di Patrizia Vicinelli

 

A oltre trent’anni dalla morte della poeta, artista, performer e attrice bolognese Patrizia Vicinelli (1943-1991), la casa editrice Argolibri ne ripubblica le opere edite, tra cui  à, a. A, e Non sempre ricordano; nel volume, intitolato La nott’e’l giorno. L’opera poetica (a cura di Roberta Bisogno e Fabio Orecchini, Argolibri, 2024) compaiono inoltre il romanzo flusso Messmer, l’opera teatrale Cenerentola, riscrittura femminista della celebre fiaba, composta con le compagne di detenzione nel carcere di Rebibbia, il poema ultimo I fondamenti dell’essere e, pubblicate per la prima volta, le riproduzioni fotografiche a colori, recentemente ritrovate, di Apotheosys of Schizoid Woman, libro oggetto realizzato a mano dall’autrice durante la sua fuga in Marocco, andato perduto.

 

*

 

Patrizia Vicinelli (Bologna, 1947-1991), poeta e performer, artista e attrice, ha attraversato gli anni ‘60 -‘80 da autentica icona corporale di rivolta e libertà; ha dato il via alla stagione del teatro sperimentale italiano con Aldo Braibanti, del cinema underground con Alberto Grifi e Gianni Castagnoli (per il cinema  ha anche recitato nel film cult Amore tossico di Claudio Caligari) e, sin dagli esordi,  sotto l’egida di Emilio Villa, ed in seguito con il Gruppo ‘63, è stata una protagonista indiscussa nell’ambito della poesia d’avanguardia e performativa. A lungo latitante in Italia, ha vissuto un estremo esilio in Marocco, prima di tornare in patria ed essere incarcerata a Rebibbia. Le sue opere di poesia visiva sono state esposte in mostre internazionali, tra cui la Biennale di Venezia e il MOMA di New York. Si è spenta a Bologna nel 1991 in seguito a complicazioni da AIDS.

 

da Non sempre ricordano

(1977-85)

 

 

PARTE SECONDA

Qualunque cosa, ovvero: non sempre ricordano

[…]

È LA PRIMA VOLTA? p o v e r i n a ,

dissero, come un fumetto come dentro un film,

agghiacciante, dato il pianto,

incessantemente incessantemente incessantemente

– chiuso in alto dal verde un tunnel

col foro tondo

alla fine della prospettiva

nel viale lungo che andava verso sud,

ricorda sempre, NON sempre RICORDANO

loro spostando – come scacchi –

la camera quadrata – di ferro –

una mossa ancora –

DI PIÙ DI PIÙ DI PIÙ

MOLTO DI PIÙ

sbatte sottolineando

contro forsennatamente

SDAN SDAN SDAN SBADADAN

UNA BATTERIA? cucchiaio contro sgabello

zoccolo che si spacca sull’asfalto

) … quella mattina era bagnato di rugiada…)

dilaniato cervello contro scontro

——- MA ——- COSÌ ——- È ——- COME ——-

————————- UCCIDERE ————————-

ancora non credeva,

: nun agg’io acciso mmai, lo ggiuro, siggnurì,

e canto selvaggio che non si spegne e

moribondi appestati muoiono in questi capannoni

di metallo ardente

canto selvaggio la sua origine del sud

spini cardosi fiori d’arancio a mano, sole

rovo ma sole e nomadi fermi, rocce

non è qui il suo posto della morte,

di chi è la colpa? DI CHI È LA COLPA? DI CHI?

la colpa non esiste, LE COLPE STANNO A MONTE,

DI CHI È LA COLPA? DI CHI È LA COLPA?

la colpa della colpa della colpa della colpa

DELLA COLPA DELLA COLPA ———————–

è una questione di IDEOLOGIA, non è vero?

è una questione di POTERE, non è vero?

è una questione di MORALE, non è vero?

è una questione di ORDINE, di CONTROLLO,

non è vero?

LA GIUSTIZIA È UNA QUESTIONE DI INTERESSI,

NON È VERO?

chiese e le fu risposto

LA QUESTIONE È ANCHE

QUELLA MA

STA

DENTRO

UN PUNTO CHE SI CHIAMA ARRENDERSI

[…]

*

 

da I fondamenti dell’essere

(1985-87)

 

 

I. IL CAVALIERE DI GRAAL

Da un altro punto furono viste le stagioni

fino lì sconosciute

solo allora poté sedersi ad ammirare

il senso dell’alternanza.

Dalla sua radice gassosa ne muta

la base visibile

e lo cimenta la traiettoria

di notte e giorno la luce,

il cielo.

È fusa la donna alla sua ombra

eppure trema al fuoco dell’inizio

così se li sposta i suoi passi

Iside all’orizzonte mèta

ora essa fugge la sua lontananza.

Perché non cola l’attesa profumata

ossia fermarsi

la sua ansia volta avrà la fine

di profilo porre cosa la tiene unita

quella che stacca la radice, un alito.

Batte allora come sul ferro la materia di sé

e lo plasma ogni angolo continuo

della vista

una distanza del suo centro esatta

la definisce.

I piani diversi del linguaggio

ne è avvolto

così genera le forme della sua ricerca

egli ha imparato come lasciarsi solcare

ad essere cinto dalle tracce.

Con un colpo d’occhio sentiva

la presenza simultanea di tutto ciò

che nella terra cresce

e questa coscienza della situazione attuale

lo aiutava come una disciplina.

Ciò che non è compiuto spinge

Beveva quel soffice vino d’agosto

e teneva la porta aperta

sulla laguna afosa della fine d’agosto,

musica in viole di quel tempo, vino di Graal.

Si chiedeva se non fosse una sua fantasia

mentre risa fendevano l’aria,

di giovani donne ubriache.

Arrossisce il suo silenzio il vino

e gli dà corpo

col respiro batte il ritmo della mente

nell’aria intatta

ora a cerchio lo sguardo, la perdita

lo svela,

un parallelepipedo di una battaglia navale

del settecento,

esatto d’ombre fatte di sfumature.

In settembre oltre la luce così bassa

e radente c’è nebbia

e l’odore di funghi porcini annusati

a lungo, come nelle cene d’inverno

dentro le buste di plastica.

La configurazione del male, così conosciuta

era allora impalpabile sembrava

non ci fosse traccia.

Intanto la luna al primo giorno calante

porge la notte in adagio,

la struttura tutto sommato

è tonda ora, poi cambierà.

Già pensa che il santo graal è troppo

lontano, e il bicchiere si sta offuscando

di rosso, – qualsiasi cosa signore, ma spingimi

avanti –, nuovamente il bicchiere brilla rosso

e la luna fra gli alberi cade con la certa nebbia

fino ai pini e alle acacie, ma non i grilli, non

i ragni, le libellule fino a ieri poi.

Non c’è arrivo non c’è sosta non

c’è partenza, ma il succedersi senza tregua.

Questo sì, che ad ogni livello ne succeda

un altro, per generazione spontanea

l’aveva saputo della ruota che girava

mentre i mondi finivano, a volte.

 

*

 

da Messmer

Romanzo (1980-88)

 

Parte prima

 

I

Andare a Roma, prendere un treno qualsiasi che poi parte dopo mezzanotte, non troverò neanche un albergo, che sei gelosa? gelosissima, diceva lui mentre baciava l’interno della sua mano, chissà se quest’argomento m’interessa, due stronzi, pensava, borghesi, eccetera. Ed era come nei vecchi films, una fumana, con tutta quella nebbia, lì alla stazione si scopriva la vera essenza della città, fumosa nebbiosa, nella piena ondata dell’inverno, una città dentro una valle. Vediamo se quello che dicono della città di Roma è vero, che sia più bello e più caldo, almeno questo. Ho certi brividi, sarà la paura. «Salgo e sono in prima e ho i soldi nelle calze e nelle mutande la roba

e in tasca la spada, e vi sfido a trovarmi, a trovarmi qualcosa di tutto questo, bastardi. Mi sembra d’essere tornata ai vecchi tempi», oh little castle, cantava, dentro di sé, naturalmente, lei non amava gli scandali, oh little castle, I want to be free, biglietto di prima naturalmente, e free e free e freedom now,

lasciami stare vecchio stronzo, quella fu una delle pochissime volte in cui disse di no, ed è un’ossessione, sete, trovati un posto, calma, la Messmer deve stare calma, ehj, baby, hai dei bei capelli biondi, tu ti fai, ne ho conosciute tante come te al mio paese cosa credi che non ti riconosca?

Una troia drogata sei, anche quello come il vecchio troppa libidine troppa insofferenza, io faccio quello che voglio, capito vecchio, capito soldato? Ma sarà che non mi muovo da un pezzo, sarà che m’ha ripreso la paranoia, «era un pezzo che non ricordavo queste storie», forse qui va bene c’è una signora

che sonnecchia, va bene, la luce è bassa, e se ho bisogno andrò al cesso che è accanto certo deve essere che non mi sposto da un pezzo, paranoia, calma Messmer, il tizio morto al cesso non ti riguarda, vai tranquilla, a Roma fa caldo, «ma quando parte sto treno di merda, fino a che non arriva il controllore non posso andare al cesso», e si siede e fiori e goccioline sulla

sua fronte e scendono sulla pelle opaca e tirata come uno che patisca la fame come uno che soffra tanto, i suoi capelli biondi cadevano ai lati del viso magro, perché non li aveva tirati su bene prima di uscire, non ne aveva avuto il tempo, la donna seduta con lei sulle poltrone di velluto verde aprì giusto gli occhi per vedere chi fosse entrato nello scompartimento, visto

che era una donna li richiuse. Messmer cominciò la concentrazione per calmarsi, «un viaggio è un viaggio» pensò, «devo stare calma». La luce azzurra della piccola lampada sui treni dava la pazzia per uno che già avesse dei problemi, ma in fondo era buio. Peggio se ci fosse stata luce, peggio. Le tendine erano chiuse. Sedendosi sul posto vicino al finestrino con la tavola che le stava sopra le ginocchia, scostò leggermente le tende, il treno era ancora fermo alla stazione, nebbia ovunque pensò qui si potrebbe nascondere anche un assassino che nessuno lo troverebbe, e nel mentre apparirono proprio sotto il suo naso due carabinieri di ronda in tutta divisa, con le solite facce imbecilli e ignare. Sussultò suo malgrado, accidenti la

paranoia, tanto che loro la guardarono, perché la paranoia si sente, anzi si annusa. E già si sentiva male e già si sentiva presa e già si sentiva che tutto era finito, il treno si mosse dopo uno scampanellio, un fischiettio a lei sconosciuto.

Dunque, partiva. Dunque, partiva. (Allora) il treno fa tu tun-tu tun tu-tun, Messmer prova a chiudere gli occhi e non pensa a niente, non sono passati neanche cinque minuti che entra il controllore biglietti e-il-più-è-fatto-, controllato, vorrei vedere te, vorrei vedere te, «adesso devo andare al cesso

e cercare di stare tranquilla». Dunque senti, senti, disse, la mia figa è grande è enorme per te, froscio, che cerchi sempre un’altra figa, la mia figa è imperiale le mie vene al posto di te maschio inconsulto animale animale, animale, e mi chiudo la porta dietro ora sto tranquilla perdio, qui con un’odorosa tazza del cesso sto tranquilla, e tan-tan ta-tan e ta-tan ta tan vengo e ti ho cercato e delirio per averti ma tu parassita naturale non parlerò più, voglio la mia pera, voglio non sapere e essere in viaggio e non sapere. Il cucchiaino era d’oro il braccio era d’oro la polvere era assolutamente d’oro finissimo, il treno faceva il suo ta ta pum, ed era difficile beccare quel punto

aperto sul braccio una cosa minuscola.

Spasimava per sentirsi il liquore bruciare dentro come un’antica ferita almeno sono viva gridava qualche parte del suo essere almeno qualcosa voglio, e non te, che mi hai tradito mille volte in modo diverso, non te, che mi hai negato sempre, non te eccetera lei disse, e s’abbracciava tenendosi stretta alla catena del cesso che non è mobile nei treni, ma la vena ancora no, e le uscirono zampilli di sangue e lacrime no, oh no, ne ho bisogno, rallenta treno, non sbandare treno, si sentì dire, ne ho bisogno. Il sangue schizzava giù, fra quelle strane graticole in basso, dove qualcuno ci piscia e il rumore del treno sale più forte, più imperioso il senso di morte immediata che puoi darti. Lei ci riesce dopo che tutto è rosso in terra, meno male è prima classe, lei becca la sua vena di tutti i giorni e il sangue fa sbluff, è così nero, non c’è speranza pensò, tirare fu tutt’uno, «ci sono», il cuore le saltò come una coltellata, in vena in vena, non poteva pensare a quanto in realtà era infelice; in quel momento era in vena in vene che duravano da dieci anni, vuoi venire con me amore mio disse la morte, con un accento pietoso ma lei non sentì perché il vulcano del sangue eruttato aveva occupato ogni comprensione, voleva quello, uno sbluff dentro l’anima, e dunque tiro, e inietto adagio no no, non è come per le puttane, no, nel rapporto col magnaccia; no, io tiro e butto giù d’un colpo, come una mazzata come chi resiste non è morto, come voglio sentirlo tutto insieme come questo è quello che ho, dentro dentro come più fondo, no, una congiuntura una congiunzione quando le cose vanno bene. E il cesso è favolosamente bianco e banale e il primo brivido è stata la mia vita il mio whisky di stasera is nothing for me sappiatelo, io voglio farvi deviare sappiatelo, amici nemici sappiatelo, preparatevi, io vi voglio far venire al dunque, Messmer luci viola e spazi viola e chi se ne accorge di te coi tuoi lamenti di fine d’anno, cosa fai rantoli?

Ah sì, rantolare, fare quel suono col respiro come certi che devono morire, ma è normale non è così?, nella prima classe ognuno ha diritto di morire e di vivere come vuole, senza testimoni e senza gente che si oppone. Diventando viola la sua mente si perdeva in contorsioni di ricordi, un portacenere d’ambra inusato dava certi colori rifratti, era uno scudiscio un’onda di colore che riusciva a raggiungermi, che dici oasi? Non c’è oasi, san pellegrino, non c’è stasi, non c’è pace, ombra e luce, e grandi risvegli, puoi guidare la tua carrozza, è tutto così grigio madreperlaceo, sono nel ventre di una conchiglia di perla.

Mi pescheranno.

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