di Mimmo Cangiano
[Esce domani per nottetempo Guerre culturali e neoliberismo di Mimmo Cangiano. Ne anticipiamo l’introduzione, ringraziando l’editore].
Questo non è un libro sulla cancel culture (anche se ogni tanto si parla di cancel culture), e neanche un libro sul politicamente corretto (anche se qualche volta si parla di politicamente corretto); è invece un volume che tenta da un lato di ricostruire il dibattito – e la sua genealogia – su tutta una serie di temi che sono diventati il centro delle attuali culture wars (questioni identitarie, di classe, anti-razzismo, anti-sessismo, prospettive liberal, postmodernismo, ruolo della Theory), dall’altro di proporre alcune soluzioni interpretative in un quadro di analisi che, fortemente propenso a prestare orecchio alle nuove questioni emerse, resta ancorato al materialismo storico. Questo libro non è scritto per criticare la cosiddetta woke (e sulla problematicità di questo termine ci soffermeremo a breve), ma per provare a superare quel non piccolo quid di liberalismo e di culturalismo che le culture wars mi paiono portare con sé; è dunque un libro che mira a sottrarre la woke a sospette derive liberal, materializzando i suoi temi attraverso la loro dialettica con i processi socio-materiali (produzione, mercato, lavoro, consumo) in atto.
Per far ciò era però anzitutto necessario chiarire le ragioni di quell’aria di famiglia avvertita nella geremiade di tematiche, politiche e anche accademiche, ormai da tempo al centro della sequela di polemiche e discussioni che, dagli Stati Uniti, si sono riversate nei mercati culturali di gran parte del globo. E in tal senso è stato fondamentale sia ricostruire le diverse prospettive del dibattito corrente, sia mostrare il modo in cui tanto la produzione culturale quanto i processi socio-materiali hanno preparato il dibattito in corso.
Il proposito è dunque duplice. Da un lato si tratta di chiarire il modo in cui le culture wars si sono “stabilizzate” in una serie ormai riconoscibile di tematiche, quelle espresse a livello giornalistico-divulgativo mediante sintagmi quali politically correct, cancel culture, ideologia del gender ecc., e, a livello accademico, tramite lo sviluppo di prospettive che, dalla Theory agli Studies, hanno sempre più posto l’accento sulle dinamiche di potere e privilegio connesse ai rapporti e ai costrutti socio-culturali. Dall’altro lato si tratta, analizzando la woke da una prospettiva materialista (una prospettiva che, si vedrà, sottopone ugualmente a critica gli approcci rosso-bruni al tema), di sottolineare i rischi della sua trasformazione in una postura riformista saldamente ancorata ai modi di funzionamento, materiale e ideologico, della società corrente e del suo mercato.
Benché abbia cercato il più possibile di evitare il “secondo me” tipico della tradizione saggistica, riportando invece la materia trattata a un discorso fattuale – mirato cioè a evidenziare effettivi dati di formazione culturale e materiale delle guerre culturali –, questo alla fine è anche un libro in qualche modo personale, e come tale fortemente centrato, anche nei molti esempi riportati, sui miei dieci anni di vita statunitense, quando e dove ebbi l’occasione, se così si può dire, di vedere formarsi un’egemonia culturale, in tempi in cui in Italia, almeno al livello del dibattito giornalistico e politico, tutto ciò era di là da venire.
Il primo capitolo è dunque dedicato a squadernare le diverse posizioni che numerosi intellettuali, da sinistra a destra dello spettro politico, hanno negli ultimi anni manifestato nei confronti delle prospettive woke, portando a critica tanto le visioni destrorse quanto quella nutrita serie di testi che negli ultimi anni ha attaccato il nuovo impianto culturale senza però sottolinearne il nesso dialettico con le ristrutturazioni materiali che stavamo e stiamo attraversando. Il secondo capitolo entra nel vivo della questione e analizza sia i rapporti fra le culture wars e alcune prospettive della politica corrente, sia il macro-tema delle identity politics.
Il terzo e il quarto capitolo si confrontano con le prospettive accademiche affini alla woke. In particolare, nel terzo capitolo si analizza il complesso rapporto di filiazione fra French Theory e culture wars, nel quadro del passaggio a sinistra delle tematiche postmoderniste, e nel quarto le attuali prospettive politiche del macro-campo degli Studies, divenuti ormai una sorta di braccio esecutivo della stessa Theory. Se poi il quinto capitolo è dedicato alla questione del culturalismo (vale a dire, al rischio di una lettura delle modalità d’azione del capitale su base puramente culturale), il sesto capitolo – il più corposo – tratta di tutte quelle strane affinità che si riscontrano fra le rivendicazioni di questa nuova cultura di sinistra e i modi di operare di parte del mercato capitalista.
Il settimo capitolo affronta la questione dell’etica woke in relazione al corrente sistema di relazioni sociali, al crescere dell’individualismo e dell’auto-mercificazione, mentre gli ultimi due capitoli si concentrano infine sulle questioni, io credo fondanti, della classe e dell’intersezionalità.
La mia speranza è che, alla fine del libro, il lettore, oltre ad avere una visione più nitida su tutta una serie di problemi, veda la possibilità di sussumere in un progetto unitario le contraddizioni che ci attanagliano, anche comprendendo che queste sono contraddizioni materiali, originatesi nella dialettica fra il corrente modo produttivo e il sistema di relazioni sociali – e le soggettività – che questo crea. Pure per questa ragione ho evitato di riportare tutti quegli esempi di manifestazioni pubbliche della woke che, da qualche anno, costituiscono ormai un vero e proprio genere pubblicistico mirato a far affiorare l’indignazione dei lettori secondo un ben preciso indirizzo ideologico, teso a sottolineare un nesso fra culture wars e “fanatismo” progressista. Scopo di questo libro non è infatti, come già accennato, quello di formulare un ennesimo giudizio etico-culturale sulla woke, ma è cercare di comprendere le ragioni della sua formazione, oltreché le possibilità politiche, e i rischi, che tale posizionamento presenta in rapporto al sistema di relazioni sociali in cui siamo, woke inclusa, immersi.
Un buon motivo per non leggerlo è l’uso di parole a me completamente sconosciute o contestualmente sconosciute:
– cancel culture
– woke
– Theory
– French Theory
Magari nel libro lo spiega però questo articolo non invoglia minimamente la lettura, se questo era l’obiettivo
Lo leggo molto volentieri. Conosco il fenomeno da vicino e forse proprio per questa ragione mi mi sono sfuggiti molti nessi che il libro sembra affrontare. Molto bene!
Sono stanco di questi pseudo anglicismi. “Woke” cosa significa. In che lingua volete scrivere? I nostri giovani usano 1500 parole, gli anglicismi sono circa 3000. Volete esprimervi per essere capiti? Se non vi va bene l’italiano, assumiamo l’inglese come prima lingua, visto che è l’idioma più usato nei rapporti internazionali. La nostra scuola però dovrebbe essere in grado di insegnarlo. Così l’italiano diverrebbe una orribile miscela. Povera nostra lingua che fu di Dante e di Manzoni e di tanti che la onorarono. Gli argomenti che proponete sono interessanti. Bene, fateceli capire!
Poveri Andrea e Gianfranco, talmente privi di conoscenza della storia della lingua italiana da pensare che ne esista una forma pura e priva di contaminazioni transnazionali.
Veramente il testo di Mimmo Cangiano fa piuttosto l’impressione di un prodotto transnazionale debolmente contaminato di lingua italiana.
Non che sia un male, in sé, ma deve essere chiaro che qui la lingua italiana non c’entra per niente. E’ un blando veicolo, il più possibile asettico e ideologicamente ben incasellato, per zompare agilmente da un termine tecnico all’altro. I quali termini tecnici hanno di necessità una forma standard fissata in letteratura.
Che gli specialisti italiani si affrettino a assumere e ribadire, come forma standard, l’espressione inglese, è dovuto a A) pigrizia, B) vanità, nel senso che l’uso del termine inglese, soprattutto ai suoi inizi, fa sentire più connessi, o introdotti, di quelli che usano o userebbero un’espressione italiana. Chissà perché. Più estrodotti direi io. Ma, boh, è così.
E non dimentichiamo che l’autore ha trascorso dieci anni negli USA. Dieci anni non sono acqua. Qualcosa ti rimane. Se il materialismo storico ha resistito, la lingua qua e là ha ceduto, è inevitabile.
Come dicevo, niente di male in fondo, in sé. Il problema semmai si pone là dove Cangiano si augura che alla fine del libro il lettore “abbia una visione più nitida su tutta una serie di problemi”, e addirittura intraveda la possibilità di sussumere in una struttura unitaria ecc.
Ecco, lì ci vedo problema. Solo apparente però: la parola chiave è “il lettore”. A quale lettore pensa Cangiano? Qual è il lettore ideale di Cangiano?
Questo è il punto. Cangiano sarà pure internazionale, ma il suo lettore è rigorosamente intra moenia.
