di Aldo Nove

 

[Esce oggi per il Saggiatore Pulsar, il nuovo romanzo di Aldo Nove. Ne pubblichiamo le prime pagine. Data l’impaginazione particolare del libro, i cambi di pagina sono segnalati con un asterisco].

 

Dio per me è stato la propaganda di un paradiso stile Hol­lywood negli anni settanta, quando c’era la televisione in bianco e nero.
Un paradiso in bianco e nero.

Dunque datato. Sappiamo che da tempo Hollywood non è più il centro del cinema come gli Stati Uniti non sono più il centro del potere mondiale, cose tipo New World Order, altro da New Order ossia i Joy Division dopo la morte di Ian Curtis nel 1980, l’anno in cui l’arcivescovo di San Sal­ vador, Monsignor Oscar Romero…

Il potere è scivolato via. It has slowly slipped away. Si è reso conto che il suo uso della forza era una paranoia. E senza sbattere la porta è uscito di scena così che la luce potesse ancora, all’infinito

infinito e amore sono la stessa cosa. Questo libro è stato scritto nel 402 000 a.C. da un unico computer in cui nel 2051 tutti i cervelli saranno collegati.

 

*

 

Dio. O meglio chi si spaccia per lui. O. Fa lo

stesso. Finito il tempo. Time out.
Ora si tratta di perdurare assenti nell’infinito.
L’infinito è una spiaggia calda su cui appoggiare i piedi e prendere confidenza con il mare. Anche se siamo solo gocce del mare che si sentono oceani, il mare ci riporta dentro un’altra dimensione, quella nostra, svuotata di nomi ed eventi, bruciato quello che è stato e permane, a brandelli tra anni, cugini, dischi a quarantacinque giri, alluvioni, lucertole, madri, sceneggiati televisivi, fino alla prossima era glaciale.

Il protagonista di questo libro si chiama Antonello. Antonello Centanin.
Nato nell’ospedale del circolo di Varese nel 1967, anno in cui all’inizio è ambientato. Successivamente, è ambientato nel 1968, nel 1969, nel 1970, nel 1971, nel 1972 secondo un, per quanto discontinuo, ordine cronologico fino agli anni in cui tutto è diventato virtuale, pure la successione degli equinozi, nel silenzio delle sparatorie. Un anno non definito, quell’anno, quest’anno, ma che continua a pulsa­re nelle nostre tempie e non finisce di compiersi del tutto. Prossimo all’adesso con reverenza e brutale pietà.

 

Prima che la quarta rivoluzione industriale

provochi una grande esplosione nucleare

prepariamoci per l’esodo

un grande esodo.

 

*

 

1967

 

*

 

Onde emigrate dal cuore. Doppiamente velate nelle vene. Respirate, mangiate, rapprese a tocchi di buio anima­ le. Onde marcate di ossigeno parlato, tradotto in plasma nutritivo, riversato immensamente nel potassio sporco dell’amore. Acqua che trasborda e cresce, che è primor­diale. Madre.

Madre. Africa pulita e rigogliosa del bacino continenta­le feto. Terra. Approdo e dirigibile neurologico, infantile. Viggiù.

Mia madre.

 

*

 

Mia madre era un fiume già stato, da sempre, con le tette e la voce modulare del pianeta che abitavo prima dei baglio­ri del Sessantotto, e degli scioperi operai e di Celentano che diceva che chi non lavora non fa l’amore.

Mia madre.
Completamente madre da toccare nella casa del cortile dove io sono nato.

Verso l’uscita del cortile dove io sono nato c’era una fab­brica che faceva il rumore di un gallo che ogni cinque mi­nuti veniva schiacciato da una pressa.

Mia madre era la pelle che incominciava dove finiva il ter­rore di quel rumore di gallo schiacciato.
Più tardi, mia nonna, diceva di lei.

 

*

 

Parlava con l’orologio dei vecchi sul davanzale con il pul­cino meccanico che becca il miglio d’acciaio ogni secondo ogni volta che le lancette giravano a bassa voce dentro di me entrava, sottile, bavoso, razzismo.

 

*

 

Mia madre andava e veniva nel cortile dove io sono nato.

 

*

 

Dentro quel cortile ogni giorno un uomo grasso lumino­ so, a volte e contorniato di viti vaganti inzuppate nella po­tente colla Artiglio accese veniva vestito di blu ad aprire la fabbrica faceva un rumore di ferro e di ferro più forte di odore di olio al mattino con tanti pezzetti di ferro arrug­giniti là fuori, quell’uomo accendeva la macchina del gas.

Allora incominciava il rumore del gallo, la vita, era giorno. Quell’anno, si chiamava 1967.
Quell’uomo era cupo e sinistro fumava ogni dieci minuti invecchiava seduto fuori dalle porte di ferro e vetro unte di olio guardava passare le linee degli aerei alte nel cielo tossiva era pieno di rughe.

Quando un altro anno quell’uomo è morto un altro uomo veniva al mattino vestito di blu luminoso, a volte e con­torniato di viti vaganti piene di adesivo Artiglio accese ad aprire la fabbrica faceva un rumore di ferro più forte di odore di olio al mattino con tanti pezzetti di ferro arrug­giniti

 

là fuori.
Quell’uomo accendeva la macchina del gas.

 

*

 

E la luna?
La luna si bloccava tutta la notte come un ingranaggio di quella fabbrica, esaurito ed esaltante sopra i tetti che ci sono correndo verso le scuole elementari Buzzi Reschini buttava raggi contro alle persone mentre restava sospesa lì in mezzo magistrale, sopra i camini colorava i sampietrini di bianco lunare e i mattoni.

 

*

 

Dentro lo spazio del cortile ogni giorno si sommavano co­lorati sampietrini di rosso e mattoni a pezzetti con pietre e cespugli erba uno spiazzo dove dopo mettevo le biglie inclinato talmente che ogni volta che ci passavo la car­rozzina sussultava volavo, guardavo più alto nel cielo mia madre i camini.

Più di tutto era un caco che c’era svettava ogni anno più alto recinto dal muro di fianco era un grande padrone del tempo restava lì a fianco di dove passavo era un caco trion­fante occupava lo spazio di cento bambini pressati era gran­ de potente e invadente fin sopra la finestra della sala saliva cresceva occupava sfacciato lo spazio che aveva attorno.

Quel cortile era come una bolla una boccia dove guardavo muoversi le cose che erano il mondo normale della fine­stra della sala come la macchina di mio padre che tornava alle sette e mezzo di sera, o un acquario.

E i vicini vestiti giganti aprivano il portone con le voci il rumore delle chiavi di fuori ogni volta che il cane abbaia­ va simultaneamente più forte della televisione (simulta­neamente ai vicini giganteschi), impreciso il rumore del mondo annottava e delle volte lo faceva come una noce che piccolissimo mi avvolgeva ero davvero molto piccolo e tornavo adelante feto! e retrocedevo!

o, fa lo stesso, avanzavo, in senso evolutivo interiormente avanzavo tanto da riuscire a fare dei sogni su alcune cose che avrei fatto da grande.

 

Da grande sicuro non farò il grande, per prima cosa di­cevo.

 

*

 

[…]

 

*

 

La notte cresceva pulsava invadeva la finestra azzurra la televisione blu dalla cucina dalla camera da letto mia ma­dre presente come una coperta di lana profumata di latte e pelle.

E come in tutti i romanzi i cani latravano, a un certo pun­to ma io ero piccolo e pur sentendo i latrati dei cani non li interpretavo, non cercavo di capire se latravano per gioco oppure perché arrabbiati in quanto ero una cosa sola con l’infinito piacere fusionale con il mio otto, otto minuti e quarantacinque e altri orizzonti simultanei.

 

*

 

[…]

 

*

 

E dentro il portone, c’era l’Aldo (sempre con l’articolo de­ terminativo davanti, l’).

L’Aldo era un operaio piccolo, piccolo

                                                   che sua moglie lo baciava, vicino al portone.

Ogni mattina l’Aldo andava a lavorare con il motorino usciva io dormivo perché avevo

due mesi tre mesi quelli erano la vita e l’amore infinito

1 thought on “Pulsar

  1. “Non basta la conoscenza della Verità, e la sua accettazione, ma occorre anche la prassi.
    La giustizia divina ignora ugualmente chi non ha voluto come chi pur volendo non ha agito.”

    Aldo ha agito. Questo è quanto. I piccoli misteri “dove guardavo muoversi le cose”. Tenere ferrea la luce. Libri come amuleti contro la sempre imperante Oscurità mai così esposta. Che privilegio poterla vedere, per chi può. Iniziato alla strada da percorrere, oltre.

    Un saluto fraterno
    Paolo

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