di Alberto Casadei
[Esce oggi per minimum fax Autobiogrammatica, di Tommaso Giartosio. Alberto Casadei l’ha letta in anteprima per noi].
Cominciamo col dire che la scrittura di Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio è una delle più eleganti e sicure nell’ambito della narrativa italiana del XXI secolo. Lo stile si sviluppa in modo consustanziale con il racconto, che in questo caso implica prima di tutto l’analisi argomentata e puntuale del perché le parole usate e sentite sin da bambini formino in profondità un’esistenza. Un primo modello, esplicitamente citato, è quello di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, uscito fra l’altro nell’anno di nascita di Giartosio (1963). Ma il modello sottostante a quel libro è quello dell’album dei ricordi di famiglia aggiornato e trattato ironicamente, mentre invece qui si tratta di trovare i sottintesi e i presupposti nell’uso di un idioletto che ha attraversato e plasmato l’io che ora scrive.
Lo scopo dell’operazione è dichiarato presto: “C’era anche chi aveva scritto interi libri ricostruendo da un pugno di frasi la cifra della propria esistenza. Quanto a me, che potevo fare? Qualcosa di più: immaginare una vera e propria autobiogrammatica che ambisse a disegnare un atlante del linguaggio di un singolo individuo: cioè del suo modo di sentire e vivere la lingua” (pp. 42-43). Anche il patto con il lettore, come da regole d’oro dell’autobiografia, viene stabilito da subito, con le avvertenze su come muoversi nel libro: “La Presa di parola racconta come l’Autobiogrammatica sia nata da una parola di troppo e da un incontro con la morte. È come le genealogie bibliche: chi vuole la può saltare. Oppure, come si fa con il bugiardino nella scatola di medicinale, leggere solo lo stretto necessario – in questo caso il capitolo «Tutti hanno già scritto questo libro». Con l’Abbecedario inizia l’Autobiogrammatica: il silenzio da cui risaliamo, le parole chiuse nel lessico famigliare, la metamorfosi dei versi animali in una voce, i nostri primi e nuovi alfabeti. Qui c’è la storia che il libro racconta” (p. 5). L’autobiografia insomma deve far emergere la condizione di un io che è nato non assieme ma dentro le parole ascoltate, imparate, rielaborate. In qualche misura, si tratta di una sintesi di due paradigmi dell’autobiografismo, quello che presuppone una verità intima da rivelare con un racconto trasparente (Rousseau), e quello che decostruisce ogni verità personale riconducendo gli eventi accaduti a chi scrive verso una serie di codici ulteriori, strutturalisti o post-strutturalisti (Barthes, Perec). Giartosio di fatto adotta una misura narrativa intermedia, che inserisce episodi del passato, da considerare veritieri, all’interno di un flusso che segue soprattutto la riflessione dell’io attuale, disposto all’analisi delle sue parole. Queste ultime riemergono da agende e files ma hanno bisogno di un interprete, ossia dell’io che interpreta il suo essere-di-parole.
L’antefatto, la spinta all’autoconsapevolezza, deriva, come spesso in Dostoevskij ma ancor più nella vita, da una brutta figura: in questo caso, un becero pun su “Salvo Lima” proposto a un siciliano fieramente schierato contro ogni forma di crimine mafioso. L’opposizione che viene a realizzarsi è quella tra una realtà come storia oggettiva e indefettibile e una contro-realtà che si manifesta nel discorso tra gli umani-parlanti. Ma anziché difendere il diritto, tutto anglosassone, di free speech persino sulle questioni di maggior peso e gravità, l’io si interroga sul perché si sia spinto fino a demistificare il discorso di primo grado, quello in cui le parole sono soltanto il veicolo di una verità esterna, per proporre un uso alternativo della lingua, che per certi aspetti è ancora più radicale (Lima ne esce ridicolizzato) e tuttavia non passa attraverso i metri di giudizio etici e ideologici consueti. E qui l’autore si accorge di dover risalire all’incubazione del suo io in quella palestra di giochi linguistici che è ogni famiglia, indipendentemente dalla sua condizione sociale. Dalla Lingua al linguaggio che crea l’io-sé stesso, che si ‘incorpora’ in lui: proprio quel linguaggio è poi condivisibile, e quindi “tutti hanno già scritto questo libro, e tutti continueranno a scriverlo” (p. 46). L’impresa folle delle Confessions rousseauiane si democraticizza, ma d’altronde già Erik Satie e Walter Siti si chiamavano “come tutti”. Però forse non è proprio così: questa impresa non è replicabile ma solo da tramandare, come ha fatto il modello forse più affine, il Montaigne degli Essais, che si saggia e si ausculta, per un continuo ed esemplare auto-apprendimento. Ma per farlo, bisogna ripercorrere il proprio imprinting linguistico.
Quella di Giartosio era una famiglia collocabile nell’altissima borghesia. I suoi componenti, ma soprattutto papaemmamma, vengono riesaminati sulla base del tanto o poco di linguaggio che hanno generato. Il padre, cui erano già state dedicate le poesie di Come sarei felice (Einaudi 2019), svolge un ruolo ben più timido e cauto rispetto a quanto ci si aspetterebbe, essendo lui un altissimo funzionario dell’apparato militare, già segnato dall’esperienza bellica sulle navi che hanno combattuto dal 1940 al ’43. Quando rientra dopo il lavoro, si annuncia con un semplice “Ola”, e le sue ricognizioni nelle stanze dove stanno la moglie e i tre figli maschi sono quasi piccole invasioni da arginare sulla soglia. Magari i contatti si possono concentrare su terreni nobili: uno di questi è la letteratura, per la quale il padre nutre rispetto persino quando non la capisce, per esempio nel caso di Voyelles di Rimbaud, la cui conoscenza da parte del figlio viene comunque premiata. Forse le sue parole e le sue azioni manifestano “quella particolare, struggente fusione di amore, invidia feroce e malinconia che, in mille diversi rivoli e varianti, fluisce come un Timavo nel cuore di ogni padre” (p. 81)? In ogni caso, tutti i suoi atteggiamenti rientrano nel campo di un’aristocrazia borghese, contro cui sono inevitabili le opposizioni dei figli adolescenti, però ridotte a echi lontani dopo la scomparsa del genitore, re ormai detronizzato: in questo resoconto, la lotta freudiana padre-figlio maschio è del tutto superata, e semmai i conti sono stati fatti altrove, nella letteratura come nella vita. Il padre insomma è paradossalmente inserito più nei propri silenzi che nel proprio linguaggio, benché emerga, attraverso il suo semplice “Ola”, il bisogno di slancio vitale, nonostante le (auto)repressioni.
Dunque, il primo attore è un sacerdote della realtà ottusa. Si capisce allora perché in questo libro di autobiografia e idioma la figura centrale non poteva essere che la mamma-lingua-madre. E assieme a lei si può affrontare la lingua dell’infanzia, la lallazione, quella senza parole dotate di senso – eppure è da quella fase informe che prende avvio la parabola ora percorsa a ritroso: “Questo getto di calce, questo letto d’acqua è il linguaggio – la parola, la sua verità-foglia che torna a scorrermi davanti ogni volta che viene pronunciata. Con il linguaggio posso rivoltare il tempo, riavviarlo. Nelle sue parole mia madre esita ancora sulla cascata, è ancora viva” (p. 110). In fondo, questo libro è un progressivo avvicinarsi all’evento fondamentale, la morte della madre, verso cui un figlio gay nutre un legame ambivalente, di fedeltà indissolubile e di rimprovero. Ora però bisogna riappropriarsi di quell’“etmisfero”, direbbe Amelia Rosselli, quell’emisfero-atmosfera di parole-azioni in cui l’io-narrante si è generato, e al cui centro stava la madre.
