi critici dei due decenni precedenti. Secondo Sedgwick le letture paranoiche, orientate dal sospetto, tendono ad anticipare i loro esiti, perché si sa in anticipo a quale conclusione si vuole arrivare, regalano l’illusione gratificante di poter smascherare le logiche di un’oppressione pervasiva, e si basano su teorie dalle maglie larghe – teorie “forti” – che coprono una gamma vastissima di fenomeni. Le letture paranoiche hanno spesso avuto come esito delle sovrainterpretazioni: se un dettaglio può prestarsi anche lontanamente a un’interpretazione negativa, quest’ultima va sviluppata a prescindere dal contesto e dalle intenzioni enunciative; a prescindere dall’insieme di circostanze che nella comunicazione di tutti i giorni determinano la produzione del significato.
Per esempio, la scarsità di riferimenti all’impero nella narrativa britannica dell’Ottocento ad ambientazione domestica è spesso stata considerata il segno di un’esclusione volontaria, di un disconoscimento funzionale al dominio imperialista: una lettura inaugurata nel 1993 da Cultura e imperialismo, uno studio classico di Edward Said che comprende un’interpretazione di Mansfield Park, il terzo romanzo di Jane Austen. Ma altri studiosi hanno contestato questa tesi, con dati che lo stesso Said mette in evidenza. Dell’impresa imperialista, in effetti, si parlava nei periodici ad ampia diffusione, nella narrativa d’avventure, nella poesia e a teatro, anche se non era ancora oggetto di una propaganda ampia e serrata. L’espansione era magnificata, la violenza e lo sfruttamento erano giustificati, e le reti mercantili della Gran Bretagna erano oggetto di discussioni, progetti e orgoglio. L’assenza dell’impero dai romanzi domestici non era necessariamente frutto di un’omissione. Era il frutto, semmai, di una prospettiva circoscritta all’esperienza delle lettrici, determinata in larga parte dalla loro esclusione dalla vita economica e radicata nelle tecniche narrative del secolo precedente, che attraverso lo stile epistolare mostravano perlopiù il punto di vista delle eroine – in Pride and Prejudice, per esempio, non ci viene quasi mai detto cosa fanno Darcy o lo stesso signor Bennet quando sono da soli. Ma sporadicamente, come avviene proprio in Mansfield Park, questo muro di sconoscenza poteva incrinarsi (Austen fu avvantaggiata dall’esperienza del padre, ex-amministratore di una piantagione, e di due dei suoi fratelli, ufficiali della marina britannica).
C’è in tutta probabilità una parentela tra le letture paranoiche fiorite nelle pubblicazioni accademiche e nelle aule dagli anni ’80 e quelle ancora più paranoiche spuntate nei social media nell’ultimo decennio, quasi mai nei paraggi delle facoltà scientifiche. Dietro entrambi i fenomeni c’è spesso il bisogno di mostrare la propria indignazione o la propria innocenza per mezzo di un attivismo surrogato, e la difficoltà – o la resistenza – a immaginare soluzioni politiche che mettano concretamente in discussione le basi socioeconomiche della discriminazione. Il fenomeno ha molte radici, spesso intrecciate. A questi fattori si somma infatti, nell’America di oggi, il persistere di comportamenti razzisti e, nelle istituzioni educative e non solo, l’imperativo a rispettare le identità culturali, che esige anche il rispetto di una vulnerabilità emotiva sempre più esplicita e ritualizzata. Uno stato di cose che si traduce nella paura dei docenti universitari di innescare negli studenti esperienze traumatiche – “trauma” è un’altra parola d’ordine di questi anni – e di finire nell’occhio di un ciclone social-mediatico.
Ne sono derivati, in effetti, dei processi sommari, basati su interpretazioni aberranti. Viene in mente un caso estremo: nel 2020 un professore di Clinical Business Communication della University of Southern California, Greg Patton, stava spiegando ai suoi studenti la funzione di un intercalare cinese – “na-ge” (那个) – quasi omofono di “nigger”. Alcuni studenti, offesi, protestarono, e Patton fu sospeso. Gli studenti ritenevano che a prescindere dalle palesi intenzioni di Patton – che stava facendo il suo lavoro, cioè insegnare il cinese – il solo suono della parola conservasse il significato aggressivo e discriminatorio che gli avrebbe attribuito un suprematista bianco.
Queste tendenze si sono spesso scontrate con la necessità, cruciale nelle facoltà umanistiche, di studiare eventi e culture del passato non compatibili con i valori di una società multiculturale. Si tratta, certo, di casi estremi. Molte delle interpretazioni postcoloniali di Cuore di tenebra – a cominciare da quella magistrale di Edward Said – sono state ben argomentate, ed è fuor di dubbio che nel romanzo di Conrad ci siano anche stereotipi razzisti. Il senso di ripugnanza che suscitano non va certo negato, ma va riconciliato con la necessità didattica, intellettuale e, inevitabilmente, civile, di attivare altre funzioni cognitive. Se il proprio obiettivo è studiare o capire il testo, i passi problematici di Cuore di tenebra vanno inquadrati per quel che sono. Non sono affermazioni di un poliziotto razzista dell’Alabama; sono echi della pseudoscienza imperialista di fine Ottocento, parte di un testo molto complicato che rientra in un contesto a sua volta molto complicato. Un testo che mostra anche le vessazioni e le sofferenze inflitte ai congolesi dal colonialismo belga, in tutta evidenza – lo testimonia la lettera aperta di Conrad – per suscitare un legame simpatetico tra mondi lontani.
Con le sue ambivalenze, le controversie che lo accompagnano, la sua densità e la sua forza, Cuore di tenebra ci mette, dunque, alla prova. Solleva questioni che è importante affrontare per coltivare un dibattito produttivo non solo negli spazi dell’accademia: anche all’interno della sfera pubblica e delle sue molte, pericolanti articolazioni. A cominciare dal mondo effimero, circense e narcisistico della comunicazione digitale, in cui scorre una feroce ansia di messa all’indice, spesso dettata dall’ansia di apparire o di autopromuoversi, fenomeni che hanno sempre più ricadute sul modo in cui si legge, si scrive e si pensa.
Il caso di Cuore di tenebra ci incoraggia insomma a confrontarci con i dettagli e le implicazioni, con i legami sottili tra i libri e il mondo, e con i mille modi in cui i libri sono stati letti – con quello che hanno di fatto significato. Oltre che all’intervento di Achebe, per esempio, è utile tornare a quello dello scrittore guyanese Wilson Harris. Nella sua risposta ad Achebe, pubblicata nel 1981, Harris considera Cuore di tenebra un “romanzo di frontiera”, collocato su una “soglia” oltre la quale Conrad si è teso, senza riuscire a superarla, ma cercando di turbare le “apparenze” che la cultura vittoriana considerava “sacre e senza tempo”. Nell’ottica di Harris, Cuore di tenebra ci può ricordare che ognuno di noi, ogni scrittore e ogni lettore, ha una storia, un contesto e un punto di vista che lo ostacolano, ma che può provare a forzare quasi fino al punto di rottura. E che la purezza è difficile da conseguire, se non nelle fantasie dei puritani, che si credevano più civili degli “indiani”, ma erano inclini a cercare capri espiatori.
Non guasta, per concludere, un richiamo all’attualità. La lezione di Cuore di tenebra mi è parsa rilevante dopo aver visto Killer of the Flowers Moon di Martin Scorsese e aver letto sul web le impressioni degli spettatori che hanno trovato il film discutibile. Il punto di vista di Scorsese non è stato, secondo i detrattori, quello dei nativi americani, ma quello di un regista bianco. Si è trattato dell’ennesimo film “di Scorsese”, con dei gangster come protagonisti, e con un gruppo di efficienti investigatori – gli agenti del Bureau of Investigation, antesignano dell’F.B.I. – che viene a mettere le cose a posto come nel poliziesco più trito. Ma quest’interpretazione è stata forse parziale: ha escluso le evidenti cautele di Scorsese, il disgusto che ispira verso i suoi protagonisti – meno accattivanti dei protagonisti di Goodfellas – e l’intenzione di contribuire a una diversa coscienza popolare della storia degli USA, rilevati, peraltro, anche dagli spettatori nativo-americani che hanno ben accolto l’operazione. Scorsese ha usato lo stile e il genere che meglio padroneggiava e che gli garantiva maggior afflusso di pubblico per narrare un capitolo della pulizia etnica che è al cuore di una violenta storia coloniale. Consapevole, inoltre, di aver realizzato un film in cui a portare ordine è un’organizzazione diretta dal famigerato J. Edgar Hoover – non proprio un alfiere dei diritti civili – ha inserito, in chiusura, due sequenze stranianti. La vicenda terribile degli omicidi degli Osage è interrotta da un radiodramma che anni dopo, di fronte a una platea divertita, banalizza gli eventi, e la cui funzione è evidenziare la posizione scomoda in cui si trova lo stesso film di Scorsese, parte di un’epica popolare che è inscindibile dall’intrattenimento di massa. Quindi, con una nuova interruzione, nell’ultima sequenza compare Scorsese stesso, deciso a chiarire quali siano state le sue intenzioni, verso quale “frontiera” – per dirla con Wilson Harris – ha provato a spingere la sua poetica. Quali fossero le intenzioni di Conrad e, soprattutto, quale significato abbia assunto Cuore di tenebra nel corso dei decenni sta a noi scoprirlo, con attenzione, pazienza e – perché no – curiosità.
Articolo da divulgare!! Coglie nessi tra storia, letteratura/cultura e società in uno sviluppo temporale che partendo dall’opera di Conrad giunge ai nostri giorni. Evidenzia la complessità degli intrecci e la deriva degli esiti. Un grazie all’autore
Grazie, un ottimo articolo. Il tema mi interessa non da oggi e mi è capitato di parlarne anche su questo blog.
Credo anche io che la questione del rapporto tra testo e interpretazione, interpretazione e sovrainterpretazione sia centrale. In un certo senso i social come grande serbatoio di interpretazioni instabili e tumultuose hanno materialmente incarnato nella società quello che nella French Theory restava astrazione accademica, dimostrando che effetti devastanti può avere la lettura paranoica: sospetto generalizzato, confusione tra ad rem e ad hominem (chi parla e non di cosa parla), preso tout court per la ben più impegnativa critica del potere.
Su Cuore di tenebra, e proprio in connessione al tema di questo articolo, segnalo il bel saggio di Sertoli premesso all’edizione Einaudi bilingue. Vi sia arriva a conclusioni non troppo lontane, se ben lo ricordo (ma è lettura di parecchi anni fa).
In Interpretazione e sovrainterpretazione Culler suggerisce che quella che Eco chiama sovrainterpretazione potrebbe forse essere chiamata sottointerpretazione. È un suggerimento da sviluppare.
Bello il pezzo di Riccardo Capoferro di cui condivido la lettera ma soprattutto lo spirito.
Forse io avrei voluto che lui fosse più deciso nel criticare una certa critica postcoloniale a Conrad.
Per esempio lui dice che “Molte delle interpretazioni postcoloniali di Cuore di tenebra – a cominciare da quella magistrale di Edward Said – sono state ben argomentate, ed è fuor di dubbio che nel romanzo di Conrad ci siano anche stereotipi razzisti.”
È davvero così magistrale questa e altre critiche che si accaniscono a reperire stereotipi nelle opere del passato.
Li trovano? E certo che sì! Da Omero alla Bibbia passando per Shakespeare Tasso Dostoevskij Nabokov Eliot eccetera di stereotipi classisti, sessisti, razzisti ecc. ne trovi finché vuoi.
Ma appunto spesso questi ritrovamenti accompagnati da indignazione assomigliano alle scoperte dell’acqua calda.
A essere interessante non è che ci siano degli stereotipi (come potrebbero non esserci?) bensì che gli scrittori abbiano lottato contro quegli stereotipi fino a contraddirli, oltrepassarli, sfidarli.
Questo è il bello della letteratura!
Se Conrad fosse stato un liberal perfettamente in sintonia con il pensiero radicale e di sinistra che vige nei colleges americani (con la significativa esclusione dei dipartimenti scientifici) non avrebbe scritto il capolavoro che ha scritto bensì un pamphlet antirazzista, molto commendevole ma esteticamente di nessun interesse.
Conrad sa scritto un capolavoro non benché fosse uomo del suo tempo ma proprio perché era uomo del suo tempo, della sua società, della sua cultura.
È partito da lì per andare oltre.
Forse che basta avere idee “giuste e buone,” forse che basta avere letto Foucault Derrida Spivak Bhabha, Said ecc. per scrivere buoni romanzi?
