di Francesco Permunian
[Esce oggi per Oligo Editore I demoni beati. Bracconaggi e scorribande in distretti di caccia riservata, un nuovo libro di Francesco Permunian, con i disegni di Roberto Abbiati. Ne proponiamo qui la premessa e il terzo capitolo].
Voci ulteriori
(quasi una premessa)
Oddio, il discorso è molto semplice e non abbisogna di tante parole. Non è perciò il caso di tirare in ballo le Muse trattandosi, nella fattispecie, di un semplice assemblage di “citazioni” più o meno letterarie e di varia umanità, frutto delle mie scorribande tra giornali, libri, riviste, almanacchi, opuscoli e opuscoletti che mi sono capitati tra le mani nel corso degli ultimi decenni.
Un gran mucchio di rimasugli cartacei, insomma. Che provengono da letture particolarmente disordinate e onnivore: sia da quelle fatte di giorno (le più spassose, indubbiamente) che da quelle notturne (le più penose, ahimè, in quanto figlie dell’insonnia).
Alla fine ne ho selezionati poco più di una trentina, di tali racimoli. Non sono molti, è vero. Più che sufficienti, tuttavia, a restituirci l’eco di un malinconico ballo di voci d’antan; amabili voci ulteriori che risalgono, non di rado orrendamente sfigurate e straziate, dal fondo di quell’oblio in cui da tempo sono precipitate.
A rendere l’idea, sono sufficienti, ad esempio, certe letterine vagamente allucinate di Comisso indirizzate a Mondadori o il resoconto impietoso di un pietosissimo figlio (Marcello Veneziani) sul conto del suo amatissimo padre. Oppure, meglio ancora, basterebbe stare in ascolto di quel diabolico trio di insultatori seriali e sublimi quali furono Gombrowicz, Bernhard e Schopenhauer, trascorrendo poi a quei due poeti che posero fine ai loro patimenti in maniera parimente drammatica: il primo (Norbert C. Kaser) suicidandosi per eccesso di alcool e disperazione, l’altro (Ezra Pound) sprofondando nell’afasia più totale dopo aver imprecato per anni contro tutto il mondo moderno.
E potrei dilungarmi ricordando l’ultimo discorso in pubblico di Goffredo Parise, a Padova, in cui diede addio alla vita e a ciò che era stato il suo mondo e, infine, concludere la passerella con Piergiorgio Bellocchio, il gran “magazziniere” del Novecento italiano.
Una trentina circa di fogli e foglietti volanti, dunque. Mettendo equamente nel conto, con pari dignità, sia le pagine di alcuni capolavori della letteratura mondiale che i ritagli di stampa dei maggiori quotidiani nazionali. Compresi, ovviamente, le illazioni e i pettegolezzi scovati in certe gazzette di provincia di cui ora non ricordo più il nome.
Goffredo Parise (disegno di Roberto Abbiati)
Il qual ciarpame cartaceo, ci tengo a precisarlo, rappresenta tuttavia soltanto la punta estrema – quella più visibile – di un singolare iceberg: stipati alla rinfusa su in soffitta, tra polvere e ragnatele, giacciono infatti svariati metri cubi di carta straccia che occupano pressoché l’intera superficie di quel locale col rischio, nient’affatto remoto, che prima o poi tutta quella paccottiglia mi crolli in testa.
Orbene, tale ingombrante ammasso (lo si sarà ormai intuito, spero) è il frutto bacato e perverso delle mie letture. Letture di una vita intera. Una vita interamente passata sui libri, ripeto, che alla fin fine ha prodotto una montagna di carta lungo i cui tornanti io stesso non riesco più a raccapezzarmi.
Al punto che mi si potrebbe anche chiedere, e con legittima curiosità: ma a che ti serve, ora che sei vecchio, tutta quella mostruosa congerie di ciarle e menzogne cartacee? E perché mai, pur consapevole di un simile inganno, ti ostini a raccoglierle ancora con maniacale cura certosina manco fossero le preziosissime Lamine dorate di Pyrgi? Lo faccio, potrei rispondere, semplicemente per abitudine. Specie alla sera, di ritorno dagli affanni della giornata. E non di rado ci passo pure la notte, tutta la notte, su quegli scartafacci.
