di Dario Voltolini
[Esce oggi per La Nave di Teseo Invernale, il nuovo libro di Dario Voltolini. Ne proponiamo un estratto].
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Soprattutto il sabato il mercato è preso d’assalto da una massa di persone. Ci sono folle nelle corsie, non si passa. Di fronte a ogni banco uomini e donne si spingono e parlano forte. Sembrano una versione insurrezionale della Borsa di Wall Street. Dentro i banchi dei commercianti con furia si accelerano i movimenti, per servire tutti il prima possibile. C’è una danza lì dentro, con persone a loro volta in massa, che devono prevenire le traiettorie dei movimenti uno dell’altra, una dell’altro. Qui per esempio si vendono carni: di pollo, di agnello, di coniglio. Mentre uno spacca il coniglio per il lungo sul ceppo di legno cercando di evitare l’esplosione delle sue ossa e mira il centro del cranio per aprirlo in due metà con un solo colpo di coltello, l’altro apre un pollo per scaturirne il solo petto, e poi affettarlo. I tempi di utilizzazione del ceppo dipendono da velocità: nel servire il cliente, nello spolpare la bestia, nell’impacchettarla e sbatterla sulla bilancia per stabilire il prezzo. Prendere i soldi, dare il resto. Avanti un altro, avanti un’altra.
Ci sono vasche con frattaglie, fegati, budelli, trippe, coglioni. Prelevarne parti, pesarle. Ci sono rognoni da spacchettare dal loro proprio grasso. Sgusciano come fave dai baccelli. Hanno il colore della prugna. Ci sono zampe di pollo da troncare via, teste di pollo anche. Ci sono carré di agnello con i segmenti delle ossa del torace che puntano in alto. Come batteristi nell’assolo i macellai colpiscono con la lama tra segmento e segmento per creare le cotolette da fare al forno, alla brace, alla milanese. Suoni come di mitraglia, lame tra la carne e tonfi sul legno del ceppo. Bilancia, soldi, altri soldi in resto.
Spaccare la testa dell’agnello che sembra guardarti con le sue pupille che non vedono nulla, farlo in centro, le ossa, la lingua emerge. Spaccare con pochi colpi nello stesso solco. Si vede l’anatomia della testa, i meati della respirazione, la teca del cervello, l’attacco della vertebra nel cranio. Prendere velocemente mazzi di alloro e rosmarino – se c’è, della salvia – pregustare in verità il profumo del cibo nella casa del cliente questa sera, ingolosirsi, presumere il tipo di cottura che faranno. Immaginare in un lampo la casa del cliente, inventarsi ospiti stasera, ritornare immediatamente in questo momento, dare il resto, chiedere a quell’altro e a quell’altra “desidera?”. Percepire nel frastuono l’ordinazione: una coscia, una spalla. Prendere la coscia e sezionarla nella porzione di tempo liberatasi intorno al ceppo, nessun attimo da perdere, menare fendenti nelle scapole della bestia, nei muscoli della bestia fino a spaccare l’osso che questi ricoprono.
A casa non si riesce, con i coltelli che si hanno in cucina. È qui che va fatto il lavoro del coltellone, il gesto che in casa non si può fare, quello del decapitatore.
Appena possibile – poiché quelle persone che si assembrano in massa hanno dei momenti di pausa come li ha il polmone tra l’espirazione e l’inspirazione, momento che il buddismo sa e tematizza – passare con uno straccio umido le superfici dove si incollano osso e frammenti di organi, di sangue e fiele, per pulirle: per manutenere una forma di lindore all’esercizio in cui si lavora, per ore e ore. Bisogna farlo sempre appena possibile, altrimenti le esplosioni dei tessuti degli animali formeranno presto una crosta di pasta sui muri di marmo, sui pianali di marmo, sulle cromature della bilancia, sul vetro che interfaccia i clienti. Sulle nostre mani, sui nostri vestiti mentre lavoriamo.
I clienti quasi urlano, aprono le bocche e urlano, “Ci sono io! Ci sono io!”. Potrebbero dare il sonoro a filmati di uccelli nel nido che chiedono il verme, che hanno fame e basta, volare magari poi. O a carpe nello stagno che arrivano e continuano ad arrivare come in un incubo, senza pensieri, solo bocche a O.
Ecco che la merce diminuisce, ecco che i brani delle bestie stanno per mancare. Allora ci si coordina e uno gira dietro l’angolo di marmo e apre una porta e penetra nel frigorifero dove attendono cadaveri di bestie da porzionare. Vendita al minuto, si dice. E questo vuol dire ridurre interi in parti e queste in altre parti.
Lui emerge dal frigorifero con una bestia in spalla e chiude la porta con un movimento del fianco. La bestia non ha più la pelle, né le viscere. È un agnello che la castrazione ha fatto aumentare di volume, va per i quaranta chili, le estremità delle zampe non ci sono più. Le due cosce terminano prima dello zoccolo, tagliato via. Così anche gli arti davanti che pendono e sembrano saltare un ostacolo sono senza zoccoli.