Non solo non basta, ma io direi che con le cosiddette idee giuste e buone (o supposte tali) si fanno per lo più cattivi romanzi, romanzi edificanti.
Scrive Harris “Cuore di tenebra è un romanzo di frontiera collocato su una “soglia” oltre la quale Conrad si è teso, senza riuscire a superarla. “
Per fortuna non l’ha superata, dico io! Perché a interessarci è proprio la tensione, è, come dice Capoferro, la capacità di “provare a forzare quasi fino al punto di rottura” la mentalità dominante.
E scrive ancora Capoferro: “la purezza è difficile da conseguire, se non nelle fantasie dei puritani”. E io direi che la ricerca della purezza è già di per sé sconsigliabile e che la grande letteratura è il regno dell’impuro, del contraddittorio, dell’ambiguo, e non certo della purezza, e sia pure una purezza da sinistra puritana.
E mi viene da dire che molte di queste critiche fatte agli errori degli scrittori del passato sottintendono la sicumera che invece “noi” (contemporanei, viventi) finalmente siamo nel giusto e nel vero e guardando al passato possiamo compilare le tabelline dei buoni e dei cattivi
Come se anche “noi” non fossimo presi dentro alla rete dei pregiudizi e degli impliciti culturali che caratterizzano ogni epoca; come se anche le nostre opere non potressero nel futuro essere criticate per i loro limiti. Non dovrebbe questo pensiero consigliari un po’ di umiltà verso gli “errori” di Conrad e degli altri.
A contare non sono mia, mai, la giustezza delle idee di una autore, ma la sua capacità di consegnarci visioni ampie, sfaccettate, contraddittorie, chiaroscurali del mondo, della vita, della società.
Questo Conrad è stato capace di farlo in modo mirabile.
Spero comunque che sui temi sollevati da Capoferro si continuerà a discutere.
“Professor Patton was never suspended nor did his status at Marshall change.” https://poetsandquants.com/2020/09/26/usc-marshall-finds-students-were-sincere-but-prof-did-no-wrong-in-racial-flap/
L’intervento di capoferro è molto equilibrato, ma occorre ricordare che i casi estremi di cancel culture vengono spesso estremizzati dai media. In Italia, una bestemmia pronunciata in classe avrebbe probabilmente prodotto anch’essa una temporanea interruzione della lezione.
Pienamente d’accordo con Brugnolo, contro l’ idiozia del politically correct.
Oggi, nelle università americane, dove studio e lavoro da trent’anni, gli studenti contestano “La dolce vita” di Fellini come smaccatamente maschilista e “Deserto rosso” di Antonioni come ipocrita. E bisogna capirli: vogliono fare la cosa giusta, vogliono ristabilire l’ordine etico e fare piazza pulita delle ingiustizie e credono a tutti gli effetti di poterlo e di doverlo fare: il compito specifico che spetta a questa generazione è rimediare ai guai causati da tutte quelle precedenti, a partire dal disastro climatico. Soprattutto, sono convinti di non aver niente da imparare dal passato, perché sono interessati al futuro che spetta a loro di costruire, in cui scienza e tecnologia promettono in sé la palingenesi del bene.
Se l’ideologia liberal non ha toccato i dipartimenti di scienze naturali è perché la logica stessa della scoperta scientifica si basa sull’obliterazione di leggi obsolete e la loro sostituzione con leggi valide. Il giusto rimpiazza lo sbagliato, che ormai diventa storia (“that’s history, not science”) e quindi, e questo è il punto, non ha più senso studiarlo. Il problema è la perdita di valore del metodo della conoscenza storica rispetto alla logica della scoperta scientifica.
E c’era da aspettarselo, perché nell’idea di America è insita l’obliterazione del passato. Già lo dicono i versi di Emma Lazarus sul basamento della Statua della Libertà: qui si abbandona il passato e si riparte da zero. Del resto, l’interesse degli Stati Uniti verso la cultura europea è durato più o meno cinquant’anni (1950-2000) ed era fondamentalmente la pezza giustificativa dell’egemonia americana nel mondo. Oggi l’Europa conta molto meno e gli Stati Uniti avvertono il rischio di poter perdere l’egemonia mondiale. La festa è finita e i santi, come sempre, sono stati gabbati.