di Stefano Bottero

 

Esercizi di lettura, rubrica a cura di Francesco Brancati

 

Startus è il titolo inaugurale della collana poetica Melanos del CentroScritture di Roma, pubblicato nel 2023 e accompagnato da una nota introduttiva di Giulia Cittarelli. In termini di operazione editoriale, è significativo il fatto che Valerio Massaroni, autore della raccolta, sia anche il direttore della collana (che ad oggi conta un solo altro titolo – Eroina (margherite) di Riva). Significativo, perché fornisce un’indicazione sul senso allargato di quest’opera: non solo un’assunzione di postura vocale, ma una dichiarazione poetica. Si tratta del primo passo di una traccia d’indagine – di una linea, se vogliamo, che la collana persegue. Ciò costituisce un fattore d’interesse relativo all’opera (d’esordio, per altro) di Massaroni, e spinge a formulare le domande su di essa riducendo, almeno in prima battuta, le questioni interpretative ai minimi termini.

 

Viene quindi da chiedersi ‘che cosa sia’ Startus. La risposta – come lui stesso afferma a più riprese – va cercata nell’area dell’irrisoluzione: il libro è concepito come la ripetizione di un dilemma amletico, svuotato di portata storica e ragione. A questo proposito, nel testo si incontra un’indicazione metariflessiva reiterata – si legge, in più punti, «Startus è […]», «Startus è […]», «Startus è […]». E non per una necessità ossessiva o dimostrativa, ma come risposta fisiologica, corporale, a una funzione che il testo stesso assume – quella dello svuotamento.

 

Immaginate l’immortalità della traccia verbale,
punti luminosi radi e rari come i resti del tracciato percorso,
crimini sacri dell’altro mondo nelle inezie di questo,
il prato recintato della sera una radura battuta dal
Spuntate nella griglia le risposte peggiori,
datevi al via scorgendo tra un momento e l’altro quello che resta
dei tumori della felicità.

Attenti…

Non sai dove andare, vero?

 

A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla

vita, alla libertà, e al perseguimento della

felicità. (cit.)

 

Il luogo, signore, è ovunque.

La direzione, il modo, eccolo,

è là.

 

L’autore si rivolge a un’alterità plurale, portando il discorso poetico a coincidere con la sua espressione vocale soggettiva. L’intento apparentemente argomentativo della sua composizione è tradito da quanto si legge nel v. 5: l’argomentazione dell’Io è violata dall’intromissione di una ragione altra – più profonda. Senza giustificazione interpuntiva, la lettera della parola iniziale torna maiuscola, la sintassi si spezza. La realtà razionale delle cose, l’orizzonte fenomenico costituito (a cui si rivolge in un quasi delirio di onnipotenza professorale) appare come una rete frammentata di «crimini sacri» e «inezie» (v. 3), di «punti luminosi» e «resti». C’è tuttavia qualcosa, scrive Massaroni, che spunta: ancora una pluralità, stavolta peggiore, a direzionare quello che il soggetto ha da dire. Seguono allora altri due versi che riprendono lo schema assertivo dei precedenti – svuotato di senso compiuto. È necessario darsi, scrive l’autore, nell’interstizio dei momenti tumorali di felicità. Qui lo spazio si dilata, il discorso si sbianca: i versi sono posizionati sulla pagina come voce dotata di eco, isolata da una frammentarietà mitigata dall’impiego, continuo, della coniugazione alla quarta persona. Quest’ultima è soppressa nella stanza finale, di seguito a quello che ha tutta l’aria – visto l’inserimento quasi ironico di «(cit.)»  di essere un discorso che il soggetto ha ripetuto fino allo sfinimento. Al buonsenso comune dei pari diritti di tutti, segue un rivolgimento paradossale, formulato al singolare: l’«ovunque» diventa categoria negativa – esempio chiaro di quelle «risposte peggiori» di cui sopra. Il senso luminoso delle possibilità, evocato nel v. 2, è ormai spento – soppresso dalla pura materialità dei fatti. Non esiste risposta oltre a quella del qui e ora, delle direzioni di adesso – così prossime, che il soggetto può addirittura indicarle deitticamente nei due versi conclusivi.

