di Alessandro Esposito e Michael Tortorella
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti
Una scritta sul muro, un adesivo con poche parole. Non è importante esattamente quali, ma quanto esse facciano riecheggiare nella nostra mente, nel nostro vissuto e nei nostri ricordi un sentimento di comunità con un territorio, la percezione esclusiva di far parte di un insieme di pratiche, ricordi e immaginari. Una scritta, ad esempio, che reciti “No MUOS”, “No TAP”, “A sarà düra”. Che cosa ci succede quando il nostro sguardo ne incrocia il contenuto, in un luogo lontano da quello che esso rappresenta? Quando camminando per Venezia, un* tarantin* si imbatte in quella scritta così semplice, eppure così dolorosa che recita “Ilva is a killer”?
Dolore e rabbia, certamente. Eppure, anche un sentimento di strana appartenenza, di memoria esclusiva, che rivendica l’importanza delle esperienze della comunità a cui si appartiene. È nei pochi centimetri di un adesivo attaccato ai muri che alcune volte i tanti territori sfruttati ai quali apparteniamo, e che determinano il nostro vissuto politico, relazionale e quotidiano, emergono, anche solo per qualche secondo. Molto spesso, per chi si riconosce in queste immagini piene di rabbia e di amore, si palesa una percezione forte di irriducibilità del proprio vissuto, che fa dire “solo noi, che lo viviamo, sappiamo cosa questo simbolo vuol dire, che cosa il nostro territorio è”.
Affrontare tale irriducibilità per comprenderne il legame con una dimensione più globale e strutturale della crisi socio-ecologica è ciò che, in un certo senso, si prefigge il libro di Paola Imperatore Territori in lotta. Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica (Meltemi, 2023). L’analisi sociologica dell’autrice prende le mosse da una ricerca sul campo condotta immergendosi nella vita collettiva e nelle storie legate ad alcuni conflitti socio-ambientali centrali per la storia politica italiana degli ultimi venti/trent’anni.
La campagna No TAV Terzo Valico, il movimento No Grandi Navi, la campagna No Cave nelle Apuane, quella No Snam in Abruzzo, la lotta contro il Muos in Sicilia e quella contro la costruzione del gasdotto Tap in Salento costituiscono tutte esperienze dalle quali Paola Imperatore parte per indagare il nesso tra processi globali di sfruttamento e distruzione socio-ecologica e pratiche conflittuali territoriali e situate. Ogni capitolo cala il portato delle comunità all’interno dell’approfondimento di un diverso aspetto nevralgico del sistema capitalistico, del modo in cui esso esercita il proprio potere e di come tale potere possa essere strategicamente attaccato. Ogni capitolo contribuisce a costruire un orizzonte di esperienze che fanno scorgere i grandi processi sistemici nelle pieghe dell’unicità dei vissuti comunitari dei singoli territori.
L’analisi dell’Autrice ci fa immergere, però, anche nella consapevolezza della necessità di porci nuove domande sulle pratiche e sulle semantiche che determinano i conflitti in spazi marginali, attraversati dagli elementi più evidenti della crisi socio-ecologica. Il punto di vista dell’analisi si mischia a quello di un pensiero situato, restituendo importanza alle esperienze comunitarie e quotidiane.
È da tale punto di vista situato che le nostre riflessioni vogliono prendere spunto per legare il testo di Paola Imperatore a un più generale progetto di ripensamento dei vettori alla base del rapporto tra territori e corpi, nell’ottica di un’analisi strutturale del rapporto tra la dimensione locale dei conflitti e la crisi socio-ecologica globale e sistemica che li accomuna.
1) Il pensiero situato: da elemento ermeneutico a pratica di lotta
“Ancora oggi il territorio rappresenta uno spazio di indagine cruciale per osservare i processi e le dinamiche di un capitalismo estrattivo in continua evoluzione e per comprendere come la crisi ecologica e climatica non sia un’emergenza improvvisa ma l’esito di un processo che ha luogo attraverso precise scelte, scelte che nei territori si materializzano e che dai territori si contestano” (p. 14). Questo passaggio dell’Introduzione di Territori in lotta di Paola Imperatore dice tanto della centralità che il concetto di “territorio” assume per l’analisi sistemica del rapporto tra crisi socio-ecologica e vissuto territoriale. Nella necessità di ricomporre la dimensione territoriale del conflitto si cela il germe di un desiderio nuovo, orientato alla comprensione dei vissuti propri di ogni comunità. Allo sfruttamento e alla distruzione sistemica globale, fanno da contraltare comunità che vivono la condizione di subalternità e di deprivazione del proprio spazio di vita quotidiano, e che intorno a questa condizione si organizzano. Il gasdotto, la base militare, le cave e le rotaie di un treno assumono nelle esperienze delle comunità il carattere evidente della privazione dello spazio collettivo delle relazioni. A un primo sguardo, la lettura di Paola Imperatore sembra far emergere un posizionamento puramente metodologico di analisi ermeneutica dei conflitti territoriali. Dietro di esso si apre, però, l’interrogativo profondamente politico di come poter far dialogare una tale assunzione con una forma “incarnata” di conflitto, che ponga il pensiero situato quale pratica e non quale semplice strumento di analisi.
