di Sergio Manghi
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti
[A pochi giorni dall’uscita in libreria di Clima diseguale (Unicopli 2024, a cura di Emanuele Leonardi e Sergio Manghi), proponiamo un estratto dal volume, a firma di Sergio Manghi].
Fraternità terrestri*
Non vi sarà alcuna nuova Terra, questa era l’unica. Nella sua fregola, sopravvive alla sua fine tormentosa. Custodire? Chi può custodirla? Se uno fosse tutta la Terra, se il suo cuore fosse proprio la Terra, potrebbe custodirla. In tal caso essa assumerebbe la forma del suo cuore. Città, monti, fiumi, avrebbero su di essa un altro posto. Gli uomini saprebbero che la Terra è divenuta proprio un cuore e che batterà. È il battito che essi aspettano. È il battito in cui essi sperano. È il battito della Terra divenuta una cosa sola.
Elias Canetti, 1973[1]
Per estetico intendo sensibile alla trama che connette.
Gregory Bateson, 1979[2]
Questa era l’unica
Le parole in epigrafe di Canetti sono del 1946. Appena chiuso il conflitto più sanguinoso della storia umana. Appena comparso sulla Terra lo spettro inaudito della incombente catastrofe nucleare. Non ancora nato quell’allarme per la catastrofe eco-climatica planetaria, avviatosi solo nei successivi anni Sessanta, che l’ispirato appello canettiano richiama al nostro sguardo di oggi. Sguardo spaesato, da «occidentale medio» (Bateson, 1972, trad. it. p. 366) scosso alle radici nella propria orgogliosa credenza di essere in controllo dei propri ambienti, umani e non umani. Ovvero, nella propria abituale noncuranza estetica verso la più vasta trama connettiva di cui siamo parte, insieme a innumerevoli altre: parte “danzante” di una più vasta «danza di parti interagenti» (Bateson, 1979, trad. it. p. 279; cfr. Manghi, 2004, 2023a).
In contemporanea con gli appunti canettiani di quegli anni, tra gli studiosi del Bulletin of the Atomic Scientists, fondato a Chicago nel 1945 da Albert Einstein, Robert Oppenheimer, Eugene Rabinovitch e altri, andava maturando quell’urgenza di allertare l’opinione pubblica mondiale sulla possibile catastrofe nucleare, che di lì a poco si sarebbe tradotta nella nota immagine dell’Orologio dell’Apocalisse [Doomsday Clock].
L’immagine, ideata dall’artista americana Martyl Langsdorf, moglie di un ricercatore che aveva partecipato al Progetto Manhattan, compare dal giugno 1947 sulla copertina del Bulletin. Le lancette dell’Orologio indicano da allora, riaggiornata più volte, la distanza stimata dall’ipotetica “mezzanotte fatale”. Le turbolenze eco-climatiche planetarie sono incluse tra le variabili influenti sul movimento delle lancette soltanto dal 2007. Ma da allora, misurate con sempre maggior precisione dall’Ipcc (l’Intergovernmental Panel on Climate Change promosso dall’Onu), ne fanno parte a pieno titolo.
Dopo la pandemia del Covid-19 e il cruento riaffacciarsi delle armi in seno all’Europa, fantasmi nucleari al seguito, le lancette, fissate in origine a meno sette minuti dalla paventata ora X, segnano meno novanta secondi.
Come a ribadire: Non vi sarà alcuna nuova Terra, questa era l’unica.
Antiquati e obsoleti
L’evocazione di scenari apocalittici, da fine del mondo, che l’“avanzata” sensibilità modernista prometteva di ridurre a mero residuo di “arretrate” sensibilità religioso-sacrali, è ormai esito scontato e atteso, paradossalmente, degli odierni rapporti scientifici più accurati sullo stato delle cose terrestri. Esito inquietante, riassunto nell’Orologio dell’Apocalisse, che segnala come ad essere “arretrati” siamo ormai noi moderni. Ovvero antiquati, come si esprimeva nel 1956 Günter Anders, riflettendo sull’abisso aperto nelle nostre sensibilità comuni dalla potenza sopra-umana dell’evento nucleare: «nel sentire», scriveva, «siamo inferiori a noi stessi» (Anders, 1956, trad. it. p. 253). Non all’altezza, cioè, con l’immaginazione, delle nostre stesse opere materiali e dei loro effetti sconvolgenti – che pure sappiamo misurare con tanta precisione.
Con parole quasi identiche, e in risonanza non solo lessicale, in un Rapporto inviato ai colleghi Regents della California University, Gregory Bateson definiva una ventina d’anni dopo «antiquati» e «obsoleti», testualmente, i presupposti più scontati dell’educazione moderno-occidentale: ovvero «il dualismo cartesiano che separa la “mente” dalla “materia”» e il primato conoscitivo accordato ai linguaggi quantitativo-fisicalisti, fondato su di un implicito «assunto antiestetico» (1979, trad. it. p. 285) – ovvero: insensibile alle trame “danzanti” del vivente.
Situando la mente umana in un luogo ideale separato dalla concreta trama connettiva terrestre – in sorvolo e in controllo, per così dire, da fuori e dall’alto –, tali presupposti hanno condotto all’impoverimento delle nostre capacità estetiche di connessione – da dentro e dal basso – con quella trama, e con il nostro stesso esserne parte (“danzante”).
Impoverimento oggi mascherato sotto le vesti sgargianti, in apparenza di segno opposto, della loro esaltazione euforica, sostenuta e promossa dalla mercatizzazione sempre più incalzante e disinibita dell’esperienza sensoriale, emozionale, desiderante, ridotta però a esperienza soggettiva individuale, privato-interiore. Oscurata nella sua natura intrisecamente relazionale, transindividuale, sociale (Dumouchel, 1995; Manghi, 2008). Nel bene come nel male, etico-politica. Implicata momento per momento nel discernimento del giusto e dell’ingiusto (Pulcini, 2020).
Il dislivello angoscioso tra le capacità umane di produzione e quelle di immaginazione, che già dalla metà del secolo scorso suscitava sgomento, a maggior ragione ci scuote in un tempo come il nostro, nel quale la massa globale dei prodotti dell’artificio umano, con una accelerazione ormai fuori controllo (Eriksen, 2016), ha superato in peso la massa dei viventi (Elhacham et al., 2020).
Antiquati e obsoleti, i presupposti antiestetici ai quali andiamo addestrando i nostri modi di sentire, fare e immaginare, appaiono tanto adatti a promuovere la riproduzione ulteriore (e l’attenta misurazione) delle tendenze terrestri prevalenti, quanto inadatti a dar vita a immagini unitarie e prospettiche all’altezza di tali drammatiche tendenze. Immagini paragonabili per densità e pregnanza visionaria a quelle religioso-sacrali del passato, come fu nel primo umanesimo, che possano aiutare ciascuna e ciascuno di noi a sentirsi/sapersi tutta la Terra. E a situarsi così operativamente nel vivo delle vorticose trame terrestri in atto nel presente. In questo presente, nel quale una cosa sola, la Terra, lo è divenuta per davvero, nella viva esperienza di tutte e tutti noi.
Terra divenuta una cosa sola
Una cosa sola lo è divenuta per davvero, la Terra, o come diremo qui più da vicino, con Latour, Terra (nome proprio femminile, equivalente della “sua” Gaia [Latour, 2015, 2021]), nella surreale primavera “pandemica” del 2020. Quando «un minuscolo corpo appena vivente ha unito la carne di tutti gli esseri del pianeta, non solo umani» (Coccia, 2020, trad. it. p. 6). Causando il primo trauma collettivo planetario della lunga storia della specie chiamata da Linneo sapiens sapiens, e felicemente ribattezzata da Edgar Morin sapiens/demens: e insieme faber/ludens, prosaicus/poeticus, œconomicus/sacer (Morin, 1973, 2001; Manghi, 2009).
