di Jolanda Insana
[Esce oggi per Marcos y Marcos, nella collana Le Ali diretta da Fabio Pusterla e Massimo Gezzi e per la cura di Anna Mauceri, A schiere le parole. Poesie scelte con prose e versi inediti, di Jolanda Insana. Il libro sarà presentato stasera alle 19.30 al Teatro Franco Parenti di Milano, con la partecipazione della curatrice, di Maria Antonietta Grignani (che ha firmato la Prefazione), di Massimo Gezzi e di Fabio Pusterla. Carolina Leporatti leggerà le poesie di Jolanda Insana. Presentiamo qui alcuni testi poetici e un estratto da San Rossore ovvero Dell’inconcludenza, una delle prose inedite contenute nel volume].
I vermi in corpo
1
misera e assenecata
esce dalla casa-dizionario
sotto i colpi dello scroccatore screanzato
che fa a cambio cacchio con cappio
e arriffa scoppole e scapricciamenti
in uno scurore di sfogamento
2
tutta scofanata su righe-dormitorio
arronza in oltremisura di strettura
il rubagalline che non parla assestato
e si prepara a un’aulente squacquarata
per bocca di poeti laureati
ma chi ti piglia sul serio
poveralingua sputtanata
lessicorìo non ha manco la forza
di farci una pisciata
quando Nanninella si mise a fare scuffielle
le criature nacquettero senza capa
3
ce l’ho con quest’avanzo di dizionario
che fa vantamento di parere un altro
e s’adombra come un cavallo
campando di gloria-patre
4
ha fatto i vermi in corpo
e volendo spartire armi e bagagli
mette tutto in deposito e aspetta
stando attaccata alle cerimonie
5
acqua vento e malanova
a quella lingua imbalsamata
più rasposa di carta-vetrata
nella sua incornatura ingannamondo
sano-sano metto la pelle a nudo
e risico una bella strigliata
(tanto chi comanda non suda
6
a ogni voltata di lingua
giocare a capa e croce
ascoltando le due campane
– io giocatore incriccato e testa gloriosa
per canna-gola te la canto
pezzo di càntaro
e non rispetto il padrone per il cane
7
manco a sporcarsi le mani
su queste spuntature di lingua e di perdenzia
stando muro a muro con l’ospedale
8
siamo dello stesso bottone
e vogliamo dire cose simiglianti
ma io mi sento àpulo-àpulo
ogni tanto prendo fiato
sto attorno alla lingua
e la sberleffio
9
la mastressa che tiene il mazzo
fu primo taglio di lingue malandrine
e siccome un tantillo fa tantone
addiventò mariola e cotenna
10
in questo racchio fottìo di cose
stiamo ancora all’aleph
io t’alliscio il pelo e gallìo
tu alzi le carte e ti pigli di rancido
che bell’ambo-secco di rasoio e raspa
11
lo sbafantone sfizioso di cataplasmi
getta il calappio e sgraffigna
stozze e requiamaterma
alla scocozzata cacasecco
che non dichiara fallenza e serra i fogli
12
scombinato in fattecchie e sbattagli
faccio smallazzo
e con sfrenamento di sillabe
m’attacco a sfessazione lessicale
ohimè sfatto e sfranto
*
Lo sterramento quotidiano
è la vita che mi mette in questi buchi
per scalciare sui lunghi assopimenti
e manca l’aria manca il ghiaccio manca
frughinda-frughinda fu il gioco fanciullo
e però negate troppe cose è troppo poco questo troppo
e non concedo che per una manciata di cenere
per infertilizzare il terreno
un altro si mangi il grano duro da brigante
e usi il fiato per zaffate di lagno
mentre sono intenta a sterrare la gramigna
con le scarpe scalcagnate e la testa stretta in nodi
finché si scolla il mantello e devasta il risveglio
spalanco la pupilla sull’immagine
offuscata nello specchio del cuore
e poiché temo la carestia fuoriesco dalla tenebra
per diventare torcia nel giardino dei gelsomini
e a una nuova ondata di aromatici conforti
superbamente gorgogliano i canali del sangue
pure vedendo che i moschini in moto sulle corolle
sono moschini
e sono riposte in basso le stoviglie
che stanno in basso
sono io l’abitatore del sogno
felice d’abitarlo con il sognatore
che fa coppa delle mani per raccogliere
dalle piegate cime acqua a gocce
e fino al punto del risveglio vive sperando
di riceverne molte in premio
nell’aria oscura scendendo alle radici
assetata ancora è la voce di parlare
quando sfinita per l’arsura la gola non lascia
passare manco l’acqua
e quanto più si sloga la caviglia
sui gradini malfermi
così tanta è la voglia di salire
che si vuole e mai disvuole
e però non c’è più corda per intrecciare scale
all’imbocco della portella
dove sferzando il vento resiste la foglia più verde
che succhia miele al tronco
mentre il falco pellegrino privato della prole
batte l’ali ma turbata la pace del mare
spezzate le corde dell’isola
si getta sulla rotta e contempla altre
isole
come sistemarlo in vita
questo che non è un ingombro e vacilla
quando fa la fila davanti agli sportelli e ha freddo
e suda
e scende dalle gambe e a perturbato infiammamento
schizza via che è un incanto
nel canto più sicuro
questo corpo incauto e previdente
che ama l’alta temperatura e gela
male patendo il malo uso
imperfetto lusso e scostumato il discorso
quando alla sopravvivenza non vale nessun urlo
nel corso del naufragio
e ci vuole calda complessione dopo l’affondamento
per non galleggiare con la bocca aperta
dovendo rafforzare la resistenza al contagio
e all’affollamento
senza cardialgia si compie ferocia
per l’altrui delirio
e sono chiari gli occhi finché prorompe
la bruttura del vuoto
e spossata da ristori di cannella
scompare la visione di corvi ossessivamente intenti
alla pastura
nella convulsione di nuovi fermenti
in che pappa o manteca affondare i denti
lasciando carne e ossa in voto ai più indolenti
a sentire cialtroni ciarlatani e cantabanchi
in ipsa ira vita stat
come l’erbacarlina nella mascella del luccio
s’interrompe il traffico selvaggio con il re
della notte lungo i cretti della fiumara di Monforte
quando arrivo al mare e metto i piedi in fresco
prima delle scarpe scalcagnate e dello sterramento
*
da San Rossore ovvero Dell’inconcludenza
(1968,1978-79, febbraio 1990)
[Voci]
[Anima]
Nutricarsi di gemme e radicchio, cardi e lattugaccio, dolcetta e amarene, quando gli altri con melensità e senza gusto sgraffignano boatte omogeneizzati essiccati surcongelati, non fa competitività, tutto si confonde nel contagio d’impersonalità. Dopo, se crede nell’anima, lui non morirà. Certezza micragnosa che costa quanto un ciottolo liscio sulla spiaggia di Acqualadroni, se la morte è nelle cose e lui è già implicato nella parabola di immissioni ed emissioni, come dire pane e stallatico, fieno e concime; e muore amaricato a ogni boccone amaro, a ogni attaccaglia attaccaticcia di fastidio, a ogni operazione pancreatica, a ogni eccidio, attentato e azzoppamento, a ogni femmina morta di aborto e parto. Questi animaletti, usciti che sono di sotto il ventre della madre, se ne vanno chi in qua e chi in là a caso; e dopo aver camminato due o tre giorni al più, si fermano in un luogo delle foglie o dei tronchi, e fermati che sono, non si muovono più; e quivi attaccati, cominciando a poco a poco a poco a crescere, vanno insensibilmente perdendo la loro figura, diventando infine, come le madri, di colore e figura di cimice. Per quante diligenze io abbia fatto, non è stato possibile di potere ravvisare fra essi maschio alcuno, ma tutti ad un modo generano dentro di sé le loro uova, dalle quali, quando sono mature, schiudonsi nel loro proprio corpo i piccoli animaletti i quali, schiusi che sono dalle uova, squarciano il ventre della madre, consistente in una più che sottilissima pellicina bianca, e se ne vanno, seminandosi su e giù per le foglie di essi agrumi, tanto nella parte superiore liscia, quanto nella inferiore, e su per i tronchi disornatissimamente, ed essa madre resta quivi priva di vita, cadendo in poco tempo la sua spoglia per terra che pare veramente una scorza di cimice morta.
L’anima si scafazza sotto il calcagno, si spiaccica sotto la suola. L’anima è l’invenzione della superbia, la cartuccia dell’olio. Adamo s’intorzò di animamela, scacazzò autoritò Eva, l’intelligenza della terra, avanzava sul rettilineo conoscendo la forza del malleolo. Ma la verità sta al rezzo. Consideramo le intatte zolle tutte piene di vita, tuttoseme delle innumerabili specie di cose che ne avevano a uscire, tutte turgide di spirito formatore, che sopito aspettava dall’effusione del primo umore la risoluzione di quel prezioso magistero, per dar subito fuori in erbe, in fiori, in pomi, in balsami, in aromi. Nell’impossibilità di scorgere nell’occhio l’occhio e nel pane il pane, gli umani andarono molto tempo girando il mondo a lume di candela per epitetare e fare intrallazzo di obbiettivo incidenza colore e calore, tutto riconducendo a mercurio, barometro e termometro. L’anima ce l’ha chi può, sfizio e golosità, paraguanto e passamano. All’anema che imbroglio di ravoglio. Che svregogno e sbruffo di risa. Per non essere tormento delle madri, ruina dei padri, flagello dei fratelli, afflizione dei parenti, Olimpia con la storia dell’anima, ereditata insieme alle culotte spighettate, ai tacchi a spillo e la veletta dell’impudica pudicizia arabonapoletana, s’è lesionata il nervo ottico e le unghie, s’è rattrappita la mucosa, ha sdimenticato sale e semenza – piccola lucciola che non fa mercanzia di lanterne. Vive quivi nello scanto dell’eternità, come a dire negli sfiatatoi della vita, troppo oppressa da quell’eredità, macromotore di demenza che scruta l’intenzione e l’atto, l’epìtesi e l’epìtema, la virgola e la frase, sempre pronto a distillare acido solfidrico sulla zampa dell’Ippolivo placido con la sua covata.
[Arrivi e partenze]
Insiememente non concordiamo più nulla né forse mai concordammo oltre la stretta di mano – ossi ossicini e vene e unghie e pelle che stringono altri ossi ossicini e vene e unghie e pelle. E la tromba che laggiù suona sulla piazza da poco sveglia, non annuncia arrivi valige stracchierie e rompicapi, dà con totale indifferenza il segnale di partire. E tutto, chissenefrega del dovevai e dadovevieni. Non ci sono parole di commento ni di commiato ni di compianto. Al di là del fiume si può entrare nella boscaglia fin dove basta la voglia e più e più asseta una vena d’acqua sorgiva, e avanti che l’angelo brigantòlo arrivi a indicare la via, qualcuno dimenticherà se stesso su un masso o sotto un gelso, sdimenticando l’angoscia che locupletava la valigia vuota.
[Cambiamenti]
E’ cambiata l’Italia, sono cambiati i dati sociali, l’ora e il giorno dell’estrazione del lotto, i punti di riferimento economici; la scuola salta, la cinghia di trasmissione s’è rotta, la cultura stritola i suoi stessi meccanismi di riproduzione (la cultura come rifiuto dell’inculturazione ha prodotto un processo di inculturazione che produce come valore centrale il rifiuto del processo di inculturazione). A questo punto apparati strutture edilizie e gaudelizie terremotano. Poi è questione di sovrastrutture. I topi che l’hanno capito e non vogliono fare la fine del topo, mandano i figli in collegio, alle scuole Gesummaria dove sperimentano che uno stato senza religione può sorgere dove non c’è ingiustizia, e appo vengono i topetti che richiedono a gran voce la quota-scuola da spendere dove gli pare e piace.
[Carezza]
Gioire qualche volta è smorire, svanire, per non schiattare. La carezza finisce sul madapolàm. Sono un baccalà nella vasta desianza. Le labbra non toccano labbra. Lo scambio è per sua natura un contratto d’eguaglianza che si compie fra due valori eguali. Non è dunque un mezzo per arricchirsi, poiché si dà quanto si riceve. Mi accosto, accosto il volto a svanenti labbri, si scatafascia il presente, ancora la sua mano deviante con carpo e falangi falangine e falangette, che giocano a pietrapìgliala. Il bambino scoperto nei suoi giochi si arrabbia, si avventa sul cuscino, sulla palla, sulla culla, sulla trottola, fa lo spaccastromboli e strombetta. Ma io muto, calmo, sono andato in cucina, sono ritornato, calmo calmissimo mi sono seduto sul letto, dietro il giornale che stava leggendo. La mano dritta con braccio avambraccio dita tendini e unghie si muove verso una scarezza, si tende pure il suo braccio a devianza. Ecco allora la manca che avanza.