Presumo sia oramai una mania. Un’innocua fissa senile, non saprei come definirla altrimenti questa mia ostinata frequentazione di poeti e scrittori e ciarlatani vari. O forse, chissà, è soltanto un modo – l’unico modo a me concesso – per sentirmi in loro compagnia. Al calduccio e al riparo sotto l’ala delle loro lunghe ombre ulteriori.
***
III
Grandi scrittori, grandi premi
(Gombrowicz, Schopenhauer, Bernhard)
Ero molto felice, finora, di aver salvato le mie scarpette dal fango di quell’irrimediabile demi–monde: l’ambiente dei premi letterari.
Cristina Campo, lettera a Leone Traverso.
E dopo la Campo, così Witold Gombrowicz nel suo Diario (in data 7 agosto 1967) in cui accenna al Prix International de Littérature:
«Subito dopo aver ricevuto il premio, ho redatto la lista dei miei nemici letterari (purtroppo per la maggior parte polacchi) e, pescando a caso questo o quel nome, mi sono mentalmente inebriato di quella funesta acidità, di quella grigia acredine.
Credo che questo sia l’unico lato piacevole della faccenda. Perché, per il resto, è più la fatica che altro: oltre una trentina di interviste, per non parlare che di quelle. Quanto alla mia fama, si è rivelata di tipo molto speciale. Il critico francese Michel Mohrt, nella magnifica arringa pronunciata davanti alla giuria in difesa della mia candidatura, ha detto tra l’altro quanto segue: “Nell’opera di questo scrittore c’è un segreto che vorrei conoscere: non so se sia un omosessuale, un impotente o un onanista, fatto sta che in lui c’è qualcosa del bastardo e non mi stupirei se in segreto si abbandonasse a orge sul tipo di quelle del Re Ubu”.
Questa acuta interpretazione, di squisito gusto francese, delle mie opere e della mia persona è stata strombazzata dalle radio e dai giornali di tutte le lingue, per cui, al mio passaggio, i giovani seduti al caffè della piazzetta di Vence si dicono sottovoce: “Guarda, quello è il vecchio impotente omosessuale bastardo dedito alle orge!”
E poiché la delegazione scandinava di quella stessa giuria mi ha appoggiato in quanto “umanista”, certi giornali ne hanno ricavato un titolo in rima: Umanista come dire onanista».
Non meno di Gombrowicz, anche Schopenhauer di certo non le mandava a dire. E oltretutto più invecchiava, più inacidiva al punto che:
«Con l’età la sua inclinazione all’insulto dilagò per ogni dove. Tanto che l’ormai maturo filosofo non esitò a infiorare di insolenze perfino la memoria Sul fondamento della morale, presentata nel 1840 al concorso indetto dall’Accademia di Danimarca. Quest’ultima si vide costretta a censurare le sue incontenibili escandescenze nella motivazione ufficiale per la mancata assegnazione del premio: lo scritto, vi si dice, non solo non tratta effettivamente il tema proposto, ma è per giunta poco rispettoso nei confronti dei massimi filosofi dell’epoca (“plures recentioris aetatis summos philosophos indecenter commemorari, ut justam et gravem offensionem habeat”)». (Franco Volpi, in Arthur Schopenhauer, L’arte di insultare, Adelphi 1999).
E infine, a tale compagnia di noti insultatori non poteva assolutamente mancare Thomas Bernhard. Del quale bastano e avanzano queste impressioni:
«In breve, nel bel mezzo di quella situazione arrivò la notizia che mi aspettava la Borsa del Settore Cultura dell’Associazione Federale dell’Indu-stria Tedesca. La consegna ufficiale sarebbe avvenuta in autunno, non ricordo più se a settembre o a ottobre. Insieme a me riceveva la Borsa, quell’an-no, anche la poetessa Elisabeth Borchers. Salii sul treno per Ratisbona con le gambe molli, portandomi appresso una piccola tracolla appartenuta a mio nonno. Pensai ininterrottamente agli ottomila marchi, durante quel viaggio a Ratisbona, mentre risalivo il Danubio, all’enorme somma che avrei ricevuto. Sognavo a occhi chiusi quegli ottomila franchi, e mi figuravo molto bella la Ratisbona che mi attendeva.