Ci sono file di ganciere di acciaio sui muri dell’esercizio, ponendosi di fronte alle quali esponiamo il nostro retro al pubblico dei clienti. Lì, su quelle ganciere che passano una ventina una trentina di centimetri sopra le nostre teste, viene appeso l’animale prelevato dal frigorifero: le sue zampe di dietro terminano come asole, da una parte l’osso che si innesta nel calcagno, dall’altra il tendine di Achille che finisce nello stesso posto. Fra i due un vuoto, visibile bene dopo la spellatura. Quel vuoto viene fatto infilare da un gancio della ganciera e così si fissa, come se il gancio fosse un bottone. L’altro, dell’altra gamba, viene fatto infilare tre, quattro, anche cinque ganci di distanza dal primo. Così la bestia pende lungo il muro, la sua schiena verso il muro, il suo ventre aperto verso il macellatore e dietro di lui la folla di carpe e uccelli. Loro vogliono parti di quella bestia lì, non ancora spaccate via chissà quando, chissà come conservate dietro le vetrine che le espongono. Direttamente dalla bestia ancora intera al ceppo alla carta di paglia alla bilancia al sacchetto di plastica alla borsa della spesa.
Il corpo quindi pende. Partono i fendenti del coltellaccio in centro tra le cosce. Aprono in verticale la colonna della bestia, dal sacro alla nuca. Devono essere, come gli altri, colpi che entrano nel solco appena fatto dal colpo appena dato. Il corpo che pende si apre quasi con delicatezza, si divarica come in una spaccata. È una spaccata. Appena si divarica un poco, una delle cosce viene staccata dal gancio e viene agganciata a un gancio più in là, per statuire questa divaricazione da cui non si torna indietro.
E così, di coltellata in coltellata, con la mancina che stringe la coscia e il fianco sinistro della bestia pronta a divaricarla ancora, il macellatore arriva, con suoni cadenzati come di ventilatore difettoso, fino alla nuca del corpo. Lì si ferma e lo decapita. Liberato dal cranio, il corpo finalmente si drappeggia come un sipario in due mezzi corpi che pendono in parallelo, che si specchiano uno nell’altro.
Una metà comincia a essere smembrata. La spalla, via; la cassa del torace viene incisa con un altro coltello con lama da sicario e poi spaccata lungo l’incisione con la pressione delle mani, producendo un suono di guiro; poi sul ceppo, in quel frattempo che si crea, per enucleare la coscia, per scorticare le costole dal loro tessuto, con la forza delle mani.
La seconda metà viene smembrata.
La ganciera è pronta per una macellazione nuova. Lui va nel frigorifero e torna con una seconda bestia. I colori del grasso, delle ossa, dei muscoli e i due occhi nel cranio.
La bestia appesa, uno, due colpi. Si apre, la apre spostando la parte di sinistra, agganciandola più a sinistra. Il movimento fra ceppo, bilancia, ganciera e vasche di frattaglie accelera. Una terza coltellata: forte, spacca le ossa delle vertebre, un colpo seziona fino a una ventina di centimetri la colonna nel senso della lunghezza. Divide una serie di più vertebre, una coltellata.
Lui sposta ancora di qualche gancio la metà della bestia, parte una coltellata, ancora qualcuna e poi decapita la bestia. La danza si incaglia, chi dal ceppo va alla bilancia urta chi si solleva dalle vasche con budelli e rognoni in mano, c’è un movimento fatto per non perdere l’equilibrio in quello spazio tra banco di vendita e muro. Il movimento urta lui mentre fa partire la coltellata, il coltello devia verso sinistra. Non affonda nel solco che sta tracciando nella colonna, devia sul suo dito pollice che tiene la mezza bestia per divaricarla e spaccarla meglio. La deviazione riguarda la traiettoria del coltello da macellazione ma anche lo disassa, in modo che cala nel dito della mano non perfettamente di taglio, ma un poco di piatto. Anche così il dito si stacca dalla mano, ma non completamente. Sarebbe volato via, cadendo tra il pubblico dei clienti. Resta insieme alla mano per qualche tessuto non completamente macellato, non nettamente colpito. Il sangue di lui si mescola a quello freddo della bestia. L’urlo suo scavalca per un attimo le voci della massa. Poi lui lo fa tacere, il suo urlo, e il dolore come sempre gli resta dentro.
Una corsa al pronto soccorso, la mano e mezzo avambraccio in un sacchetto di plastica avvolti nella carta di paglia che tiene il pollice vicino al palmo, che passa sul polso e quasi arriva al gomito.
Una telefonata della moglie ai propri genitori. La madre di lei ha inciso le cipolle bianche, le ha sbollentate, le sta infilando nel vaso di acqua con sale e aceto per conservarle, saranno un antipasto. Il padre di lei sta facendo sciogliere il rottame di un tubo di piombo dentro un pentolino sul fuoco. Una volta liquefatto il piombo sarà versato nell’acqua fredda e si rapprenderà stridendo in una forma di neurone, di ramo, di corallo. Il nipote, che leggiucchiava, in un numero del “Reader’s Digest”, Una giornata che non dimenticherò mai, si avvicina al lavello per assistere alla metamorfosi del piombo. Il telefono suona. La madre di lei alza la cornetta. “Ah, ma no! Ma no! Gino!”
Siamo nella seconda metà degli anni settanta del Novecento. Gino è mio padre. Vedo il piombo rapprendersi. Il suo odore si mescola a quello dei chiodi di garofano.