 

Le traiettorie espressive, i significati elaborati nello spazio stretto della biografia, le voci intrusive di una collettività che si abita da estranei: tutto combacia nel perdere (o meglio, nell’aver perso) la sua dotazione di scopo. Non un’insensatezza nichilista quella di Massaroni, non uno sguardo rivolto allo spalancarsi del vuoto, ma la (soprav)vivenza in esso. Nell’arco del centinaio di pagine che compongono il volume, l’autore posiziona la materia verbale come spasimo della mano – momento determinato dal corpo, che al corpo ritorna. Ad apice delle singole sezioni, l’inserimento di un’indicazione spaziale (espressa dal simbolo sempre diverso della freccia) nega le possibilità dello stare fermi. Quello che leggiamo si muove, si posiziona e si rianima, come accade agli oggetti quando lo sguardo arranca, perché squilibrato da sostanze. Svuotamento, quindi, che non porta alla stasi. I fenomeni si accavallano e tremano, il discorso poetico procede per blocchi coincidenti e opposti a formare una geometria intuitiva. In tutto questo una voce, la voce, insiste nel fornire le coordinate di sé – l’autore scrive: «Evocazione biografica, qui». E ancora: «Sto componendo una poesia». «Qui, invece, una didascalia». Così Massaroni finge i processi di intromissione, imita il modello delle voci-da-fuori senza adottarlo. Il suo discorso, continuo, non ammette in realtà interferenze. Gli argini sono slabbrati – la gabbia è impossibile da trascendere, da quanto si è estesa fino a dove lo sguardo concede. Si manifesta qui una memoria autoriale di Franco Ferrara, di Giuliano Mesa, un’attitudine di rapporto all’altro come vortice.

 

Solo per lasciare traccia, solo per vanità, solo per dirsi – Bene allora che cosa ci faccio con questo dolore? Sparite le strade rimane quella del padre la forza che ti mette al mondo – Comunque lui ora non c’è più.

 

[…]

 

Nel salto, nell’angolo, nel soffio – La vita crescente nasconde la morte – Se uno non vuole non ha altro

 

modo che la parola nascosta – La parola di chi sa e riconosce per sempre di vivere per errore.

 

L’operazione grafica del volume assume questa ratio come traccia da condurre alle estreme conseguenze. La disposizione del verso nello spazio, il nero su bianco, si dilata in un’occupazione che ricorda il fumo – la legge per cui una tensione eterodeterminata porta l’oggetto a scomparire del tutto. Scrive: «Noi non siamo qui / questo è il nulla / e lui è con noi». Non occupazione, quindi, ma abitazione dello spazio della pagina. Perorazione di una causa a cui l’Io aderisce solo perché spinto dalla realtà delle cose – quella stessa, si è detto, dello svuotamento.

In questo, il suo lavoro appare in linea con l’ultimo Spiralis Aurea di Stefano Pilia – raccolta di composizioni post-minimaliste unite dal fil rouge di un declinare a spirale, continuo, verso il silenzio. Come Pilia (oltre alla scelta semantica arcaica per il titolo), Massaroni orizzonta la prospettiva del suo discorso come una discesa, un’assunzione progressiva di stanchezza.

 

Startus termina,

ha versato l’ADDIO e inciso la lacrima sulla caverna.

 

Tieni fratello,

vediamo che cosa possiamo costruirci attorno.

 

 

L’effetto di spegnimento progressivo è testimoniato anche dal tradimento dell’aspettativa di un Indice, di una legenda che aiuti a stabilire le coordinate interne dell’opera. Niente di tutto ciò – al suo posto, l’autore posiziona un apparato di note. Ancora, si ha la sensazione di incontrare un intento d’irrisoluzione: la possibilità di leggere l’opera (l’oggetto-libro) secondo i parametri di un sistema chiuso è venuta meno. Nessun desiderio di raccogliere i frammenti in un discorso unico. Al massimo, se la curiosità permane, possiamo maneggiarne i frammenti – gli stessi che Massaroni sparge, assecondando una ragione grafica, sulla pagina.

 

Orientando l’analisi sul piano della cultura letteraria, viene spontaneo pensare che se fosse stato pubblicato cento anni fa, questo libro, lo avrebbe scritto un flâneur. Avremmo letto Startus come una peregrinazione descrittiva – un attraversamento del rapporto con l’esterno in declino. Oggi, invece, assumendo una qualità tipicamente contemporanea, questo libro si determina come sforzo di ricerca non solo rivolto a una lingua (già raggiunta) ma a una voce. Prendendo in prestito le parole di Nancy, il poeta è infatti qui «come se fosse egli stesso – il suo essere o la sua soggettività – l’espansione improvvisa di una camera d’eco». Un grido la cui disperazione rifiuta il limite novecentesco dello sconforto, del punto di non ritorno, pur abbracciandone la memoria come componente strutturale. Per l’autore, il ricordo culturale è infatti malta, mattoni, tubi di plastica che sostituiscono il rame. Complessità materiale che non tace ma «giudica», imponendo il proprio peso specifico senza più ragione di significato: « Si chiedeva se fosse il momento / Del piano, del resto oscurato del ritratto, / Se dovesse restare nel posto, // Altrove o altrove». Come a voler ribadire la propria traiettoria di compromissione – ancora, in linea con il modus compositivo di Pilia – l’autore moltiplica le occorrenze del suo discorso: dove finisce il privato, dove viene meno la capacità dell’Io di riconoscersi vivo, lì si colloca l’opera. Lì, ancora, in quell’alterità non completamente scissa dal dentro di sé, prende corso il descriversi.

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