di Italo Testa
[Esce oggi per Industria&Letteratura la nuova edizione de La divisione della gioia di Italo Testa, in una versione rivista e aumentata, arricchita da testi inediti. Il libro inaugura la collana Reloaded, un archivio possibile che intende riproporre testi antologici o intere raccolte di autori significativi, che hanno pubblicato negli ultimi 20 anni e i cui libri sono ormai fuori catalogo, andando così incontro all’esigenza, forte soprattutto nelle nuove generazioni, di poter accedere a opere che altrimenti sarebbero irreperibili. Presentiamo qui quattro testi dal libro]
transit marghera
ma le pale meccaniche
in campo azzurro
ci attendono al mattino
lucenti nell’aria
sopra marghera
vegliano sugli alberi
vigili si distendono
tra le cisterne
addossate all’acqua
dominano il cuore
tremante ancora
nello sguardo dell’alba
dai platani svettanti
cadono foglie
sui tetti ondulati
bianchi i gas nell’azzurro
si alzano appena
sui vagoni cisterna
fermi al binario
dietro la fincantieri
si accende il cielo
tra le torri e i silos
di un rosa acido
per noi stupefatti
oggi come ieri
e assonnati nel transito.
skyjuice
guarda, non resta che ritrarsi
a questo punto
la topografia è incerta,
l’occhio del giorno ci squadra feroce,
non lascia che l’ombra
si stacchi dalla pelle,
e poi quelle due sagome, sì, quelle
trascorrono su quadranti ignari
nel polverio
di una geografia remota:
quelle, e non altre,
il fruscio distante dei loro passi
e quest’arsura inflessibile
non sarà benedetta
dal succo del cielo
un’altra volta, ancora
solo lampi inconcludenti dal mare:
guarda, è facile testimoniare
con la sola presenza
dicendo che sì, noi siamo quei due:
ma poi per mille anni condannati
e i muri lo sapranno
il cielo lo saprà
il mare avrà memoria,
la massa scura, profonda, enorme
dell’acqua ormai fusa all’orizzonte:
eppure tremi, e non fai finta,
godi davvero a occhi rovesciati
verso non so che cielo o sfondo bianco
di coste smaltate nella sabbia,
di acque distanti, gelide e infeconde,
e siamo davvero lì
e lo faremo ancora
di nuovo la presa,
la saldatura delle parti,
di nuovo la confluenza ignota,
e non avremo imparato niente
su queste rive eterne
la stessa onda è nuova
e l’altra luce non ci sfiora.
nella luce che invade
o nella nebbia che avanza
questa sagoma si sbianca,
si dissolve all’oscuro
di quanto attende, al volo
d’una notte nel rigiro
del sangue, con la costanza
di un’opera di buio
di un abbandono, muto,
al sonno, alla tua presa
nel chiarore della stanza.
questi giorni
o il volto che un mattino chiaro
trattiene nell’aria, il profilo
netto, lo sguardo aperto al domani,
al vano dove attendi assorta,
la testa all’indietro, il gomito
appoggiato con noncuranza
e ti muovi, provi a mostrarti,
a dire che è qui, in questo istante
che siamo chiamati a esistere,
e non importa se il bordo scuro
ci profila, se le tempie pulsano
quando il buio inghiotte l’arcata
degli occhi, se il taglio delle labbra
scompare nel nero indistinto:
e in una stanza anonima, spoglia,
scoprire il petto, sciogliere il fianco
e lasciarsi toccare a fondo
il ventre, i glutei sodi, il sesso,
offrire tutto a uno sconosciuto
nel giorno, nel luogo convenuto
essere i primi a dimenticare
e come se niente fosse alzarsi,
rivestirsi, uscire dalla stanza
a occhi chiusi, senza fiatare
o con le mani contratte stare
fermi sulla soglia, imbambolati
a battere il tempo sulla porta,
a farsi accecare dai riflessi
delle luci in fuga sui vetri,
a contemplare in alto sulle strade
gli specchi aerei delle facciate:
eppure ero lì, mi hai visto, anch’io
appoggiato al muro abbandonavo
la presa, tornavo nel brusio
di fondo della strada e cosa
tra cose mi lasciavo essere
tranquillamente, senza memoria,
e allora accettavo tutto
aprivo la portiera, salivo
sull’auto bianca lanciata in corsa
per la distesa dei campi d’acqua
tra i rami del delta scomparivo:
ma visti dall’alto, su una curva
o a un incrocio, nel fermo immagine
di un passaggio a livello dismesso,
dove siamo diretti in fuga
su una striscia d’asfalto al tramonto,
se un pomeriggio grigio d’inverno
nell’alea di un ponte di barche
possiamo sorprendere tra i fari
il volo lento di un airone,
se inquadrati a mezzobusto
vicino a una chiusa o in un capanno
abbandonato ci stringiamo,
firmiamo la resa in un campo
sdraiati sulla sponda di un lago,
e addossando l’ansia sul muro
lasciamo una traccia, una macchia
bianca sul tuo collo di pelliccia:
poi scendere, fermare gli occhi
senza voltarsi, allontanarsi,
contare i passi in silenzio:
è stato così, nel pomeriggio,
il telefono muto e l’amore,
l’intimità protetta dall’argine
e la precisa geometria dei cavi,
è stato così e non sembra vero,
sotto la campata di un ponte
con l’ombra che ti svuotava gli occhi:
e anche ora che tutto è calmo
ti rivedo seduta sul letto,
la schiena dritta, ti sento dire
a voce bassa, al vento che entra
dalla finestra aperta che altro
non c’è, altro non resta, solo questo,
solo una sedia nella stanza:
e basta aspettare in posizione
raccolta e non farsi sorprendere
dall’ombra fredda tra i capelli,
basta fare spazio a questa luce,
farsi prendere nella morsura
della luce diffusa sui tetti,
sulle pareti enormi, incombenti
delle fabbriche addormentate
nelle trasparenze del mattino,
basta non guardare, esser ciechi,
o aspettare ancora sino a sera
e non muoversi sino a quando
l’armatura dei pilastri indora
la sopraelevata nella nebbia:
e allora non saremo più lì,
i quartieri scomparsi, annullati,
in mezzo a un grande spazio d’erbe,
di mattoni e lamiere ondulate
non rimarrà niente, solo campi
azzerati sotto un manto di neve:
anche noi saremo nudi e inermi
con la pelle a contatto del suolo,
i capezzoli duri e rigonfi,
le gambe in aria spalancate,
saremo corpi in attesa, tronchi
riversi, distesi tra le cose:
allora per strade sterminate
rotolando un passo dopo l’altro
andremo leggeri e senza peso
sul nastro imbiancato della polvere,
sino a raggiungere sulle alture
le grandi case abbandonate
tagliate a mezzacosta dall’ombra,
e trovare per caso un giorno
le radure giacenti nella luce,
raschiare le figure e i volti,
abbandonarsi, lasciarsi andare
tra le erbe matte sul terreno
esser così, per sempre accolti,
confusi in quel brillio indistinto: