di Andrea Sartori

 

Il breve commento promozionale che presenta la nuova edizione del libro del 1996 di Michael Sandel, Democracy’s Discontents, riporta il parere del giornalista democratico-socialista John B. Judis. Quest’ultimo, con efficacia e senza paura di parlare, scrive che il lavoro di Sandel affronta “il significato della libertà”. Il libro, secondo Judis, da un lato rivela “la superficialità delle visioni liberali e conservatrici della democrazia” e, dall’altro, spinge “ciascuno di noi a riconsiderare quel che è realmente in gioco nella politica americana” (Michael Sandel, Democracy’s Discontent. A New Edition for Our Perilous Times, Harvard University Press, 2022).

È appena il caso di ricordare che anche il libro di Isabel Wilkerson, Caste: The Origins of Our Discontents (Randhom House, 2020), si propone d’andare alla radice del disagio – in questo caso il razzismo – che struttura la società americana e che ne investe la politica.

 

Si tratta di modi diversi, ma egualmente radicali, d’interrogare il malessere al di là delle propagande liberal e conservative, per provare a portare in primo piano un noi – quello della democrazia – che non è affatto in buona salute.

Nelle dieci pagine che introducono la nuova edizione di Democracy’s Discontents, Sandel scrive che il divide tra vincenti e perdenti (winners e losers) precede di gran lunga l’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Usa (2017-2021) e anzi caratterizza il grado di sviluppo del capitalismo degli ultimi decenni, perlomeno da quando s’è iniziato a parlare d’una globalizzazione economica neoliberale. Sandel dice che repubblicani e democratici sono in fondo accomunati da questa visione ‘neo-darwiniana’ dell’economia e della società (ecco un aspetto della superficialità di cui parla Juids), ove la seconda è subordinata alla prima,  al punto che siamo transitati da una market economy a una market society.

 

Sandel coglie nella crisi finanziaria del 2008, il momento in cui la disuguaglianza tra i molti e i pochi si è ingigantita, inasprendo il contesto ‘neo-darwiniano’ della nostra esistenza. Un contesto nel quale, a lungo andare, si sono delineate delle “ansie” riguardanti “il progetto di auto-governo” (self-government) (p. 3) del soggetto democratico-liberale che guida (anzi, che dovrebbe governare) l’attuale capitalismo occidentale. Sandel parla del soggetto la cui etica, secondo Max Weber, era scaturita in Europa dallo ‘spirito’ della Riforma Protestante, ed è proprio l’unilatralità di questa etica, di questo ‘spirito’, a essere messo oggi da Sandel sul banco degli imputati. Quello capitalista-democratico-liberale, insomma, è un soggetto che secondo Sandel (e Judis) non sembra più molto in grado di badare a sè stesso. Le ansie da incapacità di self-government, infatti,  fioriscono oggi nella società (euro)americana, tanto forte è l’impressione di “non avere il controllo delle forze che governano le nostre vite”, persi come siamo tra polarizzazione politica, razzismo diffuso o strutturale, tossicità sciaguratamente dolorosa dei social media (p. 4)

 

In quella che oggi, a completamento di questi pensieri di Sandel, potrebbe essere chiamata “cultura della percezione”, la comunicazione non favorisce affatto il pensiero riflessivo ed equilibrato, autonomo e critico. L’appiattimento dei linguaggi sui codici dei social amplifica l’immediatezza delle reazioni a input per lo più visivi (incluso un colore della pelle non gradito), che in tal modo non vengono compresi, resi dialettici, cioè ‘tramati’ di senso dalle nostre coscienze. È come se a queste ultime, un tempo sede tanto del Sollen (del dovere inderogabile) quanto della Freiheit (della libertà), fossero oggi sovraccaricate di responsabiltà, a partire da quel che impone loro una tecnologia in rapido sviluppo e essa stessa letteralmente bisognosa di governo. Un problema non di poco conto, questo dell’autonomia della cosciennza, almeno in occidente, almeno secondo quel che apparentemente una volta per tutte avevano stabilito, dopo Martin Lutero, la filosofia e la storia moderne, ovvero Immanuel Kant e la Rivoluzione Francese.

 

È qui, in una condizione in cui il self non basta più a sé stesso (come definire altrimenti la crisi del liberalismo, se non, appunto, come una crisi dell’essere soggetti autonomi, protestanti e kantiani?), che può essere utile mettere in dialogo la nostra interiorità (o quel che ne resta) con certi aspetti della filosofia taoista cinese. È quel che suggeriscono sia Sandel, sia Hans-Georg Moeller e Paul J. D’Ambrosio (degli ultimi due, si veda Il tuo profilo e te. L’identità dopo l’autenticità, Mimesis, 2022). D’Ambrosio, in particolare, ragionando tra le altre cose sui profili dei social media, elabora il concetto di genuine pretending (una sorta di versione aggiornata della dissimulazione onesta di Torquato Accetto) nella sua interpretazione dello Zhuangzi (V-III sec. a. C.). Ecco quindi che, entro tale prospettiva, alcuni principi dell’etica taoista risultano adattabili a un ambiente sociale, e politico,  democratico e riformato (un ambiente nel quale, de facto, già vivono alcuni milioni di cinesi immigrati). Si vedano, ad esempio, i casi della “spontaneità”, o dell’ “essere un certo sè” (ziran 自然), ma anche il principio dell’ “azione non-assertiva” o della “non-interferenza”(wu wei 無為), come valide alternative alla “meccanizzazione del cuore e della mente” (ji xin機心). Quest’ultima, come s’è visto, è per Sandel ormai tipica d’una società occidentale incentrata sui parametri del darwinismo sociale, ovvero su ciò che già nel 1882 uno psichiatra e antropologo positivista italiano, Enrico Morselli (1852-1929), definiva “concorrenza per la vita”, un’espressione che quasi preannunciava la market society della nuova edizione di Democracy’s Discontents.

 

Forse, davvero, per superare le irragionevoli polarizzazioni di oggi, e la difficoltà a essere liberi nello stesso modo in cui si era liberi una volta, bisogna attingere a quella dimensione dellumano nel suo rappprto con la totalità (la natura, la terra, gli animali) a cui si appellano – in modi variamenti connotati dal punto di vista culturale – le relgioni e le spiritualità che, come il Tao, sono incentrate sull’armonia, sull’universalità, o sull’amore. Questo va detto non per fomentare i particolarsimi delle fedi, delle cutlure e dei confini nazionali ma, all’opposto, per stimolare le ibridazioni dei pensieri e i dialoghi inter-religiosi. Non è un caso, ad esempio, che il monismo spinoziano in filosofia trovi spesso più interlocutori appassionati tra gli intellettuali cinesi, che non tra quelli occidentali.

È però anche opportuno sottolineare, per restare all’Europa e in particolare al suo Sud, alle Meditazioni di Ignazio Di Loyola e ai relativi esercizi spirituali, scaturiti proprio dalla reazione cattolica a quella Riforma, che fino a oggi ha segnato, nel bene e nel male, la nostra modernità e la sua forma di vita capitalistica, con caratteristiche euro-americane.

Non si tratta di fare a meno della libertà – come non si tratta di fare a meno della democrazia. Si tratta invece di re-impararla, quella libertà, così da poter ri-governare sè, ripensando la libertà stessa in uno scenario multiculturale che valorizzi l’apertura dell’autonomia a un oltre da cui il sè dipende – come un corpo leggero, o una parola, trascinati dal vento di qua e di là, o forse più in alto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *