di Linnio Accorroni
Vocali, rubrica a cura di Linnio Accorroni
Caro M.,
ma teneteveli pure ben stretti, la Cortellesi e Albanese. Ma allora li hai visti? Certo che no. «Non li ho visti e non mi piacciono». Che si inizi pure così questa inattendibile recensione – del resto Ceci n’est pas une pipe – per mettere subito le cose in chiaro, recuperando un Manganelli d’antan: troneggiava, nell’imprescindibile Lunario dell’orfano sannita, questa formula divinatoria che, a sua volta, reiterava una celebre locuzione di Vanni Scheiwiller. Ma, visto che ci siete e che ci sono anche io, prendetevi pure (tanto mica puzza) l’asettico lindore dei cessi giapponesi dell’ultimo film di Wenders, curiosamente deprivati di quella materia che trionfante si accampa e attarda e galleggia nei luoghi pubblici e privati adibiti all’evacuazione degli sfinteri (esatto: la merda!). A ciascuno il suo. Io, per me, ho amato ed ho goduto, come non mi capitava da tempo, di questa gioia degli occhi della mente del cuore che è Povere creature!: un film che incanta e titilla, che sogna e fa sognare, che stordisce e travolge. Barthes, ne Il piacere del testo, auspica la scrittura di libri che dovrebbero desiderare i lettori. Ma se Barthes auspica, Lanthimos esegue. Un’opera di visionarietà formidabile («C’est formidable» ripete Bella Baxter, la protagonista del film, costretta, nel bordello parigino, ad amplessi, inscrivibili tutti nella categoria illimitata del fort minable, quella, per capirci, dove trionfa incontrastato il protagonista del film di Wenders), un capolavoro di rutilante, esagerato, inesausto massimalismo. Poi, certo, in questa libidine pura dell’immaginazione e della fantasia che è Poor Things!, c’è la memoria del Frankenstein di Mary Shelley, la somministrazione di massicce dosi di estetica preraffaellita, la rêverie di città volatili disegnate dall’inedita coppia mista Moebius e Gaudì, doviziosi innesti di cianfrusaglie e gingilleria steampunk e doverosi omaggi a quell’archetipo che è Brazil di Terry Gilliam. Ma ci sono mille e mille altre cose che Lanthimos riversa in questo trip lisergico in forma di film, il cui tempo della durata in sala è di due ore e ventuno minuti, ma che, sono certo, si depositerà a lungo nel Tempo della memoria. E dunque come non godere di questo groviglio sapientissimo e lussureggiante, gonfio di onirismi ed incubi, di visioni acide e di delirante sfrenamento dell’immaginario, la cui sceneggiatura pare uscita fuori dai verbali di una affollatissima seduta spiritica dove Jules Verne fa amicizia con Alberto Savinio (le bizzarre astronavi, gli animali immaginari e ‘centaureschi’), dove l’E.T.A. Hoffmann de L’uomo della sabbia se la ride, ascoltando le farneticanti elucubrazioni scientifiche di Mr. Homais, il farmacista protagonista assoluto di Madame Bovary, che trova nel prometeico Godwin Baxter del film (uno spleenetico Daniel Dafoe) un suo eccentrico Doppelgänger, dove l’illustre presidente della corte d’appello di Dresda, Daniel Paul Schreber, colui che che si era trovato a pensare che «dovesse essere davvero molto bello essere una donna che soggiace alla copula» (ce lo racconta con rumore e furia in Memorie di un malato di nervi) si confida con Oscar Kokoschka, mentre il pittore viennese continua imperterrito ad autoritrarsi con la sua bambola che dovrebbe esorcizzare la sua ossessione per Alma Mahler (quello della ninfomania bambolesca è uno dei tanti leitmotiv del film), dove Henry Purcell sa che qualcosa, in termini musicali, verrà pur fuori dalla sua collaborazione con quel testone irriducibile di Joe Strummer (che magnifica colonna sonora quella di questo film: un capolavoro dentro il capolavoro). E cosa altro aggiungere, se non raccontare della potenza magnetica di questa Emma Stone, Björk stralunata e lucidissima precipitata in questa folle sgangherata allucinata epoca vittoriana, che, per fare il suo personaggio, deve aver scrutato a lungo i ritratti di Al Fayyum, per riprenderne fissità, turgore e magnetismo. Ma, più di tutto, meraviglia delle meraviglie, quei fermi-immagine di pochi secondi che segnano, con richiami toponomastici – Lisbona, Parigi, Londra -, i capitoli di questo delirio sfrenato e micidiale, cartoline che sarebbero piaciute al reverendo Charles Lutwidge Dodgson, in arte Lewis Carrroll, che, quando riusciva a divincolarsi dalle grinfie di Alice, forgiava quei suoi stranianti dagherrotipi fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. «Ma, allora, quanto dura questo delirio? Ma che cosa è esattamente questo film? Mica si capisce niente. E questa sarebbe una recensione?» Ceci n’est pas une pipe. Ve l’avevo detto. Ma va bene così. Poco importa: ognuno deve riconoscere i suoi. Io me la sono goduta con questo Yorgos Lanthimos larger than life, viaggiatore che porta sempre con sé una valigia piena di agnizioni omaggi citazioni ricordi letture visioni e che, come quei prestigiatori di una volta, ci incanta, noi che stiamo seduti di fronte al grande schermo, tirando fuori galline con la testa di maiali o uomini che brucano come capre e mille altre mirabili. Poi, miracolo dei miracoli, a lui anche il merito di assegnare un prezioso camèo, nei panni della sapiente e conturbante Martha, a quell’Hanna Schygulla che Angelo Maria Ripellino così giustamente celebrava: «O vita, o Hanna Schygulla, sciantosa di varietà, sulla riva del Nulla».
Bella recensione, anche se ci trovo un po’ di puzza sotto il naso.
Quando vai a una rutilante mostra di un artista contemporaneo e quello che vedi non ti titilla per nulla (salvo Hanna Schygulla) ma ti sembra solo un inutile e presuntuoso pasticcio. Poi leggi il critico coltissimo che la sponsorizza e capisci da quello che ha scritto e da come lo ha scritto che avevi proprio ragione, era davvero un inutile e presuntuoso pasticcio. Che a Venezia trionfi il kitsch apparentemente extra-colto (in realtà ultraconformista) non mi stupisce, spero che agli Oscar gli preferiscano il nostro Garrone che non pensa di essere un genio e cerca solo di fare dei buoni film.
Ps Garrone corre in un’altra categoria rispetto a Povere creature. Meglio così.
Davvero ti sei emozionato per così poco?
Film facilone.
Commento di un’umile medichessa non iperletterata. Visto ieri sera. D’accordo sulla meraviglia visiva, anche stucchevole per eccesso, però a me la sceneggiatura sembra una trollata del femminismo perché :
1)tutte le figure maschili sono non solo negative ma ridotte a macchiette monodimensionali
2)la sessualità di Bella, la cui rappresentazione nel film è esasperata fino alla comicità e/o al fastidio, è sostanzialmente sempre autorefenziale, onanistica
3) le uniche relazioni umane non distruttive che protagonista ha sono con il dottor Baxter, un uomo evirato, e con una donna.
In sostanza, è il racconto di un mancato incontro (o dell’impossibilita’ di un incontro) con l’alterita’ del maschile, mascherato da empowerment
Film sopravvalutato, marchetta per Emma Stone, bravissima comunque .. in confronto ai film precedenti è un filmetto