Il mio lettore ideale è quello che è in grado di aprire wikipedia.
https://it.wikipedia.org/wiki/Woke_(ideologia)
https://it.wikipedia.org/wiki/Cancel_culture
https://it.wikipedia.org/wiki/Politica_identitaria
https://fr.wikipedia.org/wiki/French_Theory
Grazie del suggerimento. Allora aspetterò che Mimmo Cangiano sia a sua volta wikipedizzato e me lo introietterò in comodo formato riassunto.
(Se per leggere quaranta righe di testo devo consultare almeno cinque articoli di Wikipedia, personalmente ne deduco che l’articolo si rivolge a una cerchia di specialisti – o in alternativa che l’estensore ha la puzza sotto il naso).
Violante, è wikipedia, non l’Enciclopedia britannica. Penso che chiunque legga la controlli abbastanza spesso. La cultura non è una merce facile, un po’ di sforzo lo richiede, altrimenti possiamo limitarci a dirci quello che già sappiamo, ma quale sarebbe l’utilità?
Mi sembra che ve la prendiate per poco. Il buon Mimmo ha semplicemente messo in luce e in buona prosa italiana una dinamica della cultura anglo-americana che prima o poi passerà anche in Italia, visto che (lo dice anche Cacciari) l’Italia è una piccola colonia del (basso) impero anglo-americano, sacrificata allo scontro tra il Sud Globale e il Nord Globale. E se vi dà fastidio un po’ di Wikipedia e due o tre termini della lingua usata come seconda lingua a ogni meridiano e parallelo, che dire? “Tornate alle vostre superbe ruine”?
‘scolta, Andrea Malaguti Quell’Altro, io non me la prendo per niente, anzi mi diverto.
Wikipedia, usata con parsimonia, è senz’altro comoda e per i “due o tre termini”, che sono poi cinque o sei, l’effetto (autorevole o un pelino ridicolo) dipende ovviamente dal tasso di diluizione nella lingua autoctona.
Personalmente trovo che il buon Mimmo la pigli sempre un po’ dall’alto, il che non giova alla buona prosa, in qualsiasi lingua.
En passant: ci vedo una contraddizione fra la nostalgia per le “superbe ruine”, rimproverata alla sottoscritta e a altri commentatori, e la “buona prosa italiana” certificata a Cangiano. La buona prosa italiana, che non c’entra affatto con le ruine ma ha a che fare unicamente con l’italiano, o la teniamo o la buttiamo. A me vanno bene tutte e due, ma non credo che ci sia una terza scelta.
Stavo per scrivere tertium non datur. Ho evitato la ruina in corner.
Violante, divertiamoci insieme (honni soit qui mal y pense, e forza con le ruine, perché a me francese e latino vanno benissimo). La ruina, che non imputo necessariamente a te, sarebbe nel licenziare come ennesima moda americana quello che invece è un problema importante e sfaccettato che finirà con l’interessare da vicino anche l’Italia, dove già gli intellettuali delle comunità immigrate come Igiaba Scego muovono rivendicazioni simili alla cultura italiana in blocco, che già è debole di per sé nei confini della nazione, quindi figurati fuori, dove l’Italia è ciò che il divertimentificio americano ha imposto: meraviglia del passato, cialtroneria del presente (e quindi la ‘guilt’ non è solo ‘white’ e ‘male’, ma anche ‘fascist’). Consiglio la conferenza di Alessandro Carrera sul ‘cancel culture’ in video su Youtube.
Se si decide di leggere l’estratto di un libro che parla di guerre culturali lo si può fare: 1) perché non si sa niente dell’argomento ma si vuole capire; quasi sempre si scoprirà che non si capisce tutto subito, che ci sono impliciti ecc…; si può decidere di lasciar perdere, il mondo è vasto, o di approfondire con altre letture, come abbiamo fatto tutti noi (io ho iniziato col classico di Robert Hughes anni fa); 2) perché si conosce già il quadro generale e si vuole vedere se il libro aggiunge qualcosa di nuovo e interessante; il libro di Cangiano fornisce una prospettiva materialista per la prima volta in Italia su queste faccende ed è un libro politicamente importante per la sinistra.
Arrivare senza sapere niente, pigliarsela per l’uso di parole inglesi che NON hanno traducenti in italiano (liberal, woke, Theory, French Theory) e che quindi si lasciano così, punto, fa davvero cascare le braccia. Non è una questione di parole, ma di cose. Tutti quei termini sono cose, cose della realtà americana, ma che riguardano anche noi. Si prendono dei libri e si studia, se si vuole. (Infatti dove il traducente c’è e non fa perdere nulla, Cangiano usa l’italiano, “politicamente corretto” e “guerre culturali”).
E’ tutto qui. Se non si capisce e non si è intenzionati a capire, visto che il mondo è vasto, si può andare altrove e interessarsi d’altro. Questa cosa che uno possa passare senza sapere manco di che si parla e manifestare tutto questo disprezzo e presunzione è davvero insopportabile. Anche nelle forme virtuali della rete prendere la parola è farlo in pubblico. Si ha una responsabilità nel farlo. Non si può passare ed evacuare distrattamente i propri umori. Questo si chiama inquinamento. Chi non si assume la responsabilità di dare un contributo che faccia fare un passo in avanti alla discussione, non trecento indietro, può anche tenersi le proprie esternazioni per sé.
Gentile Daniele Lo Vetere,
immagino che l’intemerata qui sopra sia diretta anche a me, quindi, siccome mi prendo le mie responsabilità (non ho capito perché siamo sospettati di non farlo), dal momento che lei pare ignorarlo le dirò che quando si decide, perché si è curiosi dell’argomento e comunque qualcosa se ne sa, di leggere l’estratto di un libro che parla di un dato tema, raramente ci si sfionda poi ad approfondire, soprattutto se l’estratto non invita a farlo.
Perché il punto del lettore un po’ informato ma non necessariamente competente o addirittura specialista è proprio questo: come mi parla questo estratto? Qual è l’atteggiamento dello scrivente? Mi invita o non mi invita a approfondire questa cosa?
E’, credo, quello che una volta si chiamava ‘stile’, quello che fa la prima e durevole impressione sul lettore non specialista ma non necessariamente cretino.
Io ho espresso e motivato la mia impressione riguardo a un certo atteggiamento/stile, di cui, nel momento in cui diventa pubblico, l’autore è ovviamente responsabile. Non mi pare di avere defecato sull’estratto, come lei suggerisce.
Ci tengo però a rassicurarla: dovesse nuovamente capitarmi di commentare, terrò presente l’ego degli autori LPLC.
https://www.amazon.com/Ragnar%C3%B6k-reloaded-Italian-Violante-Ruggeri/dp/B0CF45F68C/ref=sr_1_1?crid=2MI68GT1T4YWP&dib=eyJ2IjoiMSJ9.nHMh-i9bQ0U7wc7JC1tQRQ.e6TxbgN_3tiq-opzQkov7a1psp8MWf2by67LFTijgxU&dib_tag=se&keywords=violante+ruggeri&qid=1708357603&sprefix=violante+ruggeri%2Caps%2C94&sr=8-1
Un “manipolo di prodi”
addirittura!
@ Andrea Malaguti Quell’Altro
Grazie del link. Ma non leggo fantasy, e magari sono Violante Ruggeri Quell’Altra.
Per riportare la discussione su binari più attinenti e dare un contributo che le faccia fare un passo avanti, come richiesto da Daniele Lo Vetere:
ho appena letto, qui: https://www.edizioninottetempo.it/media/productattach/n/a/nazione_indiana.pdf , una recensione di Antonio Del Castello che presenta molto bene il libro di Cangiano.
Voglio dire: testo didatticamente efficace, molto ben scritto. Ad esempio, per le parole inglesi che NON hanno traducenti in italiano Del Castello ritiene opportuno spendere due righe – concise, precise e illuminanti – per chiarirne o richiamarne il senso:
“Il libro propone una critica del “culturalismo” (disseminata ovunque ma concentrata nel cap. v) e delle possibili derive liberali tanto della cultura woke quanto della sua controparte universitaria, cioè la Theory e gli Studies, quell’indirizzo di studi incentrato sulle dinamiche di potere e privilegio legate a tradizioni e canoni letterari. Per cultura woke si intende invece quel posizionamento progressista che include le identity politics, ossia l’individuazione, in prospettiva principalmente etica e linguistico-culturale, di identità plurime marginali e oppresse (genere, razza, e anche classe, come vedremo meglio in seguito); il safetyism, cioè l’ideologia della sicurezza emotiva (comfort) diventata centrale nell’etica di sinistra; l’inclusività, l’attenzione ai privilegi, ecc. ”
Non è che ci voglia molto, solo un altro atteggiamento.
Consiglio caldamente la lettura della recensione, è un buon testo, ben fatto. Una buona prosa italiana, fruibile anche dai non accademici.
Giusto per chiarire.
Grazie, Violante. Per chi volesse una prospettiva più ampia e particolareggiata sui fattori che hanno permesso lo sviluppo di certe correnti, consiglio “French Theory” di François Cusset, tradotto in italiano presso Il Saggiatore. È una lettura altrettanto piacevole e percorre trent’anni di cultura universitaria americana.