di Pietro Pascarelli
The Virgin Suicides è un rapinoso o ipnotico film di Sofia Coppola del 1999, anno del cambio di millennio, in cui la morte ghermisce con i suoi diversi artifici cinque splendide sognanti ragazze della middle class americana (padre insegnante di matematica, madre casalinga benpensante, entrambi disconnessi da sé, dalle figlie e dall’ambiente, in omaggio a un’insicurezza ontologica che li colloca nella condizione di seguaci o adepti, dipendenti da ideali assunti dogmaticamente e abbracciati come principio vicariante il loro mai scoperto essere, e da regole assurde, assunte nel loro compiaciuto rigore come ansiolitica forma di conferma personale e fonte di piacere distruttivo). Al film di cui parlo non rende giustizia secondo me la traduzione italiana del titolo, Il giardino delle vergini suicide, perché misconosce la modernità della concezione drammaturgica della regista, e suggerisce con la sua territorializzazione un’incomprensibile restrizione dell’ampiezza simbolica dell’opera. Esso prenderebbe spunto da fatti realmente accaduti, ma per quel che mi pare per trascenderli sul piano della fantasia e della trasfigurazione artistica. Ed è su quest’ultimo terreno, mosso da ondulazioni etnografiche, mitologiche, antropologiche, psicoanalitiche e soprattutto metapsicologiche, che intervengo col mio contributo perché è su di esso che questo importante film assume ai miei occhi una rilevanza speciale, perché mi sembra ruotare intorno a due concetti complessi, che illuminano la scena, e sono anche entità viventi nella sfera immateriale, fondamentali nella storia del pensiero, qui efficacemente illustrate. Si tratta del concetto psicoanalitico di pulsione, cui nel film vengono date forme e immagini chiare e immediate e raffinata percepibilità sensoriale; e del mito di Kore, che qui alza il volume al massimo per essere udito e riecheggia in cinque figure perché la sua voce non abbia mai a spegnersi. Circa la pulsione, le cinque sorelle Lisbon protagoniste del film (è questo il loro cognome) danno espressione viva e intensa a un’idea che Freud adottò nel tentativo di cogliere in alta sintesi il rapporto fra mente e corpo, un enigma per la conoscenza umana a tutt’oggi, ma che trovò una brillante anche se provvisoria configurazione in questo concetto che ricuce materia e psiche. Le pulsioni, che ora non nomino più al singolare come costrutto teorico, perché esse vivono e si propongono per trovare sbocco e referenti nel mondo nella loro pluralità, sempre bussano –sono un trauma continuo per la mente razionale che cerca di mantenere la sua compostezza- alla porta della coscienza. Quel che avvertiamo non distintamente è una spinta (drang), che peraltro le funzioni e strutture psichiche si sforzano di imbrigliare e utilizzare al meglio senza perdere il controllo, perché quando vi è questa minaccia facciamo esperienza una prima volta, e poi infinite altre, dell’angoscia. E dunque se quel che le pulsioni sono resta ancora oscuro, quel che fanno momento per momento è il risultato dell’interazione fra loro e le funzioni psichiche, fra cui in primo luogo le difese, anch’esse inconsce e sempre in allerta. Ciò ne muta continuamente l’aspetto, i risultati, l’importanza, e il come le pulsioni e i loro effetti sono percepiti, oltre a determinare un rimaneggiamento delle tracce psichiche ad esse correlate. Non c’è miglior medium degli occhi, dei volti, degli atti delle cinque fanciulle Lisbon protagoniste del film, per dar espressione alle pulsioni, mostrandoci come trascolorano e trascorrono nelle immagini acustiche e visive che producono nelle ragazze e quindi anche in noi spettatori, nel loro incarnato, sapientemente e dinamicamente ritratto, come nei modi delle loro relazioni con i giovani ammiratori attratti dall’autosufficienza e dal fascino carismatico di quelle ragazze unite in un impenetrabile cerchio magico, con la loro mimica e gestualità, le loro iniziative e ritrosie, nel mistero dei loro sguardi che non guardano ma aspettano che qualcosa un giorno si mostri, o rispecchiano il fluire dei loro affetti, delle emozioni, le loro contraddizioni.