La cerimonia fu piuttosto breve. Il signor von Bohlen und Halbach, l’allora presidente dell’Asso-ciazione Federale dell’Industria Tedesca, avrebbe consegnato ufficialmente la Borsa alla signora Borchers e a me. Noi due avevamo preso posto in prima fila con il dottor de Le Roi. Alla nostra destra e alla nostra sinistra sedevano le alte cariche cittadine, anche il borgomastro con il suo pesante collare.
Fra poco tutta questa messinscena sarà finita e ci allungheranno l’assegno! pensai. Anche questa volta, naturalmente, sul palco aveva preso posto un complesso di musica da camera, che cosa abbia suonato non lo so più. E poi giunse pure, del tutto a sorpresa stando al ricordo che ne ho, il momento culminante.
Il presidente von Bohlen und Halbach salì sul palco e lesse da un foglietto quanto segue: … e con ciò l’Associazione Federale dell’Industria Tedesca consegna le Borse per il millenovecentosessantasette alla signora Bernhard e al signor Borchers!
La mia vicina trasalì, io me ne accorsi. Ebbe davvero un momento di panico. Le strinsi la mano e dissi che doveva pensare soltanto all’assegno: signor Borchers e signora Bernhard, o signor Bernhard e signora Borchers, come sarebbe stato più consono, era in fondo indifferente».
P.S.
Supremamente ottuso è per Bernhard il mondo dei premi letterari, di cui traccia un ritratto insieme crudele e divertentissimo, senza risparmiare frecciate a nessuno, neanche a se stesso.
«Tutto era repellente, ma più repellente di tutto trovavo me stesso» dice a proposito del premio Franz Theodor Csokor. Al grottesco balletto prendono parte stolidi largitori e beneficati vanesi; ministre che russano durante i panegirici per poi risvegliarsi di botto sbraitando imperiose: «Ma dove si è cacciato il nostro scrittorello?»; conferitori di attestati e di prebende che, scambiando il sesso dei poeti laureandi, parlano con disinvoltura della «signora Bernhard»; politici opportunisti e di abissale ignoranza preoccupati solo di fare passerella; giurie letterarie insipienti ma ben liete di trasferirsi, spesate di tutto, nei migliori alberghi e ristoranti.
Si veda, e si legga: Thomas Bernhard, I miei premi, Adelphi 2009.
Francesco Permunian (disegno di Roberto Abbiati)
[Immagine: disegno di Roberto Abbiati, ruotato a sinistra].
Permunian da leggere sempre. Anche quando straparla, divaga, si ascolta, mugugna ecc.
L’aspettò dei premi è e ben descritto in queste note . A chi è, e a che cosa servono? A invalidi narcisisti che stravedono per la loro immagine che rispecchia i propri limiti. A una moltitudine di parassiti che gravitano intorno al fenomeno. A pubblicizzare opere che lette non so da quanti, verranno presto dimenticate? Quale è il rapporto tra lettori e scrittori. Le copie vendute spesso non coprono le spese? Ci sono opere che hanno avuto un successo straordinario, che non hanno vinto nessun premio letterario. Perché? A mio parere, i premi letterari sono un fenomeno della letteratura che soddisfa un circolo che fa riferimento solo a se stesso. Lasciate che gli editori cerchino con fatica e intuito ciò che val la pena di pubblicare. Lo faranno a proprio rischio e pericolo, Ma se scoveranno un capolavoro , saranno premiati; se falliranno; non è detta l’ultima parola. Quanti scritti recuperati successivamente hanno illuminato la letteratura?