Terra è divenuta una cosa sola nel frenetico crogiolo di sciami globali iperveloci, unitamente ecologici, comunicativi, emozionali, politici, tecnoeconomici e tecnoscientifici, che hanno coinvolto per la prima volta in simultanea, «a fior di pelle» (Pakman, 2021), la totalità dei sapiens/demens presenti in essa.
Non è la Terra idealizzata dal naturalismo scientista come materia di sorvolo mentale a distanza. Né quella idealizzata come bella e perduta da certo naturalismo ecologista. Ma quella reale, concreta e presente. Terra al tempo dell’Antropocene. O dello Chthulucene, come preferisce Donna Haraway (2016), evocando l’indole generativa del suo sottosuolo (ctonio=sotterraneo). Terra insieme bella e terribile. Insieme dato e artificio: com’essa è del resto fin dalle origini della vita, per l’opera inesausta di innumerevoli creature, diversamente da com’è raffigurata nei richiamati naturalismi ecologisti e scientisti, convergenti nel dissociare natura e artificio, primitivo e inventato.
Se noi umani industrializzati condividiamo qualcosa con Gaia – scrive Latour –, non è la natura, ma l’artificio, la capacità di inventare […]. Terra non è verde, non è primitiva, non è intatta, non è “naturale”, ma completamente artificiale. Ci sentiamo vibrare con lei in città come in campagna, in un laboratorio come nella giungla. (2021, trad. it. p. 150)
Questa Terra aveva iniziato a divenirlo, una cosa sola, sulle rotte coloniali di cinque secoli fa. Con la conquista dei suoi oceani da parte di giovani nazioni in lotta avventurosa, e sanguinosa, tra loro e coi popoli duramente sottomessi. Segnando l’avvio, con l’immagine geometrica emergente della Terra-Mondo – Mappa Mundi: da fuori e dall’alto –, di una radicale metamorfosi dell’umano e del suo posto in Terra.
Nel corso del Novecento tale metamorfosi ha coinvolto rapidamente quote crescenti di umani, con una decisa accelerazione impressa dalla comparsa dell’incubo nucleare, dal successivo ordine atomico bipolare, e soprattutto, nel passaggio di secolo, dai vorticosi processi di mondializzazione seguiti al crollo di tale ordine. Processi animati da una nuova ripartenza capitalistica, proiettata sulle ali della rivoluzione digitale verso la proceduralizzazione organizzativa capillare, a crescente carica «disruttiva» (Stiegler, 2016), di ogni interazione vitale: dai flussi economico-finanziari, alle pratiche comunicative, amministrative, educative e sociosanitarie, fino ai nessi più intimi del nostro quotidiano interagire, intersentire, immaginare, e all’insieme degli ecosistemi planetari.
Ma una cosa sola per davvero, nella viva esperienza sensibile di tutti i sapiens/demens presenti in essa, sebbene in forme largamente inconsce, Terra lo è divenuta soltanto in questi primi anni Venti del xxi secolo, per una fibrillazione ecologica improvvisa nella sua inesausta danza di parti interagenti.
Il battito che (non) aspettavamo
La pandemia del Covid-19, potremmo dire echeggiando Marcel Mauss, è il primo fatto ecopolitico totale di scala planetaria della storia umana (Manghi, 2023b). Prima esperienza universale di quella che è stata chiamata «supersocietà», sempre più automatizzata, e fittamente intrecciata ai cicli viventi planetari (Giaccardi, Magatti, 2023). Umanità unificata, secondo la bella formula moriniana, in una sola comunità di destino terrestre (Morin, Kern, 1993). Composta di umani e non umani, viventi e non viventi. Ivi compresa quella massa enorme di opere umane la cui presenza attiva ha condotto, secondo la nota formula latouriana, alla fine del Vecchio Regime Climatico, durato gli 11.000 anni di Olocene, e al sorgere di un Nuovo Regime, marcato dalla instabilità climatica permanente (Latour, 2015).
È di questa Terra, fattasi oggi una cosa sola, che tutti gli umani presenti in essa hanno sentito il battito. Se sia anche il battito che essi aspettavano – ancorché inconsciamente, come tocca alla poesia farci sospettare: «Qualcosa in noi ha voluto spalancare. / Forse, non so» (Gualtieri, 2020) –, lo lasceremo qui in sospeso. A interrogarci dallo sfondo.
Di certo, non è il battito di quella Nuova Terra che i moderni ideali illuministi si aspettavano di suscitare nel cuore dell’umanità. È scaturito invece da un inatteso e minaccioso sussulto – da dentro e dal basso – di Terra.
Né ha esteso – non in prevalenza – fraternità, unioni e solidarietà, quanto chiusure, conflitti e disparità: di classe, di genere, eco-geografiche (Berchet, Bijlholt, Ando, 2023). Accelerando quella già avviata secessione delle élite (Rosanvallon, 2011), con annessa esclusione sacrificale[3] di masse di umani e non umani, databile dai processi di globalizzazione degli anni Novanta, che con l’evidenza crescente del dissesto climatico planetario ha compiuto un netto, e scandaloso, balzo in avanti.
Tuttavia, diversamente da qualsivoglia battito idealmente prefigurato o auspicato, questo, sopraggiunto senza che lo sentissimo arrivare, è ormai storia, sensibilmente percepita. Memoria comune. Comunque sia sopraggiunto, è il primo nucleo sensibile di un passato terrestre comune, che ci troviamo fra le mani.
E poiché non si dà futuro se non come sviluppo di possibilità messe al mondo dal passato – un passato ineludibile, e in questo senso destinale –, quello che ci troviamo fra le mani è anche il primo nucleo attivo del nostro futuro terrestre comune. Un futuro entrato in noi, per trasformarsi in noi, prima ancora di accadere, echeggiando qui la felice formula rilkiana (Rilke, 1929, trad. it. p. 55).
Futuro neonato, quanto mai fragile e incerto. Avvolto da ombre minacciose, insieme geo-climatiche e politico-sociali – siccità e secessione, uragani, povertà e guerre, tra potenze e insieme tra ansiose impotenze (Virno, 2023). Segnato dal sentimento del non-più, e non dall’attesa “modernista” dell’utopico non-ancora, poiché avvertiamo sempre più distintamente che non vi sarà alcuna nuova Terra. Ma proprio per questo, per questa sua radicalità rivelatrice – “apocalittica” –, portatore della sfida ecopolitica, per l’immaginario dell’occidentale medio del tutto inedita, a saper essere di questa Terra (Latour, 2020).
Oasi di privilegio, oasi di fraternità
Quello che ci troviamo oggi fra le mani, già in atto, a capo dei lunghi processi di mondializzazione modernizzatrice che l’hanno preceduto e predisposto, è un futuro destinale comune che siamo chiamati a saper anzitutto riconoscere, oppure disconoscere, nella sua irriducibile, e spaesante, unicità.
Per l’idealtipo dell’occidentale medio, paragonato da Bateson alla figura paradossale dell’alcolista, che insiste a credersi orgogliosamente in controllo dei propri ambienti e dei propri atti, a dispetto delle tante prove a contrario, una siffatta alternativa è insostenibile. Esso non può che disconoscerla, riconfermando le usate abitudini d’azione e di pensiero dualistiche, speciste e coloniali. Magari promettendo di controllarsi e controllare meglio, o per rimanere alla metafora alcolica, di bere un po’ meno – in modo più “ecologicamente sostenibile”.
È la via imboccata dalle élite secessioniste del pianeta. Sempre meno orientate, tuttavia, all’ormai obsoleta ideologia modernista del controllo in nome dell’umanità, e sempre più verso il “ripiego” neomodernista di rendere “sostenibili”, in esclusiva, i luoghi di Terra più confortevoli. Facendone oasi di privilegio protette da muri, immunità e armamenti reali e virtuali – poco importa quanto e se vincolate a democratici principi di uguaglianza e libertà. Apprestandosi a fare di ogni nuova turbolenza eco-climatica – pandemie incluse – una nuova opportunità economica: profitti via via più green, potenza tecnologica incrementale, subordinazione di moltitudini di viventi al passo astratto e precarizzante dell’algoritmo, consumo emozionale compensatorio, post-umanamente “aumentato”, dell’attimo fuggente (flash riassuntivo: «sette maledetti secondi per decidere se è odio o amore», recita la pubblicità di un’ipermoderna automobile a basse emissioni, assumendo come testimonial eccellente di tale presunta verità psicologica universale, testualmente, «la Scienza»).
Riconoscere invece il futuro terrestre comune che è già in atto, prevedibilmente imprevedibile, è imboccare una via ancora tutta da tracciare, e tornare a ritracciare, come quella del caminante di Antonio Machado. Da comporre e ricomporre, istituire e reistituire, collettivamente. In ascolto, come recita la Laudato si’, del «grido della terra» e del «grido dei poveri» (papa Francesco, 2020, 49). In conflitto, fortemente impari, oltre che ancora largamente da pensare, e tuttavia ineludibile, con le tendenze secessioniste egemoni sopra ricordate.
Riconoscere questo futuro-in-atto richiede di saperlo accogliere con cura, luogo per luogo, momento per momento, nella sua scoperta fragilità. Dotandolo di un immaginario fraterno – fraterno/sororale – all’altezza della rivelazione elementare che esso ci porta fra le mani: la rivelazione che ciascuna e ciascuno di noi è Terra – questa Terra. Che non siamo mai stati, né mai saremo, solo-umani, solo-moderni, solo-individui, come ci siamo pensati a lungo – con le implicazioni distruttive ormai ben note. Che siamo invece, pur nella nostra peculiare natura loquace, viventi tra viventi. Artefici sapiens/demens tra artefici viventi di varia e molteplice abilità – virus inclusi. Danzatori tra danzatori di più vaste danze transindividuali, umane e non umane. Danze sempre e comunque già in atto. Nel bene come nel male creative, mai inerti, mai neutrali, e dunque implicitamente – con Bateson: esteticamente – etico-politiche. Danze attraversate dal conflitto di civiltà in atto tra secessione delle élite e nuove fraternità terrestri.
È la via sperimentata da quel diffuso, generativo «ribollire di iniziative private, personali, comunitarie e associative», intrecciato ai neonati movimenti per la giustizia insieme ecologica e sociale, che ha suggerito a Edgar Morin la bella immagine-guida delle «oasi di fraternità» (Morin, 2019, trad. it. p. 46).
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Note
* Testo variamente riveduto del saggio “Fraternità terrestri. Note per un futuro già qui”, comparso in F. Andofi, a cura di, Individualismo solidale, MUP, Parma, 2023. Si ringraziano il curatore e l’editore per aver concesso la presente pubblicazione.
[1] Trad. it. p. 109. La parola «Terra», nell’edizione italiana del volume, traduce il tedesco Erde con l’iniziale minuscola.
[2] Trad. it. p. 22. La parola «trama» traduce qui l’originale «pattern» diversamente da «struttura», com’è nella versione italiana ufficiale.
[3] Il termine è qui da intendersi nel senso “forte”, istituente dell’ordine normativo in atto e non solo conseguente ad esso, che gli è attribuito dagli studi sul capro espiatorio di René Girard (cfr. 1978; Manghi, 2007).