Quanto a Kore, il film rende con estrema potenza l’irruzione del mito, che proviene, per così dire dalle stelle, da entità e luoghi che ci non sono per dirla alla maniera di Furio Jesi, sulla terra e nella storia, in una città moderna degli Usa –Grosse Point nel Michigan nel 1974, ventesimo secolo d.C.- in una famiglia a suo modo esemplare, in un tempo e in esistenze vissuti, scardinandole. Nella finzione filmica, per scendere nei dettagli, le tenere fanciulle di cui si parla sono dolcissime vite sacrificate alla dissennata e inarrestabile riproduzione di un mondo sociale senza orizzonti, in piena crisi, e all’illusione che siamo governati da sani principi. Queste ragazze sono vittime innocenti relegate per la più parte della loro giovane esistenza nella convivenza obbligata con genitori bigotti, inetti e assenti o invischianti, salvo la frequenza a scuola e rare e sempre meno facili uscite nel mondo cui anelano ricongiungersi, in una villetta unifamiliare di una anonima periferia cittadina, circondata da altre simili empietà architettoniche che sono uguali e monotone senza essere perfettamente uguali, trionfo di un camp tossico come i riti piccoloborghesi che vi si celebrano, ma ormai inavvertito come tale perché fattosi elemento costante del paesaggio cittadino. Si ergono come monumenti al nulla di cui sono diretta emanazione, animate da una loro maligna pervasività quali entità perturbanti che dietro un’aria familiare e rassicurante legata al loro carattere stereotipato e prevedibile nascondono il male, cioè una dottrina ispirata allo spegnimento dell’immaginazione e della vitalità, alla supinazione di fronte al più deteriore e dannoso senso comune, che agisce senza soste e sempre senza pietà, con sussiego e seriosità, in una tetra e orrenda mancanza di sense of humour. Nonostante il sole con la sua impavida e chiara luce, e l’aria innocente delle fronde di grandi alberi che la filtrano scossi dal vento sulla scena in cui una specie di ottimismo e di fiducia illuministica nella ragione vorrebbero essere protagonisti, si avverte invece una corrente indifferente o fredda e sinistra, come quella che potremmo immaginare spiri sulle strade ove la carità è sconosciuta, dove forze ignote irrompono e dettano legge. Qualcosa che è scritto in un oltre del mondo, in una extratemporalità e in una dimensione a noi sconosciuta, deve affermarsi. La fanciulla ineffabile, o detta pudica od orgiastica, Kore, è designata come vittima sacrificale. Vediamo nel verde attorno alle case alberi che si ammalano e dovranno essere tagliati, che fanno pensare a un presagio bisbigliato dalla natura della perdita che sta per colpire la madre di Kore, Demetra, nel film Mrs Lisbon. Ignara di tutto, la fanciulla meravigliosa, colei che eccede la parola e il senso umani, è voluta nel regno oscuro dei morti, perché il suo re, Ade, se ne è invaghito. E la morte attrae usando gli stessi argomenti della vita, l’amore ad esempio, utilizzandone la segreta energia come se fossero specchi che la captano e rifrangono per chiunque voglia impiegarla. La bellezza di un magnifico fiore azzurro in un prato verde ove danza con le compagne sarà il tranello escogitato da Ade per attrarre Kore nell’abisso ipogeo. E gli argomenti della vita sono potentemente presenti, in una specie di tragedia dell’eccesso, in questo film inesorabile e imparziale, tenero e freddo, che ora è poesia e ora è nudo referto psichiatrico. La vita vi appare audace e perfino temeraria quanto cauta e abile nel suo splendore, nell’incanto dell’adolescenza, fino al momento in cui è perduta, fino al momento in cui Kore mangia i semi del melograno che renderanno il suo viaggio agli Inferi senza ritorno, perché la spinta alla dissoluzione è divenuta bruscamente irresistibile, senza concedere ulteriori chances. C’è profusione di giovinezza, bellezza, scoperta del corpo, del fascino e dei sentimenti che fioriscono, confidenza completa e irriflessiva nella vita e nelle proprie possibilità; consapevolezza del potere misterioso che da ogni corpo, da ogni persona può sprigionarsi all’esterno in cerca degli altri, come vento in cui viaggiano i sortilegi e la calunnia, i buoni e cattivi spiriti. E c’è naturalmente la scoperta dell’attrazione sensuale, l’innocenza nel suo grandioso scandalo alla prova del tragico che aleggia sull’universo, il canto della vita che sconfina nella solitudine inattesa e nel silenzio abissale. Chi guarda il film deve con fatica recuperare una visione lucida dopo essersi abituato alle luci soffuse e ai tratti indistinti di una narrazione pervasa dal tempo – il nostro tempo – dalla dolcezza e dai segreti della fantasia giovanile, alla penombra di tenere camerette e delle automobili, prolungamento dell’Eden, in cui abita e viaggia il sogno. Lo spettatore deve essere forte per sostenere il subitaneo transito dall’idillio, dalla poesia che sa cogliere il prodigio nascosto in ogni inizio, all’orrore che cala sulla scena senza preavviso, a un caos in cui non vale più nessuna legge della vita, della storia, nel regno senza tempo del mito. Il mito di Kore spazza e marca la scena a partire dal suicidio della sorella più piccola, Cecilia, all’inizio del film. Sensibile come filo d’erba, sintonizzata con un mondo lontano e allogeno, che non trova corrispondenza in terra, Cecilia non riesce a sostenere la cattiveria e la stupidità, la volgarità e la ripetitività di cui è intessuta la vita sociale: durante una festicciola domestica organizzata in suo onore per superare un momento critico che l’ha portata a un significativo acting out in cui si è tagliata le vene, ma che è stato interpretato come una semplice richiesta di attenzione, quando arriva in casa ed è messo al centro della brigata festante un giovane vicino disabile, intorno al quale tutti si stringono ridendo ed esultando in una esplosione caotica quanto conformistica e perfida di energie, Cecilia repentinamente fugge da quella scena e dalla stessa vita. Le forze convertibili e ambipotenti nel senso sopra detto, la vita che si fa morte e viceversa, sono strettamente legate agli altri, viaggiano mediante cose e persone che sembrano comparse del dramma centrale qui contemplato, ma sono tuttavia elementi fondamentali per il compiersi dei fatti e del transito verso vita o morte: ragazzi e ragazze, alberi, oggetti, luce e buio, notte e giorno, il pulsare del tempo o la sua mancanza sporadica, musica, lo sguardo di sconosciuti e naturalmente la strada con i suoi spettacoli di varia umanità, le sue tentazioni e le grandi automobili americane, le mitiche Cadillac (mito nel mito), le pratiche e interminabili station wagon, le varie sedi in cui prospera nella sua assoluta castità l’eros impetuoso e sensuale dei giovani, come nella scena in cui Lux saltandogli al collo nella sua macchina trova in pochi istanti rubati alla disciplina familiare il modo di dire con balzi e baci e abbracci entusiastici tutta la sua appena scoperta passione al suo ormai stregato e attonito principe azzurro, il bel Trip Fontaine. In questa cornice ci avvince, dispersa nelle luci e nei colori e nelle decisioni chiaroveggenti del montaggio, nella profetica geometria delle inquadrature, la magia della seduzione, la promessa delle relazioni, o l’assoluta libertà da queste, e non ci sfugge il cammino inapparente di ciò che non ha rappresentazione nel linguaggio, e il compiersi del mito, quella cosa che ormai cominciamo a comprendere, che viene da un mondo fuori dalla storia per modificare la storia, ed è la summa dei principi per tutti e per ogni elemento e accadimento nell’Universo.