Tale elemento si mostra in modo evidente nella scelta dell’Autrice di aprire il libro con un primo capitolo dedicato al territorio quale spazio della vita quotidiana delle comunità e di organizzazione del conflitto. Al cospetto della dimensione globale della crisi socio-ecologica, “il territorio necessita di essere inteso come l’insieme delle relazioni che su di esso hanno luogo e che definiscono, materialmente e simbolicamente, il significato che un dato territorio ha per chi lo vive” (p. 41). Il territorio, quale spazio della “vita quotidiana” in senso lefebvriano, costituisce quel piano nel quale la singolarità del vissuto situato della comunità e i processi globali che lo determinano si producono reciprocamente, entrando in relazione dialetticamente. Esso sfugge al puro territorialismo e, allo stesso tempo, rivendica la decostruzione di categorie universali che appiattiscono la peculiarità delle esperienze territoriali di ogni comunità.
La crisi socio-ecologica globale si identifica così con la crisi dell’abitare le proprie città, le proprie case, le proprie campagne, i propri monti e il proprio mare. Ma, soprattutto, essa diventa la crisi del vivere le proprie relazioni quotidiane. La questione posta dal libro è, in questo senso, soprattutto una questione politica: fuoriuscire dalla concezione puramente locale del conflitto a partire dalla necessità condivisa dalle diverse comunità di porre al centro le peculiarità dei loro vissuti. In altre parole, rompere l’incomunicabilità di tali vissuti politicizzandoli, costruire linguaggi condivisi e collettivizzare le proprie esperienze di dolore senza tuttavia appiattire le specificità.
Per quanto detto finora, Territori in lotta sembra un libro che indaga per prima cosa la necessità di costruire pensieri situati, ovvero pensieri che si autodeterminano come pratica politica fondamentale dell’esperienza vissuta dai territori. Non è un caso che l’oggetto di indagine del libro siano territori marginali, “aree di sacrificio” nelle quali vivere il proprio territorio significa esperire collettivamente e politicamente il dolore e la marginalità.
Quest’ultimo elemento si mostra in modo evidente nella narrazione di quelle “maternità ribelli” che ridefiniscono profondamente lo spazio comunitario del conflitto. La coscienza collettiva, il pensiero situato di una comunità, si dà non più meramente nello spazio della produzione, ma nel costituirsi quali soggettività ribelli di tutte quelle esperienze implicate nella riproduzione sociale di un territorio. La consapevolezza del dolore nasce nella dimensione delle relazioni umane di quartiere, negli spazi di cura familiari e nel portato di riappropriazione che donne e soggettività femminilizzate della comunità sentono come elemento costitutivo della vita quotidiana. Tale consapevolezza nel pensiero situato si traduce in una fuoriuscita dalla dimensione del personale in favore di una riappropriazione collettiva e politica dell’esperienza di dolore: “con la propria protesta […] le mamme disinnescano una serie di dispositivi narrativi e categorizzazioni rifiutando, in modi che sono sempre situati, di performare il proprio ruolo di madre in modo stereotipato” (p. 55).
Narrazioni e contro-narrazioni richiamano il posizionamento del pensiero situato in una forma di conflittualità che “ereticamente” rompe con le categorie dicotomiche (privato/politico, individuale/collettivo, salute/lavoro). Le comunità risemantizzano tali categorie attraverso quella che, con Nelson Maldonado-Torres, potremmo chiamare “combattività decoloniale”, cioè una combattività sgorgante dalle condizioni marginali del pensiero situato e del conflitto collettivo.
Si tratta di una risemantizzazione del conflitto territoriale e politico, che parte anche da termini come “salute”, “ambiente” e “lavoro” e dal comprendere come questi concetti operano su e attraverso corpi e territori situati, nel pieno di una profonda crisi socio-ecologica globale.