Parole e eventi, quindi: ma come si rapportano? La scoperta di aver inventato un ricordo infantile traumatico, per un incidente in effetti mai avvenuto, palesa subito che “il delirio mi si era ormai inciso dentro come un tatuaggio: quella scissione era la mia punteggiatura, la mia ipotassi. Mi diceva chi ero io, chi eravamo io” (p. 128). Di fatto, l’io attuale, per riconoscersi, ha bisogno di riattraversare tutte le parole che è stato più ancora degli eventi che ha vissuto, magari debitamente inventati ex post per giustificare sé stesso. Invece l’io è altri (non un altro), e fra questi è in primo luogo la propria madre, espositrice e organizzatrice di un catalogo linguistico enorme, Luoghi comuni e frasi idiolettiche, il tutto mescolato in quell’individuo umano che ha generato l’io pure nella lingua-madre, da indagare nella sua semplicità e nella sua intima inconoscibilità. Una lingua nata povera, ma evolutasi con uno scopo importante: “Forse la sua scolarizzazione carente c’entra con la creazione del lessico famigliare: un codice di formule fisse, un glossario per ridurre e tipizzare l’oceano della lingua, ma anche uno strumentario da artificieri per maneggiare questo liquido insieme volatile e infiammabile, le parole” (p. 133).
E allora, chi è stata la madre, secondo il suo linguaggio? E chi è lei nel passato, ora che non esiste, cosa ha contato la sua storia nel mare delle storie, comprese quelle davvero belle, quelle dei grandi libri di letteratura? La domanda sulla madre e sull’io-nato-da-lingua-madre è una domanda agostiniana, che va appunto dalla madre all’Eterno, ossia, per chi non crede, al Tempo, il quale si riduce però senza alcun dubbio al presente del presente, e al suo dirsi: “Esiste solo, tra le Marianne del tempo trascorso e l’Himalaya dell’avvenire, il bagnasciuga dell’ora: la voce di quest’onda, la parola che stai leggendo” (p. 146). E in questa piccolissima effettiva porzione di realtà si gioca l’intera ricerca: giustificare i frammenti di un’esistenza rinominandoli, almeno per quanto è davvero rimasto perché non servirebbe l’omnia enumerare. Bisogna passare dall’alfabeto all’abbecedario, alle parole nel loro contesto, nella comunicazione con le sue regole e le sue potenzialità, tra Jakobson e Wittgenstein.
La madre incarnava il buon senso della tradizione, i proverbi dei Malavoglia trasportati ai Parioli, però era anche l’apertura, la consapevolezza che “per costruire un mondo, occorre gente di ogni tipo. Non è un gesto di modestia, mettersi nei panni del Creatore, ma lei almeno ne ha assunto le qualità migliori” (p. 156). Il commento del figlio che sta ripercorrendo la propria vita risulta qui netto e valutativo. Tuttavia la madre ha autorizzato ogni apertura ad altre forme di vita, e il padre non ha esercitato il suo potere per impedirle. E allora, in fondo, qual è stato il motivo e quale il fine di questa condizione?
La madre e il padre, così come poi i fratelli e tutti gli altri, hanno formato (o più esattamente, avviato alla Bildung) l’io che ora, nel suo libro, racconta da dove è nato il suo essere quel linguaggio. Il tentativo sembrerebbe quello di fare ordine, ma anche su questo bisogna essere cauti: “Ho ereditato dai miei la blessed rage for order, come dice Wallace Stevens: una benedetta furia di fare ordine, anche tra le parole. Da lei, però, ho preso anche l’astuzia di cui parla Diderot: Diffidate di chi vuole mettere ordine” (p. 180). La parabola verso la verità può costringere a perdere la varietà del linguaggio a favore di una stabilità monumentale. In fondo, la pietas filiale è proprio questa, il far diventare la propria ricerca sul linguaggio che è stato madre una rievocazione della madre che ha donato il linguaggio e resta attraverso le sue proprie parole: “Domani morirà. Morirà e il suo linguaggio resterà solo in chi la ricorda. Non ho mai avuto intenzione di salvarlo, non ce n’era bisogno: ce l’ho dentro. Ho cercato solo di mapparlo (vette, valli, paludi e cieli) perché mi appartiene anche ciò che di esso ho respinto. Anche ciò che lei ha rifiutato. Morirà oggi, tra poche ore, tra un’ora il suo linguaggio finalmente sarà davvero mio – ma per ora, per ora è ancora nostro. Ci legge, ci lega […]. Quel momento c’è stato. Ecco: è morta: ed è come una nascita” (pp. 194-195).
Questo è il punto o meglio il punctum. Ci sarebbe ancora tanto da scrivere su Autobiogrammatica: ma, come direbbe un altro indagatore di linguaggio famigliare, Assez.