Vi sarebbe dunque identità, stando a quel che sembra suggerire il film, e non una specificità esclusiva, dei fattori responsabili della vita o della morte. È lo sguardo (gli specchi e il loro posizionamento rispetto agli oggetti) che fa la differenza. È il sogno che si realizza o viene infranto a decidere l’uno o l’altro corso degli eventi (come accade a Lux dopo una notte d’amore, abbandonata dopo il trionfale grande ballo sociale da Trip Fontaine, l’avvenente narciso – un fiore di narciso tradisce Kore nel mito – che pure era pazzo di lei). Tutti noi siamo morenti che vogliono vivere e difatti vivono, o viventi che vogliono morire, e difatti moriranno o muoiono ancor prima di morire come esseri biologici perché non riescono più a giocare con partecipazione e intensità, senza svalutare il gioco come pantomima sterile di una pretesa vera realtà. Basta sbagliare gli occhiali perché un bacio di adolescente si trasformi in estremo addio, perché si passi dalla vita alla morte. Peccato che oltre quel certo limite non sia possibile fare la strada al contrario, e che la morte ci raggeli in una finale verità. Lo sguardo ammaliante della ragazza Lux, alla fine del film, preso per lusinghiera promessa d’amore dai ragazzi invaghiti di lei e delle sorelle (e naturalmente dagli spettatori), e desiderosi di aiutarle a scappare dalla loro prigione domestica, nasconde in realtà la decisione – che intuiamo e respingiamo con tutte le forze ma inutilmente – già presa e irrevocabile del suicidio, che scopriremo condivisa dalle altre sorelle in terribili incalzanti sequenze d’immagini. Come spettatori siamo sconvolti dalla rapidità e dal salto emozionale, da quel reale che è frattura di senso, rivelazione improvvisa e sorprendente, subitaneo rovesciamento del sogno nell’incubo, dalla potenza del mito.
Ci si può fermare in tempo, restare al di qua della linea di non ritorno dispiegando virtù e talenti umani, solo a condizione di sapere di lottare contro un destino che deve compiersi, ad esempio secondo la parola di un mito. Si può proteggere Kore, e controllare la propria angoscia attraverso il conforto della conoscenza, intendendo il pericolo che ella corre, la sua natura sovrumana, comprendendo l’attrazione che ella esercita sulle potenze ipogee. Si può vincere la battaglia per la vita, purché la spinta al rigore, sulla scorta del perbenismo o di sensi di colpa automatizzati, verso una malintesa perfezione, verso ciò che alla fine è oltraggio anziché omaggio alla legge e alle regole sociali, sia riconosciuta nella sua irriducibile piegatura verso la morte, e quindi superata. Un esempio di sadica quanto cieca e ottusa inflessibilità mortifera è la terrificante scena del rogo cui la madre – sempre più orribilmente vittima che carnefice – nel suo furore bigotto e spietato condanna senza remissione, nonostante la figlia implori di salvare i simboli e la voce stessa della sua età e del suo splendore, i dischi della giovanissima Lux colpevole solo di essersi abbandonata alle dolcezze di un incontro amoroso, e per di più in seguito disillusa terribilmente e ferita nell’intimo dall’impensabile abbandono subito da parte dell’amante. Un rogo interrotto e rinviato perché dal camino il vinile dei dischi nella combustione fa uscire un fumo maleodorante, nero e denso: il mondo-inferno avvolto da caligine e veleni. Un abbandono dell’amante che non poteva non esserci, giacché come si diceva è proprio un bellissimo narciso a tradire Kore nascondendo la voragine che l’inghiottirà trascinandola presso Ade che pazzamente la desidera, nel regno dei morti.
Nonostante tutto nel film non è in discussione in verità la famiglia, come potrebbe sembrare. Sarebbe una lettura troppo scontata, un facile sociologismo da respingere, che comunque si fa strada senza una vera ragione per una specie di condizionamento ancora operante in noi. No, tuttavia, non è in discussione lo smascheramento delle finzioni e ipocrisie della realtà, come potrebbe suggerire una lettura a mio parere superficiale dei fatti. O per lo meno non è solo messa in questione l’assurdità della vita e degli ordinamenti sociali del mondo rappresentato nel film. Né tanto meno si vuole colpevolizzare i genitori, anch’essi vittime di un gioco più grande di loro. La maschera che viene strappata da Sofia Coppola non è quella che copre perbenismo, moralismo, religiosità scaduta nel bigottismo e nella stupidità, e nemmeno nella totale assenza di empatia e comunicazione vera fra la coppia dei genitori e le cinque figlie. La maschera che viene strappata dai volti e mostrata a tutti noi non nasconde nulla, la maschera è quella funeraria che anticamente costituiva la base per un calco del volto del morto, ne riproduceva fedelmente le fattezze, e ne catturava l’imago, ovvero una specie di schema parentale a trasmissione psichica transgenerazionale per orientare rapporti e valori. La maschera dei morti in vita per riprodurre, conservare e mostrare il volto di chi nella sua generazione immersa nel fluire delle generazioni non ha saputo proteggere e celebrare la vita, di chi ha fatto trionfare la morte, la rinuncia, l’inibizione. Accade inoltre, e l’associazione di questi due interventi mi sembra di sconcertante originalità e appropriatezza, che si evidenzi, oltre al volto dei pavidi e dei vinti, l’abisso del reale, l’insensatezza delle cose, l’estraneità fa noi e il cosmo in cui siamo stati gettati. Il senso di estraneità e la perdita o la mancata conquista di una propria originale consistenza, insieme a un immedicabile horror vacui, ci spinge ad affari e commerci talora fallimentari col mondo –ideologie assolutizzate, idealizzazioni incongrue e mortifere, affiliazioni totalizzanti, consociazioni turbinose o dettate da impulsi tenaci con partner improbabili e di soverchiante e minuzioso potere, di malcelata perfidia e disumanità – queste sì cattive compagnie – per usare le parole del moralismo, alla ricerca di una familiarità, di un‘appartenenza, di una riduzione della nostra angoscia e solitudine nell’identificazione o nella, più creativa, somiglianza.