2) Le radici strutturali del ricatto salute-ambiente-lavoro: un rapporto di potere interdipendente
Il ricatto salute-ambiente-lavoro ha una storia antica e soprattutto una sua natura politica complessa che opera nella determinazione della condizione di sacrificio e nel potere agito sui corpi-territori, continuamente esposti alla contaminazione, al dominio e allo sfruttamento. Allo stesso tempo, i paesaggi e le traiettorie migratorie esprimono lo scarto tra l’abitare una vita radicalmente migliore e il proprio processo di soggettivazione segnato invece dal vissuto, dall’abitare materialmente, simbolicamente e mentalmente una zona di sacrificio.
Le esperienze comunitarie di conflitto, protagoniste di Territori in lotta, riproducono al loro interno la complessità del vivere ai tempi della crisi socio-ecologica, nella quale i corpi-territori rappresentano il bersaglio principale di quel ricatto comunemente chiamato “ricatto salute-ambiente lavoro”.
Nel capitolo dedicato a tale questione, Paola Imperatore non si limita a un’asettica narrazione del “ricatto” nell’ottica dell’istituzione delle zone di sacrificio. Al contrario, approfondisce quest’ultime a partire da una ri-concettualizzazione di ciò che viene comunemente percepito e definito “lavoro”, “salute” e “ambiente”.
Le riflessioni provenienti da una certa tradizione del marxismo ortodosso e dall’economia liberale classica hanno concentrato la loro attenzione sulla categoria di “lavoro” quale categoria privilegiata per l’analisi delle condizioni basilari per una “vita dignitosa”. “Morire di fame o di malattia” è sempre stato il leitmotiv attraverso il quale si invisibilizzava il processo capitalista di individuazione della forza-lavoro socialmente necessaria. Tale narrazione, costruita discorsivamente e materialmente attraverso l’imposizione di monoculture ed infrastrutture devastanti sul piano socio-ecologico, è risultata utile, secondo l’Autrice, per due scopi. Da una parte, si è voluto imporre ciò che Mark Fisher ha definito “impotenza riflessiva”. Secondo la riflessione fisheriana, la depoliticizzazione e il velo di rassegnazione che incombe nel neoliberalismo contemporaneo sulle comunità rese subalterne, devono essere ricondotte ai processi di patologizzazione ed individualizzazione della sofferenza strutturale che vi è alla base del funzionamento capitalistico. L’inganno neoliberale risiede nella riproduzione sistematica del trauma inflitto nel corpo collettivo, in cui concretamente, può essere rintracciato nel sentirsi impotenti ed incapaci di rompere i ricatti socialmente imposti, come succede spesso nelle comunità insorgenti che si imbattono nei conflitti socio-ambientali. È nella necessità di questa rottura, cioè di intravedere il possibile in ciò che è velatamente reso impossibile, che la riflessione dell’Autrice su come il territorio diviene spazio di resistenza e di possibilità che permette di rintracciare nelle pratiche quotidiane di lotta comunitaria una trasformazione da “impotenza riflessiva” a “potenza collettiva”. Dall’altra, essa è servita alla logica del capitale per frammentare, dividere e contrapporre le istanze più radicali e critiche rispetto all’organizzazione sociale del lavoro capitalistico e le istanze più comunemente definite “ambientaliste”.
In questo quadro, la separazione tra le due sfere, quella sociale e quella ambientale, è fittizia e politicamente oppressiva. L’ingiustizia sociale riflette e (ri)produce l’ingiustizia ambientale in un metabolismo poroso tra corpi, lavoro e potere. Quando un’infrastruttura inquina, i suoi veleni
ammazzano chi ci lavora all’interno e devastano il territorio circostante, mentre i suoi scarti trovano la via che li conduce in qualche discarica del Sud del mondo o magari di quei tanti Sud interstiziali all’interno dei quali vivono i poveri nel Nord. È l’ingiustizia socio-ambientale che distribuisce i costi della crescita tra i poveri e i marginali, permettendo, invece, ai ricchi di massimizzare i loro profitti.