Le ragazze Lisbon – Cecilia, Lux, Bonnie, Mary, e Therese, nell’ordine crescente d’età dai 13 ai 17 anni – sono moderna e plurima – una per tutte e tutte per una, deterritorializzata ed esotizzata – incarnazione di Kore e del suo mito, centrata e dominata dalla sospensione nella sfera sovrumana, e sul piano sociale sono un’icona, che risplende di fulgida luce, del mistero della fanciullezza e adolescenza, della fecondità e della femminilità; ma sono anche gentili e amabili, per quanto controverse ed enigmatiche, creature di questo mondo gioiosamente e follemente piene di vita, che cercano di riferirsi nonostante tutto ai genitori, li riconoscono, e vogliono andare incontro alla vita. Cosa che richiede coraggio, perché per ogni sorridente dono degli altri, vi è come tangibile corrispettivo, e non solo come rappresentazione astratta, l’ambiguità e l’infedeltà, il dispotismo del desiderio.
Padre e madre, irresponsabili e incolpevoli, sono sagome vuote, incapaci di percezione della realtà, e di un pensiero vivo, votati acriticamente al forsennato compimento di un preteso bene di cui nulla sanno, e che li espone ai peggiori errori. Le loro iniziative, i loro dialoghi, le loro personalità, li collocano, con tutta la loro mediocrità e inadeguatezza, nella situazione di un equilibrista che cammina su un filo a grande altezza, e con solo l’aiuto di un ombrellino, in bilico fra giusta preoccupazione genitoriale e scempiaggine: strane stolide creature che esprimono ottimismo mentre incombe la tragedia, e offrono finte democratiche aperture verso l’esperienza o incomprensibili e inutili punizioni a figlie che ormai vogliono solo scappare, in cerca di qualcosa di autentico e libero, ma prima di tutto di loro stesse. I genitori, dicevo, per quanto la narrazione senza infingimenti mostri anche la loro insipienza, sono in realtà incolpevoli. Quel che mi sembra che Sofia Coppola cerchi di mostrare è l’assurdità di un mondo che è per tutti, anche per i “Lisbon”, per i genitori, un inferno, un caos in cui ognuno, nella diversità della sua posizione, e al di là di ogni apparente illusoria certezza, nella precarietà che non risparmia chi ha maggior potere e autorità, ognuno è se capita impotente, confuso, disorientato, sensibile al richiamo autoritario e dogmatico che gli suggerisca un’ idea di forza e ragione, e gli dia la speranza di aver fatto il proprio dovere. Come le giovani cinque figlie, anche i genitori sono chiusi nella loro stanza piena di cimeli, di fotografie, di nostalgie e rimpianti, e non ci sarà per loro alcun rimedio culturale al dolore. Mentre fuori, nel mondo e di là da quel mondo, i poteri in conflitto si impongono sovrani, e senza che si possa trovare, per i genitori come vittime, una rigenerazione nel sogno, un ristoro simbolico.
Sono scarse le difese e le compensazioni alla portata dei personaggi adulti del film dispersi in quella periferia industriale, in quel desertico paesaggio americano senza cow boys, negato agli affetti e alle significazioni autentiche. Essi non hanno a disposizione nella loro cultura la possibilità di far ricorso al mito per sostenere ciò che si estende ai confini della razionalità e del sentire abituali.
Privi della possibilità di vedere nel comportamento delle figlie qualcosa che risponde a istanze non ordinarie, a ragioni misteriose e superiori, e talora a un disagio personale che rispecchia il caos cosmico, in cui riconoscere l’azione di fattori sconosciuti ed estranei, fuori dal loro controllo, che governano vita e morte, e si possono solo accettare vigilando sui loro effetti, per proteggere le figlie, i genitori Lisbon sono in un vicolo cieco, e di fronte alla tragedia finale varcano i confini della follia.
Il mito non è credenza magica in forze soprannaturali, e non vi è in esso nulla che determini, ma invece tutto per offrire agli uomini una narrazione delle origini e delle determinazioni, una sponda di pensabilità, di umanizzazione dell’ignoto. Il mito si dà come narrazione, sempre passibile di modifiche e aggiustamenti, per avvicinarsi senza sgomento e disperazione all’ineffabile, al sublime. E procede aprendo l’orizzonte a osservazione, domande, riflessioni, comparazioni, connessioni, rivelazioni e intuizioni. Aiutando a scoprire significati nuovi per cose vecchie o abituali, facendo sì che apriamo gli occhi oltre fumosità e camuffamenti, rompendo le inibizioni e l’abitudine, superando il pensiero ripetitivo. Le macchinazioni della macchina mitologica si articolano necessariamente con l’analisi dei fenomeni e le teorie filosofiche, scientifiche, letterarie, artistiche, e le visioni personali o di gruppo, che ne conseguono, contribuendo anche alla costruzione di nuova conoscenza psicologica, psicoanalitica, spirituale. È attraverso il mito che si può dare una sostenibilità e un senso a un lutto così grande come la perdita di Kore, ma vi è di più. Il mito è un salto di qualità compiuto dalla psiche, è la possibilità di contemplare nel pensiero, di immaginare e comprendere cose che sono ai confini dell’esperienza e della conoscenza umane, e oltre, in cose che diversamente resterebbero non conoscibili.
Il mito, che fu la prima parola, ancora coincidente con l‘essere, sembra scaturire dall’attrito fra l’uomo e il reale. E dal fatto che il reale è elemento strutturale del mondo, sfuggito al lavoro della cultura e del linguaggio, che spinge per trovare significazione, trae la sua caratteristica di pensiero sempre nuovo.
Articolo veramente mirabile
Una lettura anch’essa rapinosa
Da Wikipedia:
The inspiration for the plot of the book came to Jeffrey Eugenides when his nephew’s teenage babysitter told him that she and her sisters had planned to commit suicide. When Eugenides asked why, the babysitter only replied, “we were under a lot of pressure.” Eugenides talks about this inspiration in his YouTube interview with The Paris Review
Eugenides told 3am Magazine: “I think that if my name hadn’t been Eugenides, people wouldn’t have called the narrator a Greek chorus”
Several writers have also noted the similarities between The Virgin Suicides and the 1945 play The House of Bernarda Alba by Federico García Lorca
L’articolo è molto interessante, il film assai bello. Ma nemmeno un cenno al romanzo di Eugenides, immagino con intenzione. Che cosa mi sfugge?
Gentile Alberto Zoina, non le sfugge alcunché. È sfuggito a me, per dimenticanza, di scrivere che il film non si ispira solo a un fatto reale, e che il suo soggetto deriva dall’omonimo romanzo di Jeffrey Eugenides del 1993. Grazie per il suo apprezzamento.
Un film certo interessante che non ho visto. Dopo avere letto la trama, difficile e’ rispondete per la complessità della natura umana. Da nato all’inizio della seconda guerra mondiale e avendo per passione e volontà di condivisione della natura dell’uomo consiglio, umilmente, di leggere il capolavoro di Camus “ la peste “. Non ne racconterò la trama, ma citerò, a memoria la frase che può riassumere la filosofia del protagonista, il Dott. Rieux , che è anche la mia; “ Il mondo è senza senso, io cerco di dargliene un po “. Se non lo avete letto, fatelo, ne vale veramente la pena, anche per penetrare la complessità del film che si è rappresentato.