“Il paradigma della ‘grande opera’ ha spesso radicalizzato la frattura tra lavoro e ambiente in un contesto in cui entrambe sono sempre più soggiogate dalle logiche predatorie” (Imperatore, pp. 74-75). Secondo Imperatore è necessario decostruire tutte quelle narrazioni sensazionalistiche e lavoriste che tendono a sostenere questo paradigma, in quanto opportunità e promessa salvifica di rinascita per il territorio. Si tratta di mettere in discussione la concezione dominante della “vocazione del territorio”, secondo la quale – per dirla con le parole di Vincenzo Boccia, ex presidente Confindustria – le opere pubbliche e le infrastrutture “portano democrazia, confronto, ma soprattutto crescita e lavoro”, aggrappandosi ad una supposta naturale inclinazione del territorio verso alcune attività produttive. Attraverso una ricerca metodologica, che sottrae il territorio a mero oggetto di analisi per trasformarlo in soggetto relazionale e conflittuale, Territori in lotta fa emergere il “processo strutturale di depauperamento dei territori, spogliati delle loro pratiche comunitarie e dei loro significati” (p. 78). Il ricatto salute-ambiente-lavoro, se ricondotto al mero ripensamento delle forme occupazionali, rischia di rimanere una rivendicazione fortemente legata a un’idea sviluppista di “territorio”, subordinata alla logica capitalista della “vocazione territoriale”.
Pensare i “territori in lotta” attraverso il ricatto salute-ambiente-lavoro significa pensare immaginari, discorsi e pratiche che ri-articolino la condizione quotidiana di esposizione alla contaminazione e allo sfruttamento. L’esperienza collettiva della tossicità diviene sia l’elemento che attanaglia la salute delle comunità insorgenti, sia ciò da cui scaturisce la necessità di ripensare radicalmente il diritto alla salute. Quest’ultimo fuoriesce dai confini della sola riflessione sull’accesso alla sanità pubblica, per ripensare più ampiamente alle forme di autonomia e di interdipendenza politica nei termini di responsabilizzazione e di redistribuzione del lavoro di cura. Il ricatto salute ambiente-lavoro diviene immanentemente un potere sulla vita, che fa presa diretta sul corpo. È soprattutto come forza produttiva che il corpo è investito di relazioni di potere e di dominio. Esso diventa una forza utile soltanto se è sia un corpo produttivo, sia un corpo sottomesso – come sottolineava Foucault. Il paradigma neoliberale ed estrattivista porta con sé la normalizzazione della condizione di marginalità che intacca direttamente la salute individuale e collettiva delle comunità. Per questo, la “nuova direzione basata sul reciproco riconoscimento e sul riconoscimento del profondo nesso che lega lo sfruttamento della natura a quello del lavoro” (Imperatore, p. 99) non può esimersi dalla lettura della “classe” nella sua articolazione lungo gli assi di genere, razzializzazione, abilità e specie. Il ricatto salute-lavoro-ambiente produce povertà, violenza domestica, razzismo, migrazione forzata, depauperamento ecosistemico. Tali condizioni divengono strutturali per il processo di precarizzazione della salute psico-fisica, per la quale sia i luoghi di lavoro che i territori agiscono quali spazi di normalizzazione.
In questo senso, la necessità, soprattutto per le comunità insorgenti, non è solo come poter “organizzare la rabbia” nei termini di rivendicazione politica. Essa coincide piuttosto con la creazione di forme di partecipazione e di dissenso politico situate, permeate dalla consapevolezza di vivere, come direbbe Achille Mbembe, in un processo “attraverso il quale il potere, come forza geomorfa, si costituisce, si esprime, si riconfigura, agisce e si riproduce” e nel quale la tossicità costituisce la dimensione strutturale e collettiva della prossimità quotidiana alla morte.
3) Conclusioni
L’ecologia-politica di Territori in lotta può essere intesa come uno spazio transdisciplinare nel quale la scienza di strada, cioè la produzione di saperi incarnati e situati da parte dei movimenti ecologisti e sociali, permette di rileggere il ricatto salute-ambiente-lavoro in quanto meccanismo di spazializzazione della crisi socio-ecologica. A partire dal pensiero situato dei territori in lotta, lo spazio della giustizia climatica viene risemantizzato. Alla rincorsa a nuovi modelli astratti di sviluppo “sostenibile” si sostituisce la necessità di pensare nuovi mondi a partire dalle comunità marginali.
In conclusione, Territori in lotta è a tutti gli effetti un libro sui nostri corpi e sul loro modo di vivere i territori in un processo dialettico di autodeterminazione. A partire da tale processo, per il quale il corpo è nel territorio e il territorio è nel corpo, si possono costruire nuove ontologie di conflitto politico, fondate sull’interdipendenza e l’eco-dipendenza costitutive dell’essere e dell’abitare, come mostra ad esempio Amaia Pérez Orozco. In questo quadro, suggerisce Veronica Gago, “corpo” e “territorio” non sono due realtà contrapposte, ma una stessa “composizione di affetti, risorse e possibilità in relazione con gli altri corpi e altre